Venerdì mattina, due giorni prima di Arsenal-Manchester City, che l’ha visto in campo per circa 60 minuti di gioco, Mesut Özil ha pubblicato un lungo messaggio sul proprio profilo Instagram e Twitter riguardo alla drammatica situazione degli uiguri dello Xinjiang, in Cina.
Ha scritto: «Il Turkestan orientale, la ferita sanguinante dell’ummah [la comunità dei fedeli musulmani, nda], sta resistendo contro gli aguzzini che provano a privarlo della sua religione. Bruciano i loro Corani. Chiudono le loro moschee. Bandiscono le loro scuole. Uccidono i loro leader spirituali. Gli uomini sono portati di forza dentro campi di concentramento e le loro famiglie costrette a vivere con uomini cinesi. Le donne sono costrette a sposare uomini cinesi».
«Nonostante ciò, i musulmani rimangono in silenzio. Non solleveranno una foglia. Hanno abbandonato gli uiguri. Non lo sanno che dare il proprio consenso a una persecuzione è come commetterla?».
Della situazione degli uiguri nello Xinjiang si parla da diversi anni ormai - anche qui sull’Ultimo Uomo ne abbiamo parlato diverse volte, l’ultima non troppo tempo fa - ma il messaggio di Özil è arrivato in un momento di estrema pressione internazionale nei confronti di Pechino sulla questione: a quasi un mese esatto da quando il New York Times ha rivelato più di 400 pagine di documenti interni al Partito Comunista Cinese, che hanno gettato nuova luce su quello che probabilmente è un gigantesco sistema di campi di concentramento e rieducazione utilizzato per controllare una minoranza religiosa accusata di foraggiare il terrorismo.
E a circa due settimane da quando la Camera dei deputati statunitense ha approvato una mozione quasi all’unanimità per imporre delle sanzioni su alcuni membri del governo cinese, proprio per via delle sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti degli uiguri.
D’altra parte lo sport è ormai diventato una delle frontiere più calde dell’arena geopolitica globale, e quindi non stupisce che il messaggio di Özil sia stato percepito dalla Cina come una minaccia quasi equivalente alla mozione del Parlamento degli Stati Uniti, dopo la quale il Ministro degli Esteri di Pechino aveva annunciato non meglio specificate ritorsioni.
Come ritorsione nei confronti delle parole di Özil, invece, la televisione di stato di Pechino (CCTV) ha deciso di non trasmettere Arsenal-Manchester City, sostituita da Wolverhampton-Tottenham, ed è possibile che in futuro il club londinese farà più fatica ad accedere al mercato cinese – un mercato che solo in termini di diritti TV frutta all’intera Premier League poco meno di 235 milioni di dollari l’anno fino al 2022.
A nulla, quindi, sono servite le frettolose rassicurazioni dell’Arsenal, che sul proprio account Weibo, un social network molto utilizzato in Cina, aveva scritto che “il contenuto pubblicato è un’opinione personale di Özil” e che “come club di calcio, l’Arsenal ha sempre aderito al principio di non rimanere coinvolto nella politica”.
Un comunicato surreale non solo per le sue implicazioni etiche riguardo alla controversa situazione degli uiguri, ma anche perché arrivava a poche ore di distanza da quando Bellerin aveva invitato di fatto i suoi follower a votare Labour alle elezioni inglesi, in un tweet che si concludeva con un più che esplicito hashtag #FuckBoris (riferito ovviamente al leader del partito conservatore inglese Boris Johnson). In questo caso, però, l’Arsenal non si è sentito in dovere di precisare di non voler essere coinvolto in diatribe politiche.
L’Arsenal è solo ultimo esempio di come lo sport occidentale stia facendo fatica a venire a capo delle contraddizioni che comporta la collaborazione con un regime totalitario per espandere le proprie possibilità di business. Prima del club londinese negli ultimi mesi avevano incontrato gli stessi problemi prima la NBA, che aveva dovuto gestire le ripercussioni del tweet pro-Hong Kong del general manager degli Houston Rockets Daryl Morey (poi cancellato), e poi la Blizzard, che aveva squalificato un pro-player professionista dopo che questo aveva gridato “Liberate Hong Kong, rivoluzione della nostra era!” in diretta dopo aver vinto un torneo di Heartstone.
Ok ma perché se ne è parlato così tanto?
Il messaggio di Özil è forse il primo tra questi, e più in generale nello sport contemporaneo, a rivelare una consapevolezza del proprio ruolo politico e dell’influenza delle proprie azioni che travalica quello che siamo soliti aspettarci da un atleta, per questo vale la pena analizzarlo anche per quello che ci dice su Özil.
In molti, sui social network, hanno sottolineato subito la contraddizione apparente in questo messaggio di denuncia nei confronti delle pratiche repressive di un regime totalitario proprio perché veniva da un personaggio che in passato si è dimostrato di essere felice di affiancare la propria immagine pubblica a quella di Recep Tayyip Erdogan, un altro leader autoritario non attento ai diritti delle minoranze - in particolare con i curdi, altra questione che ha trovato nello sport un palcoscenico per essere discussa.
Foto di YASIN AKGUL/AFP via Getty Images
L’anno scorso Özil ha deciso di ritirarsi dalla Nazionale tedesca proprio per gli attacchi subiti dal mondo politico e sportivo tedesco dopo quella famosa foto che lo ritraeva accanto al presidente turco, secondo lui macchiati da un pregiudizio razzista per via delle sue origini. In quel caso, si era giustificato parlando di un omaggio alle sue radici in Turchia, un paese a cui sente di appartenere (nonostante sia nato e abbia vissuto in Germania per quasi tutta la sua vita) e in cui esercita ancora un’influenza da idolo che nessun altro calciatore turco può vantare.
Ed è proprio la vicinanza di Özil al mondo politico e culturale turco ad aiutarci a decifrare il suo messaggio, a dargli il giusto peso. A questo proposito è importante sottolineare il fatto che il suo messaggio sullo Xinjiang sia scritto solo in turco (il passo che trovate all’inizio da questo pezzo è tratto da una traduzione in inglese del Guardian) e che più che una denuncia nei confronti della Cina sia in primo luogo una critica nei confronti dei paesi musulmani, a partire proprio dalla Turchia.
Nonostante la Turchia sia diventata nel tempo la nuova casa di molti uiguri - un’etnia turcofona di religione prevalentemente musulmana, che quindi dovrebbe essere naturalmente vicina alla Turchia di Erdogan - in fuga dalla repressione cinese, il governo di Ankara ha deciso negli ultimi mesi di abbandonare le sue precedenti posizioni critiche nei confronti di Pechino e di adottare una linea più prudente per salvaguardare i propri interessi commerciali.
Durante una visita di stato a Pechino, quest’estate, Erdogan ha dichiarato che il popolo dello Xinjiang vive felicemente nel contesto della prosperità e dello sviluppo cinese. Nonostante successivamente fonti diplomatiche turche abbiano accusato i media di stato cinesi di aver mal tradotto le parole di Erdogan, il cambio di rotta della Turchia sembra chiaro anche dai suoi sempre più frequenti rifiuti alle richieste di asilo politico da parte degli uiguri in fuga dalla Cina.
In questo modo, quindi, la Turchia si è unita alla stragrande maggioranza degli altri paesi mediorientali a prevalenza musulmana, che per ragioni commerciali sulla questione dello Xinjiang hanno deciso di voltarsi dall’altra parte. Tra luglio e ottobre, per due volte, alle Nazioni Unite è stata sollevata la drammatica situazione degli uiguri e, per due volte, molti dei paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (tra cui Arabia Saudita, Egitto, Pakistan, Qatar e Algeria) hanno deciso di schierarsi dalla parte di Pechino, con la Turchia che ha deciso di astenersi.
Özil è un fervente musulmano (a quanto pare legge il Corano prima di ogni partita ed è andato almeno una volta in pellegrinaggio alla Mecca) e, alla luce del contesto politico all’interno del quale si inserisce il suo messaggio, la sua vicinanza a Erdogan assume quindi un senso molto diverso da quello che appare a noi che la guardiamo da qui. Basti pensare, a questo proposito, che Özil nel suo messaggio forse non casualmente non utilizza il nome Xinjiang ma Turkestan Orientale, cioè il nome usato dagli stessi uiguri per indicare la propria regione e utilizzato anche da alcuni movimenti per l’indipendenza della regione, tra cui il Movimento Islamico per il Turkestan Orientale, i cui attentati a partire del 2013 hanno spinto il governo cinese ad attuare il suo sistema di repressione su base sistematica. Il Movimento Islamico per il Turkestan Orientale è stato messo nella lista delle organizzazioni terroristiche anche dalla Turchia già a partire dall’estate del 2017.
Insomma, proprio alla luce della sua identità e del suo passato, il messaggio di Özil è scomodo sotto molti punti di vista diversi, e proprio per questo era tutt’altro che scontato aspettarsi una presa di posizione simile. Non vogliamo dire che Özil sia un modello etico per nessuno, ma è sorprendente che abbia preso parola, in questo caso, per difendere una minoranza come quella degli uiguri, pur sapendo che non avrebbe fatto piacere al governo cinese e a quello turco, oltre ovviamente alla dirigenza Arsenal e in parte anche a quella della Premier League nel suo complesso.
Ci vuole comunque coraggio e dovremmo essere grati che ci siano ancora atleti disposti a utilizzare la propria eco mediatica per cercare di influenzare le battaglie a cui tengono, e da cui in una certa misura dipendono anche persone lontane anni luce dalle vite che fanno i calciatori in Premier League.