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Perché il Mondiale è stato così equilibrato
18 lug 2018
Il motivo va forse ricercato in cambiamenti sociali ed economici più profondi.
(articolo)
9 min
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Al Mondiale del 2014, dopo la sconfitta dell’Italia contro il Costa Rica, Buffon ha dichiarato nel post-partita: «Nel calcio non esistono più cenerentole, soprattutto in una competizione come il Mondiale». Un concetto che l’ex-capitano della Nazionale ha ribadito qualche settimana fa, quando ai microfoni di Sky Sport ha commentato il Mondiale in Russia: «Il calcio si sta livellando e a parte due-tre casi non ci sono cenerentole e tutte le squadre possono ambire a vincere contro chiunque». Buffon non è il solo ad aver notato questa convergenza, e uno sguardo al Mondiale che si è appena concluso conferma questa intuizione, dimostrando che il calcio non è esente dalle mutazioni di un mondo globalizzato. Anzi, le rispecchia.

I riflessi della globalizzazione sul calcio

La globalizzazione, nella sua forma più strettamente economica, è un fenomeno di integrazione dei mercati al livello internazionale, dove l’impianto giuridico-legale degli stati-nazione è votato all’accrescimento degli scambi di capitale. In un’economia di mercato globale sempre più sregolata, il capitale tende ad accumularsi e a concentrarsi in particolari settori e luoghi, a scapito di altri. A livello dei club di calcio europei, gli ultimi due decenni hanno aggravato un divario economico - e quindi di talento - tra le squadre, sia nelle competizioni continentali che nei campionati nazionali.

In un articolo apparso nel 2005 nella Review of International Political Economy, l’economista Branko Milanovic dà un esempio della concentrazione di club di élite al livello europeo, calcolando il numero di club arrivati ai quarti di finale della Coppa dei Campioni/Champions League in periodi di cinque anni, dal 1958 al 2002 (il minimo è 8, il massimo 40). In questa tabella abbiamo aggiunto i periodi successivi alla pubblicazione del suo articolo (2003-2017), che confermano in pieno l’idea di fondo:

Se si immagina la sentenza Bosman del 1995 come spartiacque nella globalizzazione del calcio, il periodo da quell’anno ad oggi evidenzia una concentrazione di talento a certi livelli nelle mani di un numero sempre più piccolo di club. Karl Marx stesso, che di pallone ne sapeva poco, aveva comunque intuito questo processo nel Volume I del Capitale, pubblicato nel 1867: «Si tratta della trasformazione di molti capitali minori in pochi capitali più grossi […] Il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare una grande massa, perché là in molte mani va perduto». Esclusa la Russia, qualificata d’ufficio come organizzatrice, più o meno la metà dei giocatori delle squadre qualificate ai Mondiali—cioè i migliori al mondo—giocano in cinque campionati (Inghilterra, Spagna, Germania, Italia, Francia). Dato ancora più flagrante, 112 dei 736 giocatori che hanno partecipato al Mondiale (più del 15%) militano in soli nove club (Man City, Real Madrid, Barcelona, PSG, Tottenham, Chelsea, Bayern, Man Utd, Juventus).

Se i club tendono ad essere sempre più diseguali nell'accumulazione della ricchezza (e quindi nella capacità di attrarre talento), le Nazionali al contrario tendono ad avvicinarsi sempre di più. Un trend diventato piuttosto evidente nell’ultimo mese, con le grandi prestazioni di squadre meno blasonate (come Belgio, Croazia, Senegal, Giappone e Svezia) e le delusioni di nazionali “storiche” (Germania, Argentina, Spagna e Brasile). Quello russo è stato anche il primo Mondiale senza una tra Germania, Argentina o Brasile in semifinale.

Il livellamento delle Nazionali si è anche notato dalla differenza reti tra squadre dal ranking FIFA superiore e inferiore, come spiegato in un articolo di ESPN pubblicato dopo gli ottavi di finale. Le squadre con il ranking più alto hanno avuto una differenza reti di +13, molto di meno rispetto al +43 del Mondiale del 2014 e del +39 del Mondiale sudafricano. Certo, il ranking FIFA non è un’illustrazione perfetta della qualità di una squadra, ma la differenza è troppo evidente per non avere una sua rilevanza.

Le "rimesse calcistiche"

Ma la globalizzazione economica non trasferisce solo talento e ricchezza da una parte del mondo verso un’altra (di solito dai paesi esportatori ai paesi con un tessuto industriale dall'alto valore aggiunto), ma tende anche a produrre un circuito secondario di ridistribuzione nella forma delle rimesse. I migranti che si sono trasferiti nei paesi ricchi spediscono denaro e informazioni ai propri familiari rimasti nei paesi d'origine, creando un circolo virtuoso che finisce per arricchire in parte anche i paesi poveri.

Possiamo intravedere questo meccanismo anche nel calcio. La “fuga delle gambe”, corollario calcistico della “fuga dei cervelli”, trova una conseguenza positiva quando a giocare non sono i club, ma le nazionali. I giocatori cresciuti nei principali campionati europei sviluppano un bagaglio tecnico-tattico che altrimenti non avrebbero avuto, che riportano poi in Nazionale in occasione dei principali tornei.

Secondo dati del CIES Football Observatory, il 65% dei giocatori di questo Mondiale sono "migranti", ovvero non giocano in un club della nazione in cui sono nati. Escludendo Russia e Inghilterra, le sei altre squadre qualificatesi ai quarti di finale hanno una media dell’88% dei giocatori in rosa che giocano in campionati stranieri. Questo corrisponde ad un trend storico di aumento della mobilità internazionale dei giocatori, un’evoluzione evidenziata da questo grafico.

Fonte: Henry Bushnell/Yahoo Sports.

Non tutte le nazionali indicate in questo grafico hanno fatto un bel Mondiale (per esempio Marocco e Iran), ma è indubbio che in tutte queste squadre ci sia stato un aumento del talento diffuso che le ha rese più competitive. In ogni caso, il trend è chiaro: dall’edizione del 1994 a quella che si è appena conclusa si nota un aumento - chi più, chi meno - dei giocatori che giocano in campionati all’estero.

Prendiamo due esempi di squadre eccitanti, ma eliminate già ai gironi: Senegal e Marocco. Entrambe hanno prodotto un gioco veloce con grande creatività offensiva, e se il Marocco ha patito la mancanza del cinismo di un finalizzatore, il Senegal è stato beffato da qualche ingenuità difensive (il gol della Colombia) e dalla regola del fair-play per il passaggio del turno.

21 dei 23 giocatori nella rosa del Senegal a questo Mondiale giocano in Europa, e solo il terzo portiere gioca in un club africano. Nel 2002, quando il Senegal batté la Francia nella partita inaugurale e raggiunse i quarti di finale, addirittura 21 giocatori giocavano nel campionato francese, tra cui Aliou Cissé, l’allora capitano della Nazionale e difensore del Montpellier, e ora allenatore del Senegal. Ovviamente il passato coloniale, come accade quasi sempre, si intreccia con i percorsi di globalizzazione. Il Marocco, ad esempio, aveva ben 17 dei giocatori in rosa nati in Europa, figli di immigrati marocchini in Olanda, Belgio e Francia.

Il fenomeno della “rimessa calcistica”, se così possiamo chiamarla, verso il paese di origine si realizza spesso nel caso della Nazionale marocchina con una generazione di ritardo, quando ragionamenti sportivi o un attaccamento simbolico e culturale al paese dei genitori fa scegliere a questi giocatori di vestire la maglia del Marocco dopo aver giocato nelle giovanili di nazionali europee. Nella loro precedente partecipazione al Mondiale, nel 1998, appena due giocatori marocchini erano nati all’estero.

La globalizzazione degli allenatori

Oltre alla "migrazione" dei giocatori, anche gli scambi di informazioni tra un paese e l'altro in un contesto di globalizzazione portano ad un livellamento delle nazionali, non solo al livello dei risultati ma anche del tipo di gioco proposto. Quasi un terzo delle squadre di questo Mondiale aveva allenatori stranieri, che con le loro culture calcistiche hanno portato ad un’uniformizzazione del gioco delle Nazionali, che possono perdere delle tradizioni tattiche che sembravano intoccabili.

Una squadra che possiamo prendere ad esempio in questo caso è l’Iran. Anche se solo il 42% dei giocatori giocano all’estero (frutto anche del contesto geopolitico particolare), l'Iran aveva in panchina il portoghese Carlos Queiroz, che aveva portato in campo una specie di “cholismo sciita” fatto di abnegazione, sacrificio e una disciplina tattica impressionante in fase difensiva. L’Arabia Saudita potrebbe rappresentare un altro esempio, meno ovvio, di questa globalizzazione calcistica. La Nazionale araba era composta da tutti i giocatori in rosa giocano nel campionato saudita, ma era guidata dall’ex-allenatore del Cile Juan Antonio Pizzi, che aveva optato invece per un gioco di possesso molto ambizioso (forse troppo, visto poi com'è andato il Mondiale).

Forse, riprendendo le dichiarazioni di Buffon, si potrebbe dire che nel calcio delle nazionali non esistono più cenerentole, insistendo sull’idea che se le cosiddette squadre materasso sembrano scomparse dalle competizioni internazionali, sono invece sempre più presenti nel calcio di club. Con il Mondiale (e ancor di più con l'allargamento, che forse sarà già in auge nel 2022, a 48 squadre), la FIFA garantisce che la ricchezza prodotta nei luoghi calcisticamente ricchi venga ridistribuita nelle nazioni dal quale il capitale calcistico viene estratto.

Certo, vista l'opacità e la corruzione a cui ci ha abituati la FIFA, sarebbe ingenuo sostenere che è un’istituzione votata a mitigare le disuguaglianze e gli effetti deleteri della globalizzazione. Sepp Blatter era probabilmente più interessato alla sua rielezione quando intraprese nel 1999 un programma di ridistribuzione a favore delle piccole nazioni calcistiche (e non bisogna nemmeno dimenticare che i fondi distribuiti dalla FIFA per lo sviluppo calcistico in questi paesi sono stati spesso intascati da dirigenti di federazione poco scrupolosi). Nella FIFA ogni federazione, al di là della sua grandezza o del suo prestigio, ha un voto.

A prescindere comunque dalle modalità della ridistribuzione di ricchezze, il semplice fatto che le nazionali esistono e che i giocatori possano scegliere per il loro paese d’origine garantisce che le squadre più "piccole" possano trarre beneficio dalle rimesse tecnico-tattiche dei propri calciatori, e dalla circolazione di informazione e competenze su scala globale. In questo senso, la FIFA può essere davvero vista come un’organizzazione internazionale volta a garantire, almeno ogni quattro anni, questa ridistribuzione del talento.

Se esistesse un’organizzazione internazionale simile anche fuori dal mondo del calcio, capace di controllare e ridistribuire i capitali al livello globale, forse questo permetterebbe di far sì che i benefici economici della globalizzazione siano meno concentrati. Il calcio rispecchia la dialettica del capitalismo globalizzato, tra tanta concentrazione di potere nelle mani di sempre meno persone, ma anche distribuzione di ricchezze, competenza e talento verso i paesi emergenti. L’idea che un’organizzazione internazionale possa imporre regole e farle rispettare per garantire questa distribuzione, come nel calcio, offre la possibilità di immaginare una globalizzazione diversa e migliore, attraverso la quale il movimento libero delle persone alla ricerca di opportunità andrebbe di pari passo con un controllo internazionale dei capitali, per assicurarne una distribuzione globale più equa.

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