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Perché in NBA si sta segnando così tanto
11 gen 2023
Oltre i 71 di Donovan Mitchell c’è molto di più.
(articolo)
19 min
(copertina)
Melissa Tamez/Icon Sportswire
(copertina) Melissa Tamez/Icon Sportswire
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Siamo arrivati a malapena alla metà della regular season NBA e i record realizzativi si rincorrono con una frequenza quasi quotidiana. Il 2023 non è iniziato che da una decina di giorni e già abbiamo assistito a 94 prestazioni da almeno 40 punti, quattordici da almeno 50 e due sopra i 60, di cui quella che ha fatto certamente più rumore è stata quella di Donovan Mitchell da 71 contro i Chicago Bulls — l’ottava migliore di tutti i tempi, nonché la seconda migliore di questo secolo dopo i leggendari 81 di Kobe Bryant nel 2006.

La prestazione di Mitchell è arrivata a suggellare una ventina di giorni assolutamente folle a cavallo delle feste, visto che dal 20 dicembre in poi si sono concentrate ben 38 di quelle 94 prestazioni da almeno 40 punti, realizzate peraltro quasi tutte da giocatori diversi (solo Doncic, Tatum, Embiid, Jokic, Antetokounmpo, LaVine, McCollum e DeRozan ne hanno più di una). Continuando di questo passo, il record di 142 “quarantelli” in una stagione che resiste dal lontano 1961-62 — la stagione dei 50 di media di Wilt Chamberlain, che ne fece 63 da solo, anche se c'erano nove squadre e si giocarono 360 partite in tutto — verrebbe sbriciolato, confermando il 2022-23 come la stagione col rendimento offensivo più alto di tutti i tempi. Per dare un parametro oggettivo: attualmente siamo a 113.6 punti segnati su 100 possessi e secondo il database di Basketball-Reference è il dato più alto dal 1973-74 a oggi.

Come ogni volta che accade qualcosa che va fuori dall’ordinario, o come spesso accade quando si vuole trovare la spiegazione più facile e veloce a un fenomeno complesso (o, peggio ancora, improvviso, visto che le prestazioni mostruose si sono concentrate in un brevissimo lasso di tempo), sui social si è levato alto il coro del “La NBA è un circo / Non difende più nessuno / Non si può andare avanti così, bisogna fare qualcosa”. Per la verità il fatto che il rendimento offensivo sia esploso non è una peculiarità di questa stagione, ma conferma un trend in atto già da diversi anni: le ultime sette stagioni occupano le prime sette posizioni per offensive rating (punti segnati parametrati su 100 possessi) nel database di Basketball-Reference, così come logicamente anche la percentuale effettiva dal campo (quest’anno al 54.1%) e ai liberi (78%) sono al massimo di sempre, ma anche il minor numero di palle perse in riferimento ai possessi giocati.

E contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il numero di possessi non è così alto: la stagione 2019-20, la più alta dell’epoca “moderna”, è solamente al 16° posto per numero di possessi in una classifica dominata dagli anni ’70 e ’80 nei quali davvero si correva in maniera spericolata, ma dove non si sapeva bene cosa farsene di tutti quei possessi e di quella cosa strana chiamata “tiro da tre” di cui non si sentiva poi così tanto l’introduzione nel 1979. Di cose, nella NBA e nel mondo, ne sono cambiate un bel po’.

Volendo andare oltre le spiegazioni facili ma cercando di analizzare vari aspetti di un fenomeno per sua stessa natura sfaccettato, ho individuato dieci motivi per cui quest’anno in particolare si sta segnando così tanto e perché il trend, seppur pieno di variabili, è destinato a continuare anche nel prossimo futuro. Nessuno preso singolarmente spiega quello che sta succedendo, ma messi tutti assieme aiutano a farsi un’idea di quanto sta accadendo in questa stagione così particolare. Ultima premessa: quanto segue non è un giudizio estetico o di valore, cioè non è necessariamente meglio o giusto che vada così, ma è semplicemente il tentativo di fotografare le condizioni storiche che hanno permesso l’esplosione a cui stiamo assistendo. Cercare di capirne un po’ di più, insomma.

Chiunque può segnare 130 punti

Un dato salta all’occhio di questa stagione: il peggior attacco della lega, quello degli Charlotte Hornets, viaggia comunque a una media di 109 punti su 100 possessi (dati Cleaning The Glass, che toglie il garbage time e i tiri da metà campo allo scadere dei quarti). Gli Hornets segnano quasi 5 punti su 100 possessi in più rispetto al peggiore dello scorso anno, quello degli Orlando Magic, e si sarebbe posizionato al sesto posto non più tardi di sette anni fa e addirittura terzo nel 2011-12.

Per renderci conto di quanto sia strano tutto questo, basti pensare che gli Hornets hanno rifilato 51 punti nel primo quarto a una contender per il titolo come i Milwaukee Bucks, e nel corso di questa stagione abbiamo avuto altri esempi di come qualsiasi squadra possa avere esplosioni offensive improvvise e non prevedibili. Basta chiedere per spiegazioni ai Boston Celtics, che si sono visti piovere in testa 150 punti dagli Oklahoma City Thunder senza Shai Gilgeous-Alexander non più tardi di una settimana fa: nella NBA del 2022-23, non ci si può distrarre contro nessuno perché tutti hanno almeno un giocatore in grado di esplodere in qualsiasi momento (siamo a livelli di record anche per singoli quarti da 20+ punti realizzati) o una batteria di tiratori che, nella serata giusta, può mandare per aria qualsiasi sistema difensivo.

Un aspetto da segnalare: i 71 punti di Mitchell sono stati tutti necessari ai Cavs per vincere la partita contro i Bulls, rimettendo in piedi una gara con un miracolo dopo un tiro libero sbagliato appositamente per mandare la partita al supplementare. La stessa cosa che ha dovuto fare Luka Doncic contro New York per realizzare la suatripla doppia da 60-21-10 a fine 2022. Le esplosioni offensive a cui siamo assistendo, insomma, non sono un esercizi di stile per il gusto di farli, ma prestazioni necessarie per vincere partite tirate.

Regole più favorevoli per gli attaccanti

Più che una particolarità di questa stagione, è anche questa la conferma di un trend che va avanti da un po’: la modifica del regolamento per favorire la libertà di movimento degli attaccanti sul perimetro ha aperto il gioco e lo ha reso più elettrizzante da vedere, ma ha anche reso enormemente più difficile la vita ai difensori che cercando di arginare gli squali offensivi che navigano i campi NBA.

Ad avere un piccolo effetto sul rendimento offensivo, anche se le statistiche ancora non confermano un cambiamento così significativo, c’è l’introduzione del take foul per cercare di evitare i “falli tattici” a metà campo per fermare il contropiede avversario. Una modifica del regolamento attesa lungamente e che ha effettivamente aiutato a vedere più gioco in transizione, notoriamente una delle situazioni di gioco più efficienti in assoluto visto che anche la peggior squadra in transizione della lega (i Dallas Mavericks) producono 1.13 punti per azione in transizione, un dato superiore a molte altre situazioni di gioco.

Maggiore efficienza nelle scelte offensive

Uno degli aspetti più sottovalutati quando si tratta di analizzare la pallacanestro che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni è quanto i giocatori a livello individuale e le squadre a livello collettivo abbiano migliorato le loro scelte offensive sia in termini di tiri presi che di situazioni di gioco da cavalcare e, soprattutto, quelle da evitare. Ormai tutti i giocatori sanno individualmente quali sono le situazioni più efficienti sia in generale che per le loro caratteristiche, e quelle che invece possono portarli a guadagnarsi un biglietto di sola andata per la panchina, così come i coaching staff allenano le proprie squadre a prendersi certi tipi di tiri e non altri.

Ovviamente ogni squadra e ogni giocatore fanno storia a sé, ma è ormai chiaro a tutti quali siano i vantaggi nel prendersi più tiri da tre punti rispetto a quelli dalla media distanza, e che i i tiri al ferro e i tiri liberi siano i più remunerativi di tutti. Questo può portare anche a degli eccessi come certe versioni degli Houston Rockets dell’era James Harden-Daryl Morey, e non è detto che con una mappa di tiro fortemente improntata ai tiri dalla media distanza non si possa vincere (non più tardi dello scorso anno i Phoenix Suns ci hanno vinto 64 partite martellando dal mid-range). Ma in generale le squadre hanno un numero considerevole di dati in mano per capire a livello generale cosa funziona e cosa no, ritagliandolo poi sulle caratteristiche dei propri giocatori per rendere più efficienti ed efficaci i loro attacchi.

Lo sdoganamento del tiro dal palleggio da tre

La vera rivoluzione portata da Steph Curry e il suo effetto duraturo sulla lega si vede dal modo in cui la tripla dal palleggio, un tempo considerata quasi alla stregua di un’eresia, sia ormai sdoganata come una soluzione non solo utile, ma perfino necessaria per qualsiasi giocatore perimetrale che voglia avere il pallone tra le mani. Quest’anno sono ben 17 i giocatori che tentano almeno 4 triple dal palleggio a partita: solamente cinque anni fa erano appena 5, nel 2013-14 solamente Curry si era guadagnato il diritto di provarne 5 a partita.

Il tiro dal palleggio ha effetti evidenti su come le difese devono difendere, allungando a dismisura la quantità di campo da dover coprire ad ogni secondo. Anche senza arrivare al picco di Curry, che diventa una minaccia non appena supera la metà campo, le difese non possono più permettersi il lusso di “aspettare” nessuno, perché una tripla senza ritmo può arrivare da ogni posizione del campo e in qualsiasi momento. E nelle mani non solo di Curry (che tira un assurdo 47.6% dal palleggio, e vabbè), ma anche in quelle di Donovan Mitchell, Tyrese Haliburton, Tyler Herro o Desmond Bane diventa un tiro da 40% e oltre. E difendere un’area di campo lunga 9 o 10 metri e larga 15 (perché gli angoli sono sempre occupati da tiratori che sempre più spesso non si possono lasciare liberi) è un’impresa complicatissima.

La NBA del 2023 è quella lega nella quale anche un 11/13 da tre punti di Zach LaVine può passare quasi sotto silenzio, visto quello che è successo nelle ultime settimane. Eppure nella storia della NBA solo Steph Curry con i memorabili 54 punti al Madison Square Garden nel 2013 ha avuto una percentuale dell’84.6% con almeno 11 triple a segno.

Il campo è più largo (e quindi si tira di più al ferro)

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nelle ultime stagioni il trend che sembrava inarrestabile di una sempre maggiore frequenza del tiro da tre punti si è arrestata: dal 2010-11 al 2019-20 la crescita è stata vertiginosa, passando da 19.4 a 33.8 tiri da tre punti tentati su 100 possessi, ma è salito al massimo a 35.6 lo scorso anno ed è perfino in discesa in questa prima metà di stagione a 34.2, poco meno rispetto al 34.7 del 2020-21.

A essere aumentati, semmai, sono i tiri al ferro e i tiri liberi, che sono in leggera salita rispetto al passato sia in termini di frequenza che in termini di efficienza. Con quintetti sempre più bassi e aree sempre più libere, arrivare in tempo per contrastare le conclusioni al ferro è diventato sempre più complicato, visto che gli stoppatori vengono sempre maggiormente “portati fuori” dalla pericolosità perimetrale avversaria. I giocatori NBA sono dei superatleti, ma anche per loro diventa difficile essere contemporaneamente in due posti: il dono dell’ubiquità è davvero per pochissimi, e infatti essere versatili è la chiave per poter vincere. Non è che in NBA “non si difende più”: è che difendere è diventato incredibilmente più difficile, e le difese non sono riuscite a tenere il passo dell’aumentare delle skill offensive dei giocatori.

Maggiore riposo per le stelle

Un altro aspetto che differenzia questa era dalle precedenti è la maggiore attenzione al calendario e allo sforzo fisico dei giocatori. La NBA sta cercando il più possibile di diminuire i viaggi e i back-to-back per le squadre rendendo il calendario il più efficiente possibile (spesso organizzando anche due gare in fila tra le stesse squadre per ridurre gli spostamenti), ma dove non arriva la lega è ormai diventata la prassi concedere qualche partita di riposo alle stelle non appena il calendario si fa troppo congestionato a livello di partite o il fisico da segni di affaticamento, spesso programmando con largo anticipo le gare da saltare.

Questo permette generalmente ai giocatori migliori di essere più freschi quando decidono di “spendere il gettone”, per usare una terminologia cara a Federico Buffa: nelle serate in cui sono in ritmo, i giocatori migliori possono contare su una riserva di energia che i loro corrispettivi del passato non avevano, né in termini di preparazione fisica, né di comodità di viaggio, né di tecnologie per il recupero e per la gestione del proprio corpo. Sia chiaro: il tema del “load management” è decisamente spinoso per la NBA, che spesso si ritrova a fare i conti con partite poco significative data l’assenza dei migliori giocatori per piccoli o grandi acciacchi, ma è indubbio che sia uno degli aspetti che permette alle superstar di avere una marcia in più per le loro esplosioni offensive.

Attacchi eliocentrici

Un altro aspetto che contraddistingue questa stagione rispetto alle altre è che sempre più spesso le squadre organizzano i loro giochi offensivi attorno a un singolo giocatore, in quello che viene definito come un “sistema eliocentrico”. La palla è per la maggior parte del tempo nelle mani del miglior giocatore offensivo della squadra, che viene messo nelle migliori condizioni possibili non solo per esprimere il suo talento, ma anche per togliere responsabilità offensive ai compagni che a loro volta vengono messi nelle condizioni ideali per fare solo quello che sanno fare meglio in attacco, dannandosi invece l’anima in difesa anche per proteggere la stella chiamata a farsi carico di tutto il peso offensivo.

L’esempio più evidente sotto questo punto di vista è rappresentato dai Dallas Mavericks di Luka Doncic, una squadra che sembra perdere l’anima in attacco non appena lo sloveno esce dal campo (15.7 i punti di differenza in attacco tra quando c’è e quando non c’è, mentre in difesa migliorano). Ma in generale sono 28 i giocatori con almeno il 30% di Usage (cioè di possessi “utilizzati” con un tiro, un assist, un fallo guadagnato o una palla persa), un dato incredibilmente in ascesa rispetto a 20 anni fa (solamente Allen Iverson nel 2003-04 superava quella soglia) o a 10 anni fa (erano 10 nel 2012-13).

Quello che rende ancora più speciali gli “accentratori di palloni” di oggi è però l’efficienza che riescono a mantenere all’aumentare delle responsabilità: dei 28 giocatori con Usage sopra quota 30, ben 22 tirano meglio rispetto alla media del loro ruolo, con picchi di efficienza assoluta come quello di Nikola Jokic (un astronomico 1.38 punti per tiro tentato, paradossalmente solo col 30% di Usage buono a malapena per rientrare in questo gruppo) o di Steph Curry (anche lui a quota 1.38, seppur con una selezione di tiri molto diversa rispetto al serbo). Il ragionamento è logico: se metto il maggior numero di palloni possibili nelle mani del mio giocatore migliore in termini di efficienza e talento, il risultato per il mio attacco non può che essere positivo — e le esplosioni offensive individuali aumentano di pari passo.

Le scelte difensive delle difese

Le superstar di oggi sono talmente forti che ogni tanto capita che le squadre rinuncino quasi a priori al tentativo di cercare di contenerli, preferendo evitare che gli altri quattro giocatori in campo entrino in ritmo e provando a “farsi battere” solamente da uno. È quello che spesso viene fatto contro Doncic e che è accaduto ad esempio nella sfida al TD Garden contro i Boston Celtics: i vice-campioni in carica hanno espressamente dichiarato che Doncic avrebbe potuto prendersi tutti i tiri dal palleggio che voleva, piuttosto che vederselo continuamente al ferro, in lunetta o — peggio ancora — vedere entrare in ritmo i suoi compagni appostati sul perimetro in attesa dei suoi passaggi.

La scelta dei Celtics è evidente nel concedere l’uno contro uno a Doncic, e ciò nonostante ha comunque finito con 9 assist.

Certo, ci vuole una difesa del livello di quella dei Celtics, e Doncic ha comunque finito quella partita con 42 punti in 40 minuti, ma una piccola parte delle esplosioni offensive si può spiegare anche con la decisione delle difese che preferiscono farsi battere da un solo giocatore piuttosto che da cinque, sperando che lo sforzo fisico profuso dal singolo e lo scarso ritmo dei suoi compagni di squadra finiscano per dare i risultati sperati. Per la verità, non si tratta neanche di una tattica così nuova: specialmente nei playoff, non portare raddoppi sulla stella avversaria anche a costo di vedere massacrato il proprio difensore in marcatura individuale è stata spesso utilizzata negli anni come scelta difensiva. Perdere la battaglia contro l'individuo per vincere la guerra contro l'altra squadra può essere una tattica, anche se non sempre funziona: molto spesso il rendimento sorprendentemente positivo (o negativo) di una squadra in difesa dipende da fattori che non dipendono strettamente dal loro controllo, come ad esempio le percentuali avversarie sulle triple smarcate (quindi con 2 o più metri di vantaggio sul difensore più vicino). Più spesso che no, anche la fortuna ha il suo peso.

La fine degli specialisti e l’ascesa dei versatiloni

Greg Anthony e Channing Frye, due ex giocatori NBA di buon ma non altissimo livello, recentemente su NBA TV hanno avuto un illuminante scambio riguardo alla pallacanestro di oggi e le differenze rispetto a quando giocavano loro. Bisogna ovviamente prendere con le pinze quello che hanno detto, visto che si trovavano sulla tv ufficiale della NBA e non potevano certo dire qualcosa di negativo sul prodotto che l’emittente trasmette e vende, ma ho trovato comunque interessante un passaggio in particolare.

Dice Channing Frye: «Io sono l’ultimo di una generazione nella cui esistevano gli specialisti: in quintetto c’erano due difensori, un realizzatore e un passatore. Ora ci sono cinque giocatori disseminati lungo tutto il campo che sanno fare più di una cosa». Greg Anthony ha continuato: «Ai nostri tempi potevi segnare 6 o 7 punti di media ed essere un titolare in campo anche solo come specialista difensivo. Lo stesso giocatore oggi deve essere capace di segnarne 16 o 17 di media, deve essere un 3&D, deve essere in grado di dare qualcosa in attacco perché altrimenti le difese possono ignorarlo».

Questa rappresenta un’inversione totale rispetto a quello che si pensava riguardo i giocatori che formavano il cosiddetto supporting cast. Negli anni ’90 o anche negli anni 2000, si diceva che un giocatore medio non poteva far parte della NBA se non possedeva una singola skill a livello élite, che fosse tirare, passare, difendere o andare a rimbalzo, dando vita agli “specialisti”. Oggi è esattamente vero il contrario: i giocatori moderni devono essere in grado di fare tutte quelle cose almeno a un livello buono, altrimenti rischiano di essere dannosi per le loro squadre e compromettere le spaziature in attacco o la consistenza difensiva. Quella di oggi è l’era dei “versatiloni”: giocatori che magari non spiccano in niente, ma non vengono nemmeno individuati dalle squadre avversarie come punti deboli da poter sfruttare. Se non puoi essere un “plus”, perché comunque le stelle rimangono stelle in qualsiasi era, già non essere un “malus” ti permette di ritagliarti una lunga carriera in questa NBA, spesso anche remunerativa se accompagnata da percentuali da tre punti superiori al 40% nell’anno giusto.

Il talento dei giocatori di oggi è senza senso

Le nove motivazioni scritte in precedenza potevano essere messe tutte tranquillamente da parte rispetto al punto centrale dell’intera questione, e cioè che il talento dei migliori giocatori della lega in questo momento è probabilmente il più alto di sempre. Praticamente in ognuna delle 30 squadre c’è almeno un giocatore capace di esplodere in ogni singolo momento, e nelle migliori squadre troneggiano quelli capaci di farlo sera dopo sera, ininterrottamente o quasi, per mesi e mesi di regular season per poi alzare ulteriormente il livello durante i playoff, e utilizzare l'estate per migliorare ulteriormente a livello individuale. La corsa per il premio di MVP ne è la dimostrazione: ogni anno ormai si parte con una dozzina di candidati che hanno tutti legittime aspirazioni di vincerlo, e solo la costanza di rendimento nel corso della regular season dà una concreta chance di giocarsela fino in fondo.

Le superstar di oggi fanno cose che quelle di ieri, semplicemente, non potevano o non riuscivano a fare. Centri come Joel Embiid e Nikola Jokic — giusto per fare due esempi del top delle ultime stagioni almeno nella corsa al premio di MVP — sono capaci di fare qualsiasi cosa in attacco, unendo sia il gioco spalle a canestro dei “centri classici” a tutto un arsenale di movimenti fronte a canestro e coinvolgimento dei compagni che li rende inarrestabili. Quello che differenzia una stella da una superstar è che per una stella puoi provare ad approntare un piano per arginarla, ma per una superstar sei totalmente alla sua mercé: in certi momenti, puoi solamente sperare che sbagli. Giocatori come Giannis Antetokounmpo, Kevin Durant, Steph Curry, LeBron James sono già oggi tra i 75 più grandi di tutti i tempi, e probabilmente nei primi 25 a stare larghi. In questa stagione ci sono sei giocatori che viaggiano sopra i 30 punti di media (se si confermassero fino a fine anno sarebbe record ogni epoca) e 55 sopra i 20: che cosa puoi fare contro certi mostri se non sperare che siano in serata storta?

Soprattutto, rispetto agli anni ’90 o 2000, la NBA di oggi può pescare a piene mani da un bacino di talento enormemente più ampio rispetto al passato, visto che il gioco è ormai definitivamente globale. Non a caso, gli ultimi quattro MVP sono finiti in mani europee (due Antetokounmpo e due Jokic) e in arrivo c’è un altro mostro internazionale come il francese Victor Wembanyama, rendendo normale che i giocatori internazionali siano considerati in tutto e per tutto tra i migliori giocatori della lega, cosa che ai tempi di Drazen Petrovic o anche solo di Dirk Nowitzki era impensabile.

Può benissimo essere che da adesso in poi non si vedano più prestazioni così mostruose come ne abbiamo viste nelle ultime settimane e che i giocatori NBA rallentino il ritmo, magari cercando di gestire lo sforzo in vista dei playoff. Ma c’è anche da considerare che in questa particolare regular season ogni partita conta, visto che lo scarto molto ridotto tra le varie squadre e l’introduzione del torneo play-in che permette a quasi tutte, con il giusto filotto di vittorie, di rimettersi in carreggiata. Spesso prestazioni sopra i 40 o i 50 punti sono necessarie per dare la migliore chance di vincere alle proprie squadre che sono in corsa per qualcosa: delle 94 gare da 40+, nessuna è stata registrata da giocatori delle cinque peggiori squadre della lega (Houston, Detroit, Charlotte, San Antonio e Orlando), solo una dalla sesta peggiore (Kristaps Porzingis da 41 con Washington, che comunque non ha ancora dato su la stagione), una dalla settima peggiore (Pascal Siakam da 52 per vincere a New York) e tre dall’ottava peggiore (tutte di Shai Gilgeous-Alexander con OKC, che comunque non è lontana dal 50% di vittorie).

Ogni tanto, più che cercare di bollare la NBA come “un circo” o come “non difende più nessuno”, conviene andare un minimo più in profondità nell’analisi di una lega che certamente non è priva di difetti o di aspetti che possono non piacere, ma che altrettanto certamente sta attraversando un momento storico speciale a livello di talento individuale dei suoi protagonisti.

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