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Perché tutti questi infortuni al legamento crociato del ginocchio?
08 ott 2024
08 ott 2024
Quelli di Zapata e Carvajal hanno riaperto un dibattito che va avanti da tempo.
(copertina)
IMAGO / NurPhoto
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Il tempo di mettersi alle spalle l’infortunio al ginocchio di Gleison Bremer durante Lipsia-Juventus di mercoledì scorso, e Torino si è di nuovo ritrovata ad avere a che fare con uno dei peggiori infortuni per un calciatore: una lesione al legamento crociato anteriore. Questa volta a cedere è stato quello di Duvan Zapata, uscito dal campo di San Siro in barella, e in lacrime, nel corso del secondo tempo di Inter-Torino. Una scena già vista e rivista, purtroppo.

Al pubblico italiano, inevitabilmente, sarà tornata alla memoria un’estate segnata da simili guai fisici di Gianluca Scamacca e Giorgio Scalvini, assenti agli ultimi Europei proprio per un infortunio al ginocchio; e nel caso del Torino, anche il caso di Perr Schuurs, uscito malconcio quasi un anno fa da un’altra sfida contro l’Inter.

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Attualmente in Serie A ci sono tredici lungodegenti accomunati dalla stessa sorte - oltre ai già citati: Florenzi, Cambiaghi, Ebuehi, Kaba, Circati, Sazonov e Kowalski - e la situazione non cambia negli altri campionati europei. Ad esempio, nelle ultime settimane si sono aggiunti due protagonisti del successo spagnolo ad Euro 2024: Rodri e Daniel Carvajal; e se il caso a noi vicino del Torino ci può sembrare particolarmente sfortunato, c’è a chi è andata ancora peggio. Il Real Madrid, infatti, negli ultimi dodici mesi ha perso ben cinque giocatori con lo stesso, inesorabile responso dell’infermeria.

Da gennaio ad oggi nei cinque principali campionati europei sono stati 38 casi di “ACL (Anterior Cruciate Ligament) injuries” (di cui 17 nella stagione appena iniziata; in Serie A la media è di 12 infortuni di questo tipo a stagione) ed era inevitabile che questo riaprisse il dibattito sulle loro cause, se i calendari sempre più fitti non stiano contribuendo. In questi casi si ha sempre l’inclinazione ad arrivare a conclusioni affrettate ma la frammentazione della comunità scientifica su questo tema ci spinge a fermarci un attimo a riflettere, a rimanere sull’orlo della conversazione per approfondire.

Innanzitutto va detto che, se nel calcio maschile il problema è preoccupante, in quello femminile lo è ancora di più. Negli ultimi anni le lesioni al legamento crociato si sono trasformate in un’autentica piaga per le giocatrici, con proporzioni abbondamente più rilevanti rispetto agli uomini. Tale discrepanza, però, è spiegata - almeno in parte - dalla medicina: se i fattori biomeccanici di rischio sono ovviamente simili, trattandosi dello stesso sport, a divergere sono invece le strutture neuromuscolari di atlete e atleti. Nello specifico, c’è un diffuso consenso intorno ad alcuni elementi: la maggior apertura del bacino femminile, che può incidere sul valgismo del ginocchio; le differenze a livello di mobilità articolare e lassità legamentosa; lo spessore dello stesso legamento crociato anteriore, leggermente inferiore nelle donne. Fattori anatomici, questi, cui si aggiunge l’enorme disparità in termini di risorse a disposizione del movimento, con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda prevenzione, riabilitazione, spostamenti, personale, strumenti ed equipaggiamento. Ed è così che si è arrivati a parlare, prendendo in prestito un’espressione usata dal New York Times l’estate scorsa, di “epidemia di infortuni al legamento crociato”.

Fortunatamente il progresso della chirurgia e della medicina sportiva negli ultimi due decenni, insieme alle accresciute conoscenze nel campo riabilitativo, hanno ridotto in modo significativo le conseguenze di questo infortunio. Che rimane grave, certo: generalmente è sinonimo di sette-otto mesi di inattività (che possono arrivare fino a dodici in caso di coinvolgimento di altre parti del ginocchio), cui se ne aggiungono altrettanti, almeno, per il ritorno agli standard fisici precedenti al trauma. D’altra parte, l’esito positivo del test di Lachman (con cui per l’appunto si diagnostica questa lesione) non rappresenta più un punto di non ritorno per la carriera di uno sportivo, tanto per l’effettiva possibilità di rivedere il campo, quanto per il ripristino dei livelli pre-infortunio. Qualche recupero incoraggiante in tal senso ha avuto come protagonisti, ad esempio, Antonio Rudiger, Virgil van Dijk, Ilkay Gundogan e Leroy Sanè.

Eppure, è proprio il progresso scientifico a rendere allarmante la situazione. Al netto di un’attenzione sempre più accentuata, del perfezionamento delle tecniche di prevenzione e del generale miglioramento delle condizioni dei campi, la frequenza di questi tragici crack alle ginocchia è in costante aumento. Secondo uno studio, per esempio, tra i giocatori che partecipano alla Champions League gli infortuni al legamento crociato sono aumentati del 6% negli ultimi vent'anni. Evidentemente, quindi, ci sono altri fattori che agiscono in direzione opposta, cioè a discapito della salute dei calciatori e più in generale degli sportivi. Di cosa si tratta?

Sovraccarico (ma non solo)

“È che si gioca troppo”, risponderebbero in molti a questa domanda. Il discorso, però, non è così semplice. Il consenso intorno a questa teoria è piuttosto diffuso, oltre che nel pubblico, anche all’interno della comunità scientifica, ma - a differenza delle lesioni muscolari, per cui si tratta di una deduzione abbastanza ovvia - non del tutto unanime. La corrispondenza tra l’aumento dell’incidenza negli ultimi anni e il recente intasamento del calendario calcistico lascia intendere infatti che l’affaticamento fisico possa essere una causa, forse quella principale; d’altro canto, però, gli studi evidenziano come tale tipologia di infortunio incorra più spesso nei mesi iniziali della stagione (agosto e settembre), oltre che nei primi tempi delle partite. "Il che non è in linea con questa teoria”, afferma il chirurgo Saket Tibrewal. “Stando ai dati che abbiamo raccolto, e che continueremo a raccogliere per avere un’idea più precisa, gli infortuni al crociato non sembrano legati alla fatica”. O almeno, non soltanto.

Per farmi un’idea, ho chiesto un parere a Rajpal Brar, esperto in terapia fisica e scienziato sportivo, che è partito da una premessa fondamentale: «È una questione multifattoriale». Le cause che possono concorrere all’incidenza di rotture del legamento crociato, infatti, variano secondo le circostanze: la struttura fisica dell’atleta, il suo storico di infortuni (anche in altre parti del corpo, in una sorta di effetto-domino posturale), la gestione da parte dei club, e così via. In ogni caso, Rajpal Brar appartiene all’insieme di chi vede nel sovraccarico di lavoro il fattore più incisivo: «Se dovessi indicare una causa principale, direi che è l’aumento del calcio giocato tutto l’anno. I giocatori hanno bisogno di un tempo di riposo adeguato e di una pausa stagionale per recuperare e ricostruire la propria forma fisica; dal 2020, però, tanti calciatori non hanno praticamente avuto una vera offseason, considerando che è stato inserito un Mondiale nel bel mezzo della stagione e che da quest’anno sono state introdotte nuove competizioni. In altri sport che hanno avuto pause ridotte, come nel caso dell’NBA dopo la bubble, c’è stato un notevole aumento degli infortuni, ma poi sono tornati alla normalità. Nel calcio, invece, si stanno spingendo gli atleti al limite».

Un prima, banale parte di questa spiegazione, ovviamente non esaustiva, risiede nell’incremento del tempo di gioco complessivo. Parliamo infatti di una tipologia di infortunio tipicamente associata al contesto agonistico (oltre il 70% si verifica in partita, secondo uno studio condotto nell’Università di Leuven, in Belgio), ed è scontato quindi che l’aumento degli impegni accresca le occasioni di rischio. Andando più in profondità, è interessante notare come la frequenza di rotture del legamento crociato sia significativamente più elevata nelle grandi squadre (quasi il doppio rispetto alle squadre di bassa e media classifica, secondo Paolo Torneri, fisioterapista e fondatore di FisioScience); un dato che trova conferma anche nel campionato inglese, spagnolo, tedesco e francese, e in particolare per giocatori impegnati regolamente con le rispettive Nazionali, stando a quanto emerso da una recente ricerca di FIFPro (federazione internazionale dei calciatori professionisti).

Insomma, l’usura del corpo - dovuta al chilometraggio nei 90 minuti, ma non solo - è sicuramente un punto nevralgico, anche se non l’unico, all’interno del trend che stiamo osservando. La forsennata intensificazione del calendario degli ultimi anni, ormai ben documentata e sempre meno tollerata dai calciatori, sta ridefinendo di stagione in stagione il carico di lavoro cui sono soggetti soprattutto i top player del continente, tra formato espanso delle competizioni UEFA e introduzione del nuovo Mondiale per Club. Si è arrivati ormai a considerare “normali” annate da 60, 65 o addirittura 70 partite, poco più di una gara ogni cinque giorni… sull’arco dell’intero anno solare, dunque senza considerare le pause fisiologicamente necessarie. L’aumento di partite, di viaggi (a volte anche intercontinentali) e di situazioni di pressione generano inevitabilmente una maggiore stanchezza - e se è tutto da dimostrare che ciò sia sufficiente ad esporre con maggiore facilità le ginocchia dei calciatori, è appurato che la fatica fisica possa facilitare movimenti irregolari, inattesi o incontrollati.

«Guardate quanti infortuni del genere ci sono», ha commentato di recente Pep Guardiola, che insieme al rivale Mikel Arteta è in prima linea nella battaglia all’espansione degli impegni internazionali. «Ti fanno andare a giocare in Asia e negli Stati Uniti, partite difficili e importanti», continua l’allenatore del Manchester City, «e i giocatori si fanno male, e continueranno a farsi male… perché lo spettacolo deve continuare».

Altri fattori

Un punto di vista interessante, e abbastanza controcorrente, è stato espresso in settimana da Renato Misischi, in un’intervista pubblicata su Il Fatto Quotidiano. Secondo l’ex medico sociale del Torino, la causa principale del trend in corso affonda le radici nel cambiamento del gioco e nelle rinnovate problematiche biomeccaniche che pone agli atleti. «Io vorrei sfatare un mito: la preparazione fisica è importante, perché porta a maggiore protezione dell’articolazione, ma non è determinante. E nemmeno l’alto numero di partite, anche perché in allenamento l’intensità è elevatissima. A cambiare è il modo di giocare, vale a dire la richiesta verso il calciatore: si cercano atleti sempre più strutturati dal punto di vista fisico, con un’estremizzazione della velocità del gesto tecnico».

Che il calcio di oggi sia più veloce e richieda prestazioni atletiche di più alto livello rispetto anche a solo dieci anni fa sembra evidente anche solo guardando una partita del passato. Gli spazi e i tempi si sono ridotti all’osso, in particolare nell’ultimo decennio, e di pari passo anche i movimenti sul campo dei singoli. Sempre più rapidi, improvvisi, fuori equilibrio, stressanti per le articolazioni, e dunque pericolosi. Tenendo a mente la multifattorialità di cui ci ha parlato Rajpal Brar, e considerando che quasi il 70% delle lesioni al legamento crociato avviene in situazioni di non-contatto (accelerazioni, decelerazioni, cambi di direzione, arresti e ripartenze), ha sicuramente senso considerare anche questo fattore.

Dalle parole di Renato Misischi e da questa prospettiva scaturisce infine, quasi di getto, una domanda. Ovvero: l’evoluzione del calciatore tipo - cioè la generale direzione impressa al suo sviluppo fisico e atletico da parte degli staff - si è adeguata alle esigenze del gioco moderno? Un interrogativo che, posto da un angolo più sensibile alla tutela dei calciatori, si può riformulare così: la ricerca dell’eccellenza nelle performance si è spinta oltre i limiti della salute (sostenibile) del corpo umano? Rispondere inequivocabilmente a questa domanda con la letteratura che abbiamo a disposizione oggi non è possibile, ma possiamo provare a capire la direzione che prenderà il dibattito nei prossimi anni. Al suo interno, infatti, sono sempre più frequenti le voci che sostengono sia necessaria una rimodulazione dei metodi e delle priorità nella preparazione; e dunque, a dare maggiore importanza all’elasticità muscolare e alla stabilizzazione delle articolazioni, a discapito del mero potenziamento (in questo caso del quadricipite, uno dei muscoli che si tende ad irrobustire di più nel corpo di un calciatore).

Vedremo dove andrà a finire questo dibattito nei prossimi anni, se il contesto politico intorno a questi infortuni cambierà a sufficienza da dargli maggiore importanza. Perché se da una parte è importante capire come mitigare le condizioni che facilitano l’insorgere di questo infortunio, dall’altra non bisogna sottovalutare gli effetti che producono sulle carriere dei calciatori, soprattutto quelli più giovani. Dover aspettare un paio d’anni per tornare alla propria condizione iniziale, con la possibilità di tornarci mai, è una prospettiva spaventosa per una carriera così breve come quella del calciatore, e questo non va dimenticato.

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