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Perché il calcio inglese è fissato con l'intensità?
28 ott 2018
Andrea ci ha chiesto perché i campionati inglesi sono più intensi rispetto a quelli del resto del mondo. Risponde Dario Saltari.
(articolo)
9 min
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Salve ragazzi, volevo far luce su una questione che mi tormenta da anni.

Non capisco per quale motivazione, nonostante sia la serie A che la Premier League siano campionati dello stesso livello tecnico, le loro partite sono molto più veloci delle nostre, con giocate sempre in verticale e continui scatti dei giocatori. Le fasi di attacco che voi chiamate posizionale, insomma, sono molto più rare delle transizioni.

Inoltre, dando uno sguardo alle statistiche, si vede come i chilometri mediamente percorsi da una squadra inglese in una partita (111,045) siano evidentemente superiori alla media italiana (109,215). Questi dati possono essere influenzati dal differente approccio difensivo delle squadre deciso dal mister (difesa bassa, pressing, …) oppure dalla loro migliore preparazione atletica, ma dal momento che i professionisti dovrebbero allenarsi tutti ad un intensità simile (tralasciando poi che gli inglesi con le loro sessioni dedicate al “Team Building” ed il loro stile di vita, guardando anche come si comporta la nazionale, non mi sembrano proprio dei maratoneti) e poiché storicamente molti allenatori della Premier vengono da fuori, non capisco proprio perché continuino a correre all’impazzata in maniera così peculiare.

Spero voi possiate darmi delle delucidazioni su questo tema

Grazie in anticipo

Andrea

Risponde Dario Saltari

Caro Andrea,

l’intensità del calcio inglese è una questione che continua a dividere non solo i suoi amanti e i suoi critici, ma anche gli stessi addetti ai lavori. Durante la sua prima stagione al Manchester City, ad esempio, Guardiola spiegò le sue difficoltà iniziali proprio con l’intensità fuori controllo della Premier League: «Ho provato a giocare in un modo in tutta la mia carriera, per esempio con il pressing alto, ma qui non è possibile perché spesso la palla è più in aria che sull’erba». «Anche in Germania il calcio è fisico, ma non così», ha aggiunto Guardiola «Qui tutte le squadre, a parte forse il Chelsea di Antonio Conte, sono più alte, più forti fisicamente e ti devi adattare».

Anche noi abbiamo trattato il tema non troppo tempo fa, in un pezzo in cui ci chiedevamo se la Premier League non fosse sopravvalutata proprio per il suo stile iperadrenalinico e ipercinetico, che a volte ne pregiudica la qualità del gioco. Daniele Manusia, in un contributo intitolato “Il culto dell’intensità”, ad esempio scriveva: «La Premier League non viaggia sempre a ritmi altissimi, ma solo quando dà il proprio meglio. E anche in quei momenti, è un gioco divertente, più vicino all’idea di intrattenimento contemporanea (come lo è l’MMA rispetto alla boxe), ma non è sempre calcio di grandissima qualità. Può anche esserlo, ma molto spesso non lo è». Al di là di come tu la pensi, di cosa ti piaccia guardare in una partita di calcio, di cosa consideri bello e cosa no, è indubbio che l’intensità fisica sia il carattere che più contraddistingue il calcio inglese rispetto alle altre grandi scuole calcistiche europee. Come scrive David Winner nel suo Those Feet: «Ai calciatori inglesi è richiesto di dimostrare qualità da Cuor di Leone: forza, potenza, energia, coraggio, lealtà, audacia. Quanto alla delicatezza, all’intelligenza, ai giochi di prestigio, all’immaginazione… beh, quello è il tipo di cose che preferiamo lasciare agli stranieri». Proprio il libro di Winner è il testo fondamentale per capire le ragioni che hanno portato il calcio inglese ad essere così come lo hai descritto, ragioni che risiedono nelle sue stesse origini.

Il calcio nacque tra Inghilterra e Scozia intorno alla metà del diciannovesimo secolo, cioè in piena epoca vittoriana. A quel tempo, l’impero britannico era ossessionato dal suo stesso declino, un’ansia generata principalmente dalla concorrenza geopolitica di nuove potenze industriali come la Germania e gli Stati Uniti, e ne aveva individuato la causa nella “corruzione” delle sue abitudini sessuali, assecondando le tendenze moralistiche e sessuofobe della società vittoriana. In particolare, c’era una cosa che preoccupava più delle altre - più dell’omosessualità, delle malattie veneree, della prostituzione – e cioè la masturbazione.

Ti starai chiedendo cosa c'entri tutto questo con l’intensità della Premier League, e sarebbe una domanda perfettamente legittima se non fosse che la codificazione delle regole che hanno portato il calcio ad essere lo sport che conosciamo oggi nacque principalmente come argine alla “piaga” della masturbazione, che si pensava stesse affliggendo gli uomini inglesi. Winner, in questo senso, sottolinea soprattutto l’opera dei fratelli John Charles ed Edward Thring: il primo fu uno delle figure più importanti nel dibattito tra Università inglesi che portò alla formulazione delle laws of the game (anche se non prese parte alla riunione che nel 1863 diede vita alla Football Association); il secondo invece, come preside della scuola di Uppingham e fondatore della Conferenza dei Presidi, si impegnò nel far diventare gli sport organizzati (come il cricket, il rugby e il calcio per l’appunto) obbligatori nei college. Edward Thring era un “cristiano vigoroso”, come lo descrive Winner, ed era “ossessionato dallo sradicamento dell’atroce peccato della masturbazione”.

In questo senso, lo sport, e il calcio in particolare, era una delle armi principali in questa crociata: non solo stancava fisicamente i ragazzi e li distraeva dai pensieri impuri, ma soprattutto impediva che stessero da soli, che avessero un qualche tipo di privacy, facilitando così il controllo dei possibili trasgressori. Come ha scritto la storica Katy Mullin in James Joyce, Sexuality e Social Purity: «Tutti gli sport di squadra, e il calcio in particolare, vennero introdotti come antidoto al solipsismo».

Essendo nato come antidoto alla masturbazione, ed essendo la masturbazione la ragione principale del declino dell’impero britannico, il calcio divenne espressione principale della manly Englishness, cioè quell’insieme di caratteristiche machiste - come l’ostentazione della forza fisica, l’audacia e l’assenza di pensiero critico – che doveva contraddistinguere ogni buon suddito maschio di Sua Maestà. A questo proposito, Winner ricorda che quando rugby e calcio si divisero, il dibattito regolamentare tra le due fazioni non fu, come si potrebbe pensare, né sull’uso delle mani né sulla forma della palla (se ovale o sferica) quanto sulla possibilità o meno di prendere a calci sugli stinchi gli avversari (poco dopo, comunque, anche il rugby finì per vietarlo).

L’interconnessione tra il calcio inglese e le chiese cristiane impegnate nella battaglia per la purezza è talmente profondo che non solo molti club nacquero come loro diretta derivazione (come Manchester City, Aston Villa, Liverpool, Fulham, Southampton, solo per fare alcuni esempi), ma nel caso del Manchester City arrivò addirittura a toccare l’estetica della squadra: nel 1884 giocò infatti con un completo nero e una croce bianca, in onore alla Lega della Croce Bianca, una delle organizzazioni cristiane più influenti in questo ambito. «In questo clima culturale», scrive Winner «non sorprende che il calcio inglese iniziò a vedere la creatività e l’individualità con sospetto».

Ancor più interessanti sono gli “effetti tattici” che questo clima culturale produsse. Il calcio giocato nelle università inglesi nel diciannovesimo secolo, sia prima che dopo la codificazione ufficiale delle regole del gioco, era molto diverso da quello che conosciamo oggi ed era basato quasi esclusivamente sul dribbling: qualsiasi tipo di tattica collettiva, compreso il passaggio, non esisteva e il gioco consisteva sostanzialmente nel portare la palla con i piedi verso la porta avversaria, con i compagni in appoggio nel caso in cui la palla si perdesse in un contrasto con un avversario. «Passare, cooperare e difendere erano ritenuti comportamenti, per un motivo o per l’altro, non all’altezza», scrive Jonathan Wilson ne La Piramide Rovesciata «Caricare a testa bassa era senza dubbio preferito al pensare, una dimostrazione, alcuni direbbero, dell’attitudine inglese nei confronti della vita in generale».

La strategia di posizionarsi con uno schieramento e passarsi il pallone per ottenere vantaggi che oggi definiremmo tattici in realtà nacque in Scozia e venne importato in Inghilterra solo in un secondo momento. Probabilmente a partire dal 1872, quando la nazionale scozzese riuscì a fermare sullo 0-0 quella inglese nel primo match internazionale della storia schierandosi con il 2-2-6, nonostante fosse di molto inferiore fisicamente e nettamente sfavorita. Non è un caso che nella prima metà del Novecento, i giocatori più creativi e più tecnici del campionato inglese fossero scozzesi, in un certo senso gli antesignani di quello che saranno i francesi con l’avvento della moderna Premier League.

Ti chiederai com’è possibile che questo humus culturale abbia mantenuto la sua forza quasi intatta fino ad oggi. A questo proposito, sono principalmente due le figure che hanno segnato il calcio inglese nella seconda metà del Novecento: Charles Reep e Alf Ramsey. Reep, definito «il padre delle statistiche calcistiche» dal sito specializzato FiveThirtyEight, era un ex ufficiale della RAF che si dedicò allo studio del calcio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1950, dopo aver visto tutte le partite stagionali dello Swindon Town e raccolto i dati a mano, Reep arrivò alla conclusione che la maggior parte dei gol arrivava dopo un massimo di tre passaggi.

Questo assunto, che oggi sappiamo essere fallace, almeno per le squadre delle massime serie, influenzò profondamente il calcio inglese, sia a livello di club che a livello di Nazionale, che si convinse che provare ad arrivare alla porta avversaria con il minor numero di passaggi possibile fosse garanzia di vittoria - che il possesso palla, cioè, fosse sostanzialmente inutile. Questa idea era ben piantata anche nella testa di Alf Ramsey, l’allenatore che portò l’Inghilterra alla vittoria del suo primo e finora unico Mondiale, nel 1966. Ramsey era un uomo molto cerebrale, nonché un allenatore pragmatico e conservatore, secondo Jonathan Wilson «per nulla capace di restare accecato dalla bellezza». Una volta dichiarò: «Noi crediamo moltissimo nell’attaccare velocemente partendo dalla difesa. Una squadra è più vulnerabile quando ha appena concluso la sua azione d’attacco. Se dovessi suggerire un numero ideale di passaggi, direi tre». Nonostante non fosse amatissimo dalla stampa, il fatto che abbia vinto l’unico Mondiale nella storia dell’Inghilterra ha comunque cementato la sua influenza su tutto il calcio inglese durante e dopo gli anni ‘60.

La diffidenza verso i giocatori tecnici, l’egemonia di un gioco diretto, fisico e poco organizzato, iniziò a declinare solo con la nascita della Premier League all’inizio degli anni ’90, e soprattutto con l’affermazione del Manchester United di Ferguson e Cantona prima (un allenatore scozzese e un giocatore francese, per ironia della storia) e con l’Arsenal di Wenger e gli Invincibles poi. Oggi la Premier League è un campionato tatticamente complesso, con alcuni dei giocatori migliori del mondo e molti allenatori stranieri con un bagaglio tattico diverso da quello inglese, ma ha comunque mantenuto la sua identità storica, cioè quella di essere un campionato fisico, adrenalinico, in cui le emozioni vincono spesso sull’immobilismo della tattica. La forza del calcio inglese, che oggi domina economicamente in Europa e nel mondo, è stata proprio quella di trasformare una tradizione retrograda e polverosa in un brand accattivante. Forse i fratelli Thring hanno davvero salvato l’impero britannico dal declino, anche se non nel modo in cui si erano immaginati due secoli fa.

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