Immaginate di aver messo in vendita il televisore di casa. Sperate di ricavarne almeno mille euro per risolvere un po' di problemi urgenti, perché senza quei soldi sapete di non poter andare avanti. Immaginate che l'unica persona che si dimostri interessata vi offra poco meno di 600 euro, non uno in più.
Questo, più o meno, sta succedendo al calcio italiano. Per realismo basta aggiungere molti zeri: dall'asta dei diritti tv della Serie A per il triennio 2018-2021 ci si aspettava almeno un miliardo di euro, mentre alla fine sono arrivate offerte per poco meno di 600 milioni.
Se state pensando che è poco, sappiate che per la Lega è niente. L’asta è saltata, i diritti sono rimasti invenduti e ora se ne riparla in inverno, a novembre, forse dicembre. Il che vuol dire non potersi fare i conti in tasca, aspettare mesi senza che le società possano immaginare quanto entrerà in cassa.
Cosa è successo?
In questa disputa tutti gli attori in causa sembrano avere qualche problema. La Lega di Serie A è in un vuoto di potere, non riesce ad eleggere un presidente ed è commissariata (attualmente la guida Tavecchio, il presidente della FIGC). Infront, l'advisor per la vendita dei diritti tv, è in una lunga fase di riassestamento e di miglioramento della propria immagine. Mediaset, uno dei potenziali concorrenti dell'asta, è alle prese con una guerra per la cessione di Premium a Vivendi (società francese che si occupa di televisione, cinema e videogiochi). Sky, l'altro concorrente forte, è uscita male dall'ultima asta e sembra più concentrata sui diritti TV per la Champions League, dopo averli persi proprio a favore di Mediaset.
A leggerle ora non sembravano affatto le premesse per un'assegnazione serena dei diritti, e infatti non è andata per niente bene. Mediaset non ha presentato offerte: contesta il bando e per questo motivo ha fatto un esposto al Garante per la concorrenza per chiederne la riformulazione (respinto, secondo l'Ansa). Le uniche offerte sono arrivate da Sky (per tre pacchetti: totale 494 milioni) e da Perform, media company inglese che ha deciso di puntare forte sul digitale (tre pacchetti: totale stimato 108 milioni). Troppo poco, però, e alcune offerte sono addirittura finite sotto la base d'asta.
Il bando “ibrido”
Infront, nella sua nuova conformazione manageriale, ha provato a fare in fretta. Il calcio italiano ha bisogno dei diritti TV per sostenersi, essendo gran parte dei bilanci delle società troppo dipendenti dai fondi derivanti dalle televisioni (secondo l'ultimo report della Figc nel 2015/2016 hanno rappresentato il 46 per cento delle entrate dei club di Serie A). Quindi si è tentato di assegnare i diritti della Serie A prima delle guerra per i diritti della Champions, la cui data per la presentazione delle offerte è stata fissata dall'UEFA per oggi. Il ragionamento è piuttosto semplice: cerchiamo di ricavare il più possibile prima che le televisioni si svenino per la manifestazione più importante d'Europa.
Nella realizzazione del bando, dopo il caos dell'ultima asta, Infront ha cercato di lavorare al fianco dell'Autorità Garante della Concorrenza proprio per non avere ostacoli. E invece li ha incontrati partorendo un bando ibrido, poco appetibile, frutto di una sorta di compromesso che ha finito per scontentare tutti. Il bando, infatti, non prevedeva né una vera e propria vendita per prodotto (vendere cioè le partite di alcune squadre in via esclusiva qualunque sia la piattaforma) né una vera e propria vendita per piattaforma (vendere le stesse partite, ma divise per digitale terrestre, satellitare e internet), ma una sorta di mix tra le due modalità.
Perché i pacchetti sono un problema
I pacchetti all'asta erano divisi così. Nella parte in vendita per piattaforma ci sono le partite di otto squadre, per tre piattaforme diverse (satellitare, digitale terrestre, internet). Queste otto squadre rappresentano il 73 per cento dei tifosi e sono le più grandi per bacino d'utenza (Juventus, Milan, Inter, Napoli), le tre neopromosse dalla B e l'ultima società per bacino d'utenza rimasta in Serie A.
Ora, se un concorrente si aggiudica per queste formazioni i diritti per il satellitare (pacchetto A), un altro per il digitale terrestre (pacchetto B), un altro per internet (C1 e C2), ci sono tre competitor che hanno acquistato la stessa cosa e non possono però monetizzare alcuna esclusiva. È una distribuzione equa che nelle intenzioni del Garante dovrebbe tutelare il consumatore, ma non guarda al mercato: non può esserci rialzo, non c'è la competizione. Guardandola con disincanto sembra un modo per garantire tutto a tutti e, quindi, praticamente non è un'asta. 248 partite, tra cui anche quasi tutte quelle con l'auditel maggiore, per tutti.
Nella realtà dei fatti per il satellitare Sky ha offerto 230 milioni a fronte di una base d'asta di 200 milioni; per il digitale terrestre, non essendoci Mediaset, non è arrivata nessuna offerta; e per i due pacchetti internet (base d'asta 100 milioni per uno, quindi 200 milioni) Perform - che ha creato una sorta di Netflix del calcio - ha offerto, stando alle indiscrezioni, 100 milioni in tutto. In più per i diritti gold e silver (telecamere negli spogliatoi, interviste e altro) Sky ha offerto 54 milioni e Perform 8 (in questo caso non c'è base d'asta: il valore è proporzionale all'offerta per il pacchetto).
L'altro pacchetto, il D, prevedeva invece la vendita per prodotto, quella che poteva accendere la concorrenza. Ma rimaneva comunque una concorrenza spuntata. Perché il pacchetto D garantiva l'esclusiva multipiattaforma sulle altre 12 squadre, un insieme di 324 partite di cui 132 in esclusiva assoluta. Ma la composizione delle 12 squadre ha lasciato tutti tiepidi, rappresentando appena il 27 per cento dei tifosi. Certo, ci sono Roma, Lazio, Torino e Fiorentina. Ma l'appeal rimane basso. Il derby di Roma garantisce discreti ascolti (quest'anno 1,2 milioni all'andata e 1,6 al ritorno), sopra la media del campionato, ma comunque inferiori rispetto a quelli di Milan, Inter e Juventus.
Forse Mediaset si sarebbe accontentata di aggiungere le due romane al pacchetto per il digitale per partecipare all'asta, ma ovviamente non abbiamo la controprova. Sky, unica a presentare l'offerta per questo pacchetto, ha messo sul piatto 210 milioni, quasi la metà della base d’asta.
Insomma, il bando dava a tutti gli acquirenti la possibilità di accaparrarsi i diritti delle partite più importanti, mentre l'esclusiva rimaneva solo per quelle secondarie. Perché l'asta doveva andare diversamente? Come si poteva arrivare a un miliardo di euro?
Come va il calcio in TV
Dopo il rinvio dell’asta Tavecchio ha dichiarato che «il calcio italiano è di alto valore». Il punto, però, non è tanto la sua valutazione, quanto la strategia per arrivare a far sì che quel valore venga riconosciuto. Con quest’asta il calcio italiano sembra aver pensato di poter andare avanti per inerzia, senza immaginare come monetizzare al massimo il suo valore. Ma, allo stesso modo, è fuorviante anche l’idea attribuibile ad alcuni commentatori esterni alla faccenda, secondo cui il calcio italiano non interessa più.
I numeri televisivi della Serie A in Italia sono infatti in crescita. Nell'ultima stagione le partite in TV sono state viste da 272,1 milioni di spettatori, contro i 264,8 dell'anno prima: 7,3 milioni di persone in più (il 2,7%). La media è passata da 697.045 spettatori a partita a 716.205, dato che assume un valore ancora più profondo se pensiamo che in Italia vengono trasmesse tutte le partite (cosa che non accade invece in Inghilterra, dove pure i diritti TV sono molto più ricchi) e quindi i 3.704.506 spettatori di Juventus-Inter (la più vista) fanno media con i 1.707 di Crotone-Empoli (la meno seguita).
Peraltro dalla stagione 2018/2019 (la prima che dovrebbe dipendere da questa assegnazione dei diritti) il campionato di Serie A dovrebbe essere decisamente più spezzettato e quindi in grado di garantire ancora più ascolti alle TV.
Non è dunque vero che il calcio non attrae più e non è più un prodotto vendibile. Ma le leggi del mercato, inevitabilmente, hanno il loro peso. E le imprese televisive devono ragionare sugli investimenti da fare. La Lega continua invece a immaginare le offerte come fossero degli oboli, secondo il vecchio regime che in qualche modo teneva in piedi il sistema senza essere sempre ligio alle regole. Ma ci sono delle strategie aziendali di cui tener conto. Quelle di Mediaset, ad esempio.
Perché a Mediaset serve tempo
Dice Sky, nel suo comunicato, che se «anche gli altri operatori già esistenti sul mercato avessero effettuato offerte anche solo pari alla base minima d’asta, la Lega Calcio si sarebbe trovata a disporre del target economico tanto auspicato». In pratica dice che è colpa di Mediaset e degli altri. Scrive Mediaset, invece, che «la formulazione dell'invito a presentare offerte è totalmente inaccettabile in quanto abbatte ogni reale concorrenza e penalizza gran parte dei tifosi italiani costretti ad aderire obbligatoriamente a un'unica offerta commerciale». Di fatto contesta, come ha fatto nell'esposto al Garante, la concentrazione di squadre nel pacchetto D. Che è quello che in qualche modo cambia la struttura rispetto alla precedente asta, in cui era stato invece contestato un accordo che non teneva conto della concorrenza: andare solo per prodotto, obiettivo di Infront che già l'Authority aveva mitigato.
In ogni caso Mediaset ha portato a casa il suo obiettivo principale in questa partita: prendere tempo. Ha in piedi una guerra con i francesi di Vivendi per la vendita di Premium, ha provato, secondo indiscrezioni, a fare le prove di pace nella notte prima dell'asta, cercando di formulare una proposta congiunta per i diritti della Serie A, ma poi non se n'è fatto più niente. Attendere potrebbe voler dire chiudere questa fase per liberarsi di Premium (un buco di 850 milioni dal 2004) e avere un alleato per il rilancio. Perché prima della prossima asta potrebbe essere firmato un armistizio non di poco conto.
È per questo motivo che Luigi De Siervo, nuovo a.d. di Infront, a margine dell'asta andata male si è detto fiducioso: «È in fase di definizione la situazione complessa di Vivendi, Telecom e Mediaset: a un certo punto arriverà a maturazione e al colosso Sky si contrapporrà quello Vivendi-Mediaset-Telecom. Quindi non sono preoccupato».
La dichiarazione non avrà di certo fatto piacere a Sky, che si vede costretta ad attendere che arrivi un altro concorrente forte dopo aver fatto (almeno in parte) la propria offerta, ma spiega esattamente perché Mediaset voleva rinviare. Da sola non ce la fa, e i paletti di questo bando sono più rigidi di quello dell'asta precedente, quando invece di De Siervo a comandare Infront c’era Marco Bogarelli.
Senza Bogarelli non è la stessa Infront...
In questa grande partita c’è una coincidenza che potrebbe rivelarsi un dettaglio decisivo. Questa è la prima asta in cui Infront non è rappresentata come amministratore delegato da Marco Bogarelli, uscito dall'azienda a fine novembre scorso con il direttore generale Giuseppe Ciocchetti. Bogarelli, tra le altre cose fondatore di Milan Channel, per lungo tempo è stato indicato come un uomo vicino a Mediaset, per i suoi trascorsi, per le sue amicizie e anche perché prima che il suo disimpegno da Infront diventasse ufficiale la sua attività da “capo” dell'advisor della Lega aveva trovato non poche sponde in Galliani e in tutta quell'area di potere del calcio italiano che aveva la stessa Infront come punto in comune.
Secondo la Procura di Milano, Bogarelli, Ciocchetti (l'altro fuoriuscito da Infront) e Riccardo Silva (che per il calcio italiano gestisce la vendita dei diritti all'estero, ed è ex socio di Bogarelli) avrebbero «costituito, organizzato e gestito una associazione a delinquere finalizzata a commettere una serie indeterminata di delitti, tra i quali turbativa d'asta, autoriciclaggio, truffa aggravata, ostacolo alle funzioni di vigilanza, evasione fiscale e comunque tutti quei reati di volta in volta necessari per governare i processi di sfruttamento dei diritti audiovisivi derivanti dal gioco del calcio, con l'impossessamento di denaro che avrebbe dovuto, in un corretto regime concorrenziale, entrare nelle casse della Lega Calcio e quindi, pro quota, nelle casse delle società che vi aderiscono». Il Gip ha negato gli arresti sostenendo che i tre e i loro contatti in Lega abbiano costituito al massimo una lobby, ma non un'associazione a delinquere (la Procura ha fatto ricorso al riesame, ma è dei giorni scorsi un ulteriore rinvio della discussione). In ogni caso, nei palazzi di giustizia, con diverse e significative indicazioni di gravità, sostengono che tra l'Infront di Bogarelli e diversi presidenti in Lega ci fosse un patto.
Infront si è trovata quindi di fronte ad una situazione politica totalmente cambiata. Bogarelli stava molto a cuore alla Lega di Serie A in cui ad avere potere erano Galliani (che ora non è nemmeno più amministratore delegato del Milan) e Lotito (ora in calo, dopo il quasi abbandono di Tavecchio), al punto che nel contratto con Infront c'era scritto quello che è noto, ovvero che l’advisor garantisce un minimo di 980 milioni all’anno e solo dopo comincia a incassare provvigioni crescenti. Una serie di ulteriori riconoscimenti economici per Infront, inoltre, era legata proprio alla presenza di Marco Bogarelli. Ad esempio, al paragrafo 99 del contratto, c’è iscritto che uno dei bonus è legato proprio alla permanenza di Bogarelli nel ruolo di amministratore delegato di Infront.
...e quindi si può fare a meno di Infront
La coincidenza per cui al primo atto di Infront senza Bogarelli Mediaset si metta di traverso può restare tale. Ma di certo l'azione del Biscione mette in difficoltà proprio l'advisor a cui un tempo si guardava con favore. Perché Infront, come detto, deve comunque garantire una somma vicina al miliardo di euro alla Lega di Serie A. Non solo perché comincia a incassare le provvigioni una volta superata quella somma, ma anche perché altrimenti deve metterli di tasca propria. E non sarebbe un buon esordio per De Siervo, che vuol rendere Infront molto meno ingombrante e politica di quanto era prima, ma si troverebbe subito a dover trovare un modo per far rientrare questi soldi.
Rimane la possibilità che la Lega si crei una propria piattaforma, che si produca cioè da sola le partite e che affitti alle televisioni direttamente il prodotto finito. Ma in quel caso si dovrebbero affittare dei servizi alle piattaforme interessate e ci si potrebbe trovare quindi costretti ad affidare a un intermediario la gestione di questa parte di diritti per raggiungere la somma prevista, con esiti attualmente non prevedibili.
Sarebbe una trasformazione della Lega da venditore di un campionato che organizza a editore dello stesso. C'è anche qui qualcosa che rimanda ai vecchi tempi della Lega che conviene appuntare, per un eventuale futuro. È un'informativa del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza, che racconta come, una volta andato via Bogarelli da Infront, Galliani e altri avrebbero deciso di «estromettere dai processi decisionali Infront, che era diventato un soggetto non più gradito». Secondo la Guardia di Finanza, Adriano Galliani avrebbe avuto intenzione di «individuare un top manager, di esperienza internazionale e da remunerare adeguatamente, da inserire nell'organigramma della Lega calcio quale direttore commerciale». Molto è basato su un'intercettazione tra Galliani e Claudio Lotito, presidente della Lazio: «Siamo totalmente nelle mani di Infront, dobbiamo prendere l'interfaccia della Lega».
Nell'informativa, dunque, si sostiene che Galliani volesse spingere la Lega a cambiare «la gestione della commercializzazione dei diritti televisivi delle squadre di calcio» ripudiando improvvisamente Infront. Può essere sempre una coincidenza, ma tutto avveniva mentre Bogarelli e Silva, sempre secondo la Gdf, progettavano la «creazione di una nuova società, con uffici a Londra e Milano, operante nel settore dell'acquisizione e vendita dei diritti».
Quali sono le soluzioni
Oggi la commissione per i diritti tv della Lega si riunisce per prendere una decisione. Verosimilmente si cercherà di scrivere un altro bando, lavorando con l'Authority e continuando a seguire le vicende dei broadcaster. Ma non è solo tecnica la soluzione da trovare: quest’asta ha almeno avuto il merito di rendere chiaro che nel campo dei diritti TV il calcio italiano deve togliersi ancora un po' di peso politico pregresso, attendere che la situazione delle televisioni si stabilizzi e sfruttare il momento per pensare a un modo diverso di concepire i ricavi delle società.
I diritti TV sono stati per anni l'unica salvezza, ma ora rischiamo concretamente di diventare gli ultimi per entrate tra i principali campionati europei: in Inghilterra i diritti domestici fruttano poco meno di due miliardi a stagione, in Spagna circa 900 milioni, in Bundesliga, dall'anno prossimo, 1,2 miliardi.
E forse questa situazione di stallo può aiutarci a capire che non si può dipendere solo da quelli, cosa che negli altri grandi paesi europei hanno capito prima. Per capire la differenza basta guardare l'ultimo rapporto Deloitte Money Football League di gennaio 2017: la società più ricca d'Europa è il Manchester United, che ricava il 27% dai diritti tv, il 20% dal matchday e il 53% dal commerciale. Secondo il Barcellona, con il 33% da diritti tv, il 19% dal matchday, il 48% dal commerciale. La più ricca di Germania è il Bayern Monaco, con il 25% da diritti tv, il 17% dal matchday e il 58% dal commerciale. In Francia il PSG incassa il 24% dai diritti tv, il 18% dal matchday, il 58% dal commerciale. Il rapporto dei ricavi cambia molto guardando le italiane: la Juve, la più forte economicamente, incassa il 57% dai diritti tv, il 13% dal matchday, il 30% dal commerciale; la Roma, seconda, dipende per il 71% dai diritti tv; poi il Milan con il 41% e l'Inter con il 55%.
Quindi, se la crisi ha portato i club a investire sui giovani con risultati che si stanno cominciando a vedere, questa vicenda può mettere il calcio in condizione di pensare a cambiare la propria gestione manageriale. O meglio: in molti casi ad avercene una, senza aspettare che siano i diritti TV a coprire quasi l'intera gestione. Certo, per fare questo servirebbero dei manager di livello, sperando che in giro ce ne siano.