L’erba è umida mercoledì sera. Il Regno Unito ha vissuto il giugno più caldo e secco dal 1884, ma adesso è luglio, è iniziato Wimbledon, quindi piove. Matteo Berrettini scivola e i fantasmi degli infortuni passati si affollano tutti insieme. «Se mi faccio male ti denuncio». In questa frase, ripetuta più volte al giudice di sedia, c’è il retaggio della sua città, quella con più avvocati al mondo, ma è soprattutto raccolta l’angoscia vissuta nel 2023. Gli ci sono voluti tre giorni per battere Lorenzo Sonego e prendersi la rivincita per la disfatta subita al torneo di Stoccarda, quasi tre settimane fa. Berrettini, che non aveva mai perso contro l’amico, quella volta era riuscito a vincere tre game in tutto. Doveva essere il grande ritorno trionfale dopo l’ennesimo infortunio che gli aveva fatto saltare tutta la stagione sulla terra rossa, e invece è stata una figuraccia. Si diceva fosse tornato a giocare solo perché era il torneo del suo sponsor. Aveva fatto male vederlo così, ridotto a un fantasma, fisicamente e mentalmente, proprio sull’erba, la sua superficie preferita.
Di solito, quando ricomincia la stagione sul verde, Berrettini si risveglia. Ci era già riuscito l’anno scorso: dopo due mesi e mezzo di stop era rientrato e aveva vinto i tornei ATP 250 di Stoccarda e 500 del Queen’s. Il Covid, poi, lo aveva fermato. Ha dovuto rinunciare a Wimbledon, a cui arrivava tra i favoriti: un colpo psicologico forse troppo grande. Questa volta non è andata così: è tornato, ha perso e se n’è andato in lacrime. Poi si è ritirato dal Queen’s e c’era già chi lo guardava come un tennista finito, un ex atleta diventato celebrity, pronto persino per qualche reality da fine corsa.
Nello sport le cose cambiano in fretta, «Nel tennis tutto ricomincia» diceva proprio Berrettini con capacità profetica qualche mese fa, e oggi che Berrettini è agli ottavi di Wimbledon forse abbiamo già dimenticato il trattamento che gli abbiamo riservato. Nessuno in particolare, ma solo il modo sottile e velenoso con cui si è costruito il discorso su di lui in questi mesi.
L'idea che Berrettini non fosse più tanto interessato al tennis non è legata tanto – o comunque non solo – alle sconfitte, quanto a un cambiamento radicale nel modo in cui viene percepito dalle persone e dai media. Chiedersi chi ha influenzato chi, tra persone e media, sarebbe un esercizio filosofico inutile. Quello che conta è che Berrettini è cambiato, si dice, pensa ai soldi, alle pubblicità. Perde al primo turno degli Australian Open contro Andy Murray in cinque set e pochi giorni dopo è a un party con Ibrahimović ed ex veline varie per festeggiare il compleanno di Melissa Satta. Salta il Master 1000 di Roma e il Roland Garros, e invece di disperarsi sfila a Cannes in total white, ancora con Satta.
Forse per questo quando è uscito piangendo dal torneo di Stoccarda non gli hanno creduto.
Quando Berrettini si è imposto nel panorama internazionale si sono sprecati i paragoni con Juan Martín del Potro, l’eroe tragico del tennis moderno. Anche Djokovic li aveva accomunati, definendo il loro gioco «hammer tennis», un gioco ridotto all’osso, fatto di servizio e dritto supersonici. Se però esiste un dio del tennis che dà e toglie, l’italiano e l’argentino non si somigliano solo nei doni. La carriera di del Potro è stata definita in modo uguale dagli infortuni e dai successi. Ogni suo rientro era una cavalcata, ogni ritiro una sofferenza, nelle lacrime. Forse in un universo parallelo è lui il “fantastico quarto”, se proprio bisogna trovarlo e non vi piace Andy Murray. Un predestinato, capace nel 2009, a soli vent’anni, di sconfiggere Federer e vincere gli Us Open. Il suo tennis, però, aveva un prezzo. Quando a febbraio 2022 del Potro ha comunicato, ancora nelle lacrime, che sarebbe potuto non tornare più su un campo da tennis (non si è ancora ufficialmente ritirato e chissà se lo farà mai) ci ha lasciato con l’amarezza di non poter sapere cosa sarebbe potuto essere se fosse nato in un corpo diverso, più resistente. O se magari con un tennis tecnicamente meno oltranzista avrebbe comunque potuto raggiungere lo stesso livello, restando magari sano. E abbiamo pianto con lui, anche quella volta come ogni volta.
In modo simile, il corpo di Matteo Berrettini non sembra reggere la potenza che è stato creato per sprigionare. Ha subito almeno un infortunio agli addominali ogni anno dal 2020. L’ultimo risale ad aprile e ha causato il ritiro dal Master 1000 di Monte Carlo. Se lo si guarda, il suo fisico è un assurdo biologico: così sproporzionato tra sopra e sotto che le due metà sembrano appartenere a persone diverse. A differenza di del Potro, però, quando Berrettini se n’è andato nelle lacrime dopo la sconfitta con Sonego, non ha suscitato la stessa risposta emotiva che era stata riservata all’argentino.
Dire che il ventisettenne abbia avuto, prima di Wimbledon, un brutto 2023 è riduttivo. Si è presentato a Londra con 17 partite giocate in totale, delle quali solo nove tra Slam e tornei del circuito ATP: quattro vinte, una per ritiro, e cinque perse. Per rendere l’idea, nella scorsa stagione a questo punto dell’anno aveva giocato più del doppio delle partite (21 tra Slam e tornei del circuito), aveva raggiunto la semifinale agli Australian Open e vinto due tornei. L’anno prima ancora le partite erano 30, con una finale al Master 1000 di Madrid e altri due trofei. Al confronto, i numeri di quest’anno sembrano quelli di un’altra persona. A marzo, dopo la sconfitta amara al Master 1000 di Indian Wells contro Taro Daniel, attualmente numero 106 nel ranking ATP, Berrettini aveva commentato così il periodo difficile: «Se ti alleni per non farti male ovviamente non giochi, ma se inizi a giocare ti fai male. Probabilmente non saranno neanche gli ultimi infortuni visto quanto spingo il corpo al limite. Pensavo di essermi fatto male abbastanza e sono andato in un buco nero e non sono più riuscito a giocare». Un circolo potenzialmente infinito e complicato da spezzare, ma umanissimo. Dopo la vittoria con Zverev ha fatto un discorso molto emotivo: «Ho passato tanti giorni nel mio letto a piangere e quindi cinque giorni di fila di partite (considerando anche quanto accaduto con Sonego) non è niente adesso. È triste ma è vero, mi è mancato tantissimo competere e giocare. Ho trovato energia grazie al pubblico che mi ha supportato».
Perché non gli si perdona un anno difficile? Cos’hanno le sue lacrime di diverso rispetto a quelle di del Potro? Sarebbe ingiusto non ricordare quanto è stata significativa la sua carriera finora. Berrettini ha trascinato fuori il tennis maschile italiano dalla marginalità e dalla dipendenza dagli exploit bellissimi ma estemporanei di Fognini. Poteva battere tutti, o quasi. Per lui sembravano perse in partenza solo le partite con i senza-nome Federer, Nadal e Djokovic. Ma anche in quei casi, non lo si poteva biasimare più di tanto. In tutti gli altri aspetti migliorava, ogni volta un gradino più su: è l’unico italiano ad aver raggiunto le semifinali di Us Open (2019) e Australian Open (2022), soprattutto è l’unico ad essere arrivato alla finale di Wimbledon (2021). Nel 2019 è stato il primo italiano in 41 anni ad accedere alle ATP Finals in singolare, il torneo di fine stagione dove si affrontano i primi otto giocatori in classifica. Poi nel 2021 è anche diventato l’unico italiano a essersi qualificato una seconda volta per le Finals. Tutte imprese impensabili per un tennista del nostro Paese fino a quel momento. Così Berrettini piaceva a tutti, da morire. Non solo vinceva, era umile, simpatico, bello, giocava pure la coppa Davis, che volere di più. Nel giro di poco tempo sono emersi altri giocatori, non è più solo e se per un periodo manca, le speranze fanno in fretta a transitare verso Jannik Sinner, o Lorenzo Musetti per i raffinati che non se la prendono troppo. Due talenti a loro volta piuttosto bersagliati, per motivi diversi, quando le cose non funzionano. Rispetto a loro Berrettini un tempo era l'esempio positivo (l’umile lavoratore che si è fatto da solo, senza un grosso talento) e oggi è la pecora nera.
A rispondere parzialmente alla domanda iniziale, sul perché le lacrime di Berrettini non hanno la stessa sostanza di quelle di del Potro, ci pensa l’ottantanovenne Nicola Pietrangeli. L’ex gloria del tennis viene interrogata dai giornali quasi una volta al mese da febbraio sulle sconfitte di Berrettini, e la sentenza è sempre la stessa: non pensa abbastanza al tennis. Troppi soldi, troppe pubblicità, troppe spese frivole. Poi, leggendo qualche articolo o scorrendo i commenti sui social, si trova l’altro motivo, collegato al primo, ma meritevole di una sezione a sé. La grande distrazione: Melissa Satta.
Il discorso pubblico sul romano ha fatto un’inversione totale da fine gennaio, quando ha perso al primo turno degli Australian Open contro Andy Murray, ma soprattutto quando è stata resa pubblica la sua nuova frequentazione. La relazione tra Berrettini e la conduttrice risveglia quella fantasia patinata anni Duemila del bomber e la velina, piena di paparazzi e morbosità. Ma anche piena di sessismo pop e sbarazzino, che vede in quelle donne giovanissime – Satta aveva 19 anni quando è diventata velina nel 2005 – degli oggetti di scena, da mettere a ballare sui tavoli mentre gli uomini parlano. Rigorosamente una bionda e una mora, così si riconoscono meglio e si soddisfano tutti i gusti.
Nel 1970, diciotto anni prima della nascita di Striscia la notizia e in generale del concetto di vallette che finiscono in -ina, sui muri di Roma compare il Manifesto della Rivolta femminile, prodotto di uno dei primi gruppi di sole donne femministe in Italia. Uno dei punti recita: «L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione». Le veline non sono altro che questo, l’ennesima invenzione di una femminilità, questa volta frivola e ammiccante, posta ai lati dei due conduttori, in posa scomoda e immobile. L’invenzione si completa nella diade bomber-velina: l’uomo più virile e forte si prende la donna più femminile e desiderata. Tanto desiderata da incanalare attenzioni, troppe, tali da ostacolare il pieno compimento del successo maschile, in questo caso sportivo. Sono passati altri diciotto anni dall’inizio della carriera da velina di Satta, nel pieno apice di quel momento culturale. Nonostante questo, l’unione tra i due ha risvegliato quei modelli che in realtà erano solo dormienti: lei è ancora la più desiderata, lui il più forte che si è lasciato distrarre dal pieno compimento del suo successo. Tra una festa con Ibrahimović e un red carpet a Cannes, ormai il tennis non importa più. L’immagine di Melissa Satta con cui il pubblico ha interpretato il 2023 di Matteo Berrettini è stata una sua invenzione.
La conduttrice ad aprile, pochi giorni dopo il ritiro del compagno dal Master 1000 di Monte Carlo per infortunio, ha raccontato, prima sui suoi social, poi in un monologo alle Iene, il bullismo ricevuto: «In questi giorni vengo accusata di non so che cosa. Dobbiamo ancora essere così sessisti nel 2023 e puntare il dito verso una donna perché il proprio compagno vive un momento diverso, magari un po’ più difficile, nel proprio lavoro?». Satta poi si era rivolta ai giornali. A quelli che la incolpavano degli insuccessi di Berrettini con titoli tribali, uno su tutti «Melissa Satta porta sfortuna». Ma anche a quei quotidiani che, dopo aver contribuito all’interesse morboso, pretendevano di proteggerla: «Mi hanno molto ferito le cose scritte dai giornalisti, che dicevano “la Satta deve essere difesa”. Difesa da che cosa? Dal vivere una relazione come tutte?».
Il topos della donna seduttrice, rovina-carriere e rovina-famiglie, è molto più antico del binomio bomber-velina. Era il 1954 quando Giulia Occhini, una donna sposata, venne vista al fianco di Fausto Coppi al Giro d’Italia: indossava un cappotto chiaro e da lì lei perse il suo nome mentre nasceva il mito della Dama bianca, la femme fatale. Anche Coppi era sposato, ma lui era maschio, celebrità e vittima del fascino irresistibile ed effimero della Dama. Poco importa che i due rimasero insieme fino alla morte prematura del ciclista, nel 1960, fecero un figlio insieme e si unirono in nozze (simboliche nell’Italia ante-divorzio) in Messico. «Parteggiando per lei e Fausto si ha la curiosa impressione di combattere l’oscurantismo secolare del nostro paese torpido e sciocco», scriveva Gianni Brera nel suo libro Coppi e il diavolo. Il loro amore era così pericoloso per la moralità dell’epoca che pure papa Pio XII si espresse in una reprimenda pubblica.
Nel 1970 l’Inghilterra si era presentata ai Mondiali di calcio in Messico da campionessa in carica. Quando fu sconfitta nei quarti di finale, Alf Ramsey, commissario tecnico inglese, insinuò che parte del problema poteva essere proprio la presenza delle compagne dei calciatori. Quattro anni prima erano state tenute lontane dal ritiro della Nazionale, e gli inglesi avevano vinto il primo e unico Mondiale della loro storia. Da quel momento, il fenomeno culturale delle WAGS, mogli e fidanzate dei calciatori, non farà altro che diventare sempre più prevalente nel discorso mediatico sullo sport, fino al suo culmine negli anni Duemila.
L’ossessione per le compagne dei calciatori comunque è ben lontana dall’essersi esaurita: Piero Ausilio, direttore sportivo dell’Inter, ha candidamente ammesso pochi giorni fa di avere un profilo Instagram falso per spiare le compagne degli atleti. «Dalle mogli e dalle fidanzate si capiscono tante cose, anche della personalità del calciatore. Ho iniziato con una moglie famosa di un calciatore perché stava dando tantissimi problemi».
Per tornare al tennis, nemmeno l’integerrimo Nadal si è salvato dall’insinuazione che il suo matrimonio, celebrato quasi un mese prima, l’avesse portato alla sconfitta nella partita d’esordio delle ATP Finals del 2019. Il maiorchino aveva tagliato corto: «Questa è una stronzata».
Del resto, donna uguale sesso, e il sesso si sa, stanca e fa giocare male. Non possono ontologicamente convivere: il calcio stesso, come altri sport di squadra, nasce proprio per arginare la piaga della masturbazione maschile, ritenuta la causa del declino dell’impero britannico. Ce lo hanno insegnato anche Cicciolina e Moana nel film cult, fantasiosamente chiamato Cicciolina e Moana Mondiali: le due attrici riuscivano ad assicurare la vittoria finale agli Azzurri a Italia 90 esaurendo le energie degli avversari più temibili a forza di prestazioni sessuali estenuanti.
La superstizione è antica quanto la nascita dello sport: nel I secolo dopo Cristo, il medico Areteo di Cappadocia scriveva che trattenere il liquido seminale aumentasse la forza e le prestazioni fisiche. Muhammad Ali diceva di astenersi dai rapporti sessuali per le sei settimane che precedevano un match. Più di recente, nel 2019, Antonio Conte, all’epoca allenatore dell’Inter, ha spiegato che i consigli sulla vita sessuale sono parte della preparazione atletica: «In periodo di competizione, il rapporto non deve durare a lungo, bisogna fare il minor sforzo possibile, quindi restando sotto la partner». Inoltre, sarebbe meglio farlo con le mogli, «così non si è costretti a fare una prestazione eccezionale». Da anni i medici cercano di sfatare questo mito: le evidenze empiriche suggeriscono che non esistono controindicazioni fisiologiche o metaboliche al sesso fino a due ore prima di una gara. Tuttavia, c’è ancora chi pensa che se lo sforzo patriottico di Cicciolina e Moana non fosse stato solo un artificio di trama, forse avremmo vinto i Mondiali nel 1990.
A Wimbledon Berrettini è tornato a vincere: lo ha fatto contro Sonego, che solo un paio di settimane fa gli aveva lasciato tre game, e lo ha fatto in condizioni complicate dalla pioggia. Lo ha fatto anche contro Alex de Minaur, recente finalista del Queen’s, dando segnali ancora più incoraggianti sul suo recupero. E lo ha fatto contro Zverev, in una delle migliori partite della sua carriera, possiamo dirlo.
Manca ancora tutta la stagione del cemento americano, dove Berrettini può ancora fare bene, al netto di una classifica un tantino compromessa che ora gli regala spesso tabelloni intricati. Come diceva Berrettini a marzo: «Non devo farmi prendere dall’angoscia e dalla fretta. Sappiamo che una delle mie migliori stagioni, il 2019, è iniziata proprio così». A prescindere da quale sia il futuro della sua carriera, se tornerà a essere splendente o non si riprenderà mai, il modo in cui se ne è parlato rivela che certi modelli che sembravano superati e démodé sono duri a morire. Li ha riassunti piuttosto bene Paolo Bertolucci, dopotutto: «Se stava con Francamaria Fraschetti non gliene fregava niente a nessuno. Siccome sta con una ragazza famosa, allora la colpa è quella».