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Perché per la Cina il medagliere è così importante
05 ago 2024
Per il gigante asiatico le Olimpiadi hanno un peso politico profondo.
(articolo)
15 min
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IMAGO / Xinhua
(copertina) IMAGO / Xinhua
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Le Olimpiadi moderne si fondano su un presupposto che ne assicura la sacralità rituale: l’unità del mondo. Il celebre motto decoubertiniano per cui l’importante è partecipare, in questo senso, è spesso frainteso o quanto meno banalizzato. Per il barone francese infatti, era cruciale che atleti di tutto il mondo partecipassero all’evento appena risorto dall’oblio, proprio per rappresentare quest’armonia e quest’unione. È impossibile quindi comprendere lo sviluppo del movimento olimpico a guida decoubertiniana senza il riferimento alla coeva Società delle Nazioni, antesignana delle Nazioni Unite - garante giuridica e politica dell’unità del mondo, perlomeno sulla carta.

Certo, ci sono stati momenti in cui si sono viste crepe inquietanti in questo apparato ideologico. Si pensi, ad esempio, al reciproco boicottaggio americano e sovietico del 1980 e del 1984. Una contesa strategica tra imperi fatta di minacce, sanzioni, deterrenza militare, guerre a bassa intensità e contesa sportiva ovviamente, per mezzo proprio dell’agone olimpico, a cui l’Unione Sovietica cominciò a prendere parte solo nel 1952.

Seppur tra mille difficoltà e contraddizioni, però, il senso profondo dei Giochi Olimpici rimane quello che la cerimonia d’apertura cerca di mettere in scena: il mondo, nella grande varietà delle sue nazioni, idealmente riunito assieme, nello stesso tempo e nello stesso spazio, cementato in amicizia per la celebrazione dello stesso unico evento.

Raramente, però, si pensa a quello che succede dopo, e allo sdoppiamento che va in scena quando cominciano le competizioni. Da una parte le Olimpiadi "della tradizione”, che hanno da sempre nel nuoto e nell’atletica le discipline sovrane del programma di gare e dei palinsesti. Dall’altra, quasi separate, le più recenti Olimpiadi “asiatiche”, di cui il pubblico occidentale poco o nulla sa e vede, e in cui, soprattutto in due discipline, il tennis tavolo e il badminton, la partecipazione e le vittorie vedono un’egemonia schiacciante della Cina (soprattutto nel primo).

Alle nostre latitudini questi due sport, che fino al 1988 non facevano parte del programma olimpico, suscitano ilarità o stravaganza. Il primo perché percepito più come un passatempo che un vero e proprio sport (ma quale sport non è anche un passatempo?), il secondo perché evocatore di ricordi d’infanzia e di sorridenti scambi tra Lady Mariam e Lady Cocca nel cartone di Robin Hood, non certo di epiche contese sportive. A poco serve ricordare che, come quasi tutti gli sport moderni, anche tennis tavolo e badminton sono nati nell’alveo dell’aristocrazia inglese (Badminton è addirittura il nome del castello ubicato nel Gloucestershire in cui è stato codificato questo sport).

Del come il tennis tavolo sia diventato imprescindibile in Cina si parla anche in Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica.

Questa frattura, tra Olimpiadi “classiche” e Olimpiadi “asiatiche”, chiamiamole così, spiega il mondo molto più del calcio, se ci vogliamo rifare al celebre libro di Franklin Foer (Come il calcio spiega il mondo). O forse, più che il mondo, sarebbe meglio dire il tema geopolitico principale del nostro presente storico, dominato dalla nuova guerra fredda tendente al tiepido tra Cina e Stati Uniti, e da una globalizzazione che, grazie a questo scontro per ora attivo a livello di reciproche sanzioni giuridiche nel campo dei settori economici a più alto contenuto tecnologico, si sta sempre di più articolando per blocchi contrapposti, grandi spazi poco comunicanti fra loro, poggianti su valori, forme politiche e visioni del mondo radicalmente differenti. Tutto il contrario dell’unità del mondo posta a fondamento dello stesso spirito olimpico.

Se per guardare dentro gli Stati Uniti può avere senso prestare attenzione a una figura come Caitlin Clark, per quanto riguarda la Cina lo sguardo secondo me dovrebbe poggiarsi su un’altra icona sportiva femminile, quasi coetanea di Clark tra l’altro, cioè Sun Yingsha.

Giovane regina del tennis tavolo mondiale, una delle atlete che il CIO sul proprio sito ha posizionato tra i personaggi maggiormente da seguire ai Giochi parigini, Yingsha ha debuttato ad alto livello nel 2017, prima di scalare velocemente tutte le classifiche. Ai Giochi di Tokyo ha vinto l’argento nel singolare femminile e l’oro nel doppio misto, nell’ultimo anno ha vinto praticamente tutto quello che c’era da vincere. A Parigi ha già vinto un oro (sempre nel doppio misto), un argento (nell’individuale, nuovamente sconfitta come a Tokyo dalla connazionale Chen Meng) e andrà alla ricerca di un altro oro nel doppio nella prova a squadre femminile. In Cina è una delle maggiori icone sportive della cosiddetta Gen Z, e potrebbe essere lei, fallimenti imprevisti permettendo, il volto per eccellenza delle Olimpiadi asiatiche di cui stiamo parlando.

Sono tutto fuorché un esperto di tennis tavolo, quindi non so raccontare perché Yingsha sia così forte. Credo funzioni come ha spiegato il professore di origini romene Andy Markovits, cioè che gli sport corrispondano alla struttura delle lingue, e che la fatica di apprendere una lingua straniera, specie se molto diversa dalla propria, sia paragonabile a quella di apprendere sport “stranieri” - diversi cioè da quelli seguiti in maniera abituale. Anche il fascino, per me, somiglia a quello che si prova per le lingue straniere: nel caso del tennis tavolo, per esempio, la battuta mi sembra una danza spirituale.

La Cina e le Olimpiadi

La figura di Sun Yingsha però ci permette di guardare la Cina più in profondità. Ma per farlo bisogna innanzitutto farsi delle domande: ad esempio, perché per la Cina le Olimpiadi sono così importanti?

Per una nazione che si è sempre autorappresentata come il centro del mondo, e che tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento ha vissuto il suo secolo d’umiliazione, in cui è stata sconfitta militarmente e costretta a subire trattati durissimi prima dai britannici e poi, con largo spargimento di sangue, dai giapponesi, e che è in seguito passata attraverso una durissima guerra civile e la disperazione economica sotto il maoismo, ecco dicevo, per un Paese che ha passato tutto questo, riguadagnare status, potenza, rispetto di sé e considerazione internazionale è una missione storica, e da questo sforzo deriva la principale fonte di legittimazione per gli attuali reggenti del Partito Comunista Cinese. Da questo punto di vista, lo sport occupa un ruolo centrale per superare questo storico complesso d’inferiorità, e il tennis tavolo - sport praticato da molti protagonisti della rivoluzione comunista cinese - ancora di più.

La parola cinese che dice sport, tiyu, significa coltivazione del corpo, e questo già ci parla del fatto che una delle grandi cause del secolo d’umiliazione venne individuata già agli inizi del Novecento nella debolezza fisica della popolazione cinese, soprattutto quella giovane, viziata anche dalla dipendenza tossicologica dall’oppio. Di fronte a quella che veniva percepita come una vera e propria malattia, lo sport diventa una leva fondamentale della ricostruzione nazionale, intesa proprio come ricostruzione dei corpi.

Tiyu ha però assunto anche un altro senso, la proiezione internazionale a cui lo sport dà accesso con le sue competizioni, un teatro in cui la Cina può far vedere al mondo la propria guarigione, a partire dal più importante di tutti, quello olimpico. Quando Deng Xiaoping sul finire degli anni Settanta del secolo scorso inaugura la nuova era cinese fatta di apertura al mondo e ai capitali internazionali, lo sport diventa un fattore chiave proprio in questo senso, ed è sotto la sua reggenza che parte il massiccio investimento statale nello sport olimpico, in un modello basato sulle scuole di avviamento allo sport copiato dai sovietici, a cui la Cina aggiunge anche la competizione interna per scovare talenti e creare specializzazioni di successo fra le sue componenti territoriali.

La Cina ritorna ai Giochi nel 1980, dopo un esilio durato quasi trent’anni per via della disputa con Taiwan, e nessuna medaglia vinta nelle prime quattro partecipazioni del 1932, 1936, 1948 e 1952. Vincere quante più medaglie d’oro possibili diviene quindi il modo per dire in primo luogo a se stessi che non si è più malati. Vedere il proprio nome svettare in alto nel medagliere, il modo per avere una conferma della propria forza. Vedere come portabandiera olimpico un figlio di sportivi cinesi scelto per primo al draft NBA (Yao Ming) il modo per dire che anche un popolo che secondo lo stereotipo è minuto può stare al cospetto dei grandi. Vincere la medaglia d’oro nei 110 ostacoli, come capitò a Liu Xiang ad Atene 2004, la prova che il popolo cinese, a lungo convinto di poter competere solo nelle discipline che richiedono destrezza tecnica e coordinativa, può farlo anche in quelle che richiedono forza e velocità. Qui a Parigi si è aggiunto un nuovo traguardo storico per lo sport olimpico cinese, con il primo oro nel tennis, vinto da Zheng Qinwen nel singolare femminile.

L’atleta occidentale vince in primo luogo per sé stesso. L’atleta cinese vince per l’onore della propria nazione e della propria famiglia, o almeno questo è l’unica narrazione che conosciamo, che è la narrazione del partito comunista cinese. Come viene magistralmente spiegato in questo libro di Xu Guoqi, uno dei più autorevoli storici della Cina contemporanea, il senso individuale delle vittorie olimpiche degli atleti cinesi esiste solo in questo sfondo collettivo dominato dall’idea della restaurazione di una potenza perduta, in cui lo sport diventa tutt’uno con un progetto di filosofia della storia.

Nel primo caso il fallimento non produce catastrofi collettive. Nel secondo perdere significa far perdere la propria nazione, farle perdere la faccia, e mianzi nella lingua cinese, letteralmente “faccia”, è il nome dato a questa situazione di pubblica vergogna, di cui i cinesi conoscono l’estremo dolore sportivo principalmente attraverso il calcio e le numerose sconfitte sfacciate ed umilianti rimediate nell’ultimo trentennio dalle avversarie più improbabili. Da questo punto di vista, che a noi europei sembra perverso, è perfettamente logico che gli atleti facenti parti delle squadre nazionali siano per legge obbligati a seguire dei corsi di patriottismo, socialismo e storia militare.

Due millenni e mezzo fa, nell’VIII Pitica, il poeta greco Pindaro dedicò alcuni versi a degli atleti sconfitti, descrivendo il loro ritorno dagli agoni compiuto strisciando di nascosto per i vicoli della città, intenti a non farsi vedere perché mancando la vittoria avevano procurato vergogna ai propri concittadini. Anche per la mentalità cinese contemporanea, straordinariamente consonante con lo spirito agonistico della Grecia antica, conta solo vincere, e la soddisfazione maggiore a Pechino 2008 fu costringere le emittenti americane a usare il medagliere ordinato secondo le medaglie complessive vinte, perché in quello degli ori la Cina aveva per la prima volta superato gli Stati Uniti. Non stupisce quindi sapere, come viene ricordato nel bestseller di Tian Tao e Wun Chunbo, che nella scuola di formazione di Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni, tra i vari corsi si studino Pindaro e le antiche Olimpiadi, riferimenti che in Europa, patria dell’agonismo olimpico antico e moderno, appaiono al più come trastulli per una sparuta minoranza di eruditi.

Nessuna nazione si vota in maniera esistenziale alla “geopolitica del medagliere” come la Cina contemporanea, qualcosa di tipico di quasi tutti i regimi dittatoriali. E in questo sforzo il contributo alla causa apportato dagli sport femminili è storicamente quello maggiormente determinante. Qui, nella sua forma più visibile, si manifesta la filosofia della storia su basi sportive di cui dicevamo: dai corpi femminili cinesi deformati e costretti per quasi un millennio alla vita sedentaria a causa della pratica della fasciatura dei piedi, ai corpi femminili atletici e iper-allenati che sognano di vincere ori per la patria.

C’è un ultimo elemento da aggiungere. In un paper dell’Australian Institute of Sport (la massima istituzione sportiva australiana) che analizzava i punti di forza delle delegazioni olimpiche delle varie nazioni. Nel documento si sottolineava come nei documenti ufficiali cinesi relativi alla programmazione olimpica venisse sempre ricordato come l’obiettivo primario di ogni spedizione fosse quello di superare il Giappone nel medagliere, per vendicare nei modi incruenti dello sport la memoria dell’invasione subita ma anche per dimostrarsi all’altezza della sua antica grandezza, visto che il Giappone sconfiggendo l’impero russo nel 1904 divenne il primo Paese orientale a umiliare militarmente uno occidentale. Da questo punto di vista non è di poco conto il fatto che alcune delle rivali più temibili di Sun Yingsha a Parigi, alcune peraltro giovanissime, sono state (e saranno) delle atlete giapponesi.

L’esempio di Sun Yingsha

Il secondo aspetto della separazione riguarda il contenuto interiore dell’agonismo sportivo, cioè il vissuto emotivo degli atleti. Sun Yingsha ha dichiarato qualche mese fa in un’intervista che uno dei segreti della sua forza sportiva è pensare, soprattutto nei momenti decisivi delle partite, alla connessione tra i propri desideri e il buon nome della madrepatria, accostamento che le suscita una forza mentale indomabile. Ha usato queste testuali parole: forza mentale indomabile.

Sun ha raccontato varie volte del significato fondamentale di potersi allenare sin da giovanissima con le grandi divinità del tennis tavolo cinese, della responsabilità enorme di entrare a far parte dell’élite dei prescelti di cui prima abbiamo detto, della durezza di questo percorso e dei suoi ritmi di allenamento massacranti, ma allo stesso tempo del suo valore formativo. Un tipo di comunicazione che ci sembra aliena, e che, nonostante sia con ogni probabilità guidata dagli organi del partito, dobbiamo prendere per sincera per capire fino in fondo questo mondo distante.

Siamo stati a lungo abituati a vedere negli atleti cinesi (e prima ancora in quelli sovietici) dei corpi privi di anima e verbo, semplici esecutori militari di comandi e decisioni prese in altre sfere (o almeno così è come venivano raffigurati dai media occidentali). Sun è invece una perfetta rappresentante della Gen Z cinese, e oltre alla dimestichezza comunicativa ne incarna alla perfezione anche il fortissimo sentimento nazionalista. Qualcosa che segna una differenza ancora più grande rispetto al clima che si respira dall’altra parte del Pacifico, negli Stati Uniti.

Una delle grandi tendenze dello sport occidentale degli ultimi anni, che vede protagoniste le università americane, da sempre cuore propulsivo del sistema sportivo a stelle e strisce, riguarda al contrario una messa in questione dell’agonismo sportivo, percepito ormai come un’ossessione negativa, una fonte di pressioni esterne ed esigenze troppo elevate. Una critica del carattere velenoso, tossico dello sport, e del carattere velenoso e tossico di tanti allenatori e allenatrici, che colpisce perché proveniente da un Paese che da sempre si ciba di agonismo, e che ha sostanzialmente eretto le sue università come riedizioni dei ginnasi greci, in cui ad esempio Stanford può essere oggi sia il cuore della potenza scientifico-tecnologica americana, e quindi mondiale, quanto il luogo di produzione del maggior numero di medagliati olimpici. Ne abbiamo degli esempi più recenti anche da noi, con la vicenda già molto discussa che ha riguardato Benedetta Pilato.

Fare sport di alto livello è un peso per la mente, che bisogna cercare di raccontare e comunicare in tutta la sua complessità, esternando senza vergogna difficoltà e problemi, in un nuovo modello di eroe sportivo idealmente eretto attorno alle lacrime omeriche di Achille. Il benessere mentale conta più delle medaglie, le medaglie senza benessere mentale non valgono niente. È in particolare lo sport femminile americano ad aver aperto la breccia che ha introdotto questa sensibilizzazione, ed è da qui che va misurata la distanza profondissima con le parole di Sun. Difficile trovare delle mediazioni possibili.

Dalla prospettiva occidentale l’ossessione olimpica cinese ci appare come follia degenerativa, frutto malato di un regime malato, produzione seriale di giovani vittime innocenti deprivate del proprio benessere mentale. Dalla prospettiva cinese questo atteggiamento rappresenta un ulteriore conferma della debolezza della gioventù americana, già piagata da altre debolezze come il consumo di droghe, in un perfetto rovesciamento storico delle parti.

Pensiamo alla differente reazione che suscita questo episodio: tre anni fa, in preparazione ai Giochi di Tokyo, i genitori di Sun scelsero di non dire alla propria figlia, impegnata in un lunghissimo collegiale di preparazione, della morte della propria nonna, con cui Sun era cresciuta, per non comprometterle la preparazione rovinandole la concentrazione. Sun saprà del lutto solo a Olimpiadi terminate, circa cento giorni dopo l’accaduto. Sono stati i suoi genitori a rivelare questa notizia alla stampa, fatto che mostra come il compito sportivo di onorare la nazione e ristabilirla nel suo orgoglio e nella sua considerazione internazionale sia prepotente nella visione cinese del mondo rispetto a ogni considerazione individuale o privata, mentre per noi occidentali questa censura ci appare come una violenza psicologica tremenda, da niente giustificata. Certo, da qui è difficile distinguere tra la propaganda di partito, a cui i cittadini cercano di aderire per convenienza, e sincera convinzione, ma per me ci si può vedere nel suo fondo una differenza culturale profonda.

Per dire, Sun ha dichiarato che l’epifania sul proprio percorso sportivo le è arrivata qualche anno fa durante una corsa punitiva di 10 chilometri che le era stata comminata dalla propria allenatrice. In quel momento, ha dichiarato, ha compreso di non dover avere paura delle sconfitte, perché la via di ogni grande atleta è eretta sulla capacità di migliorarsi attraverso di esse. Nei Paesi europei, e ancora di più negli Stati Uniti, gli allenatori non potrebbero punire in maniera così militarmente severa i propri atleti senza rischiare linciaggi mediatici e sanzioni giudiziarie. E anche questo ci dice molto.

È lungo questa frattura, di cui noi vediamo solo una faccia, che si apre quindi la distanza tra le Olimpiadi “classiche” e le Olimpiadi “asiatiche”. In definitiva cioè, tra l’impero statunitense di cui facciamo parte, e di quello cinese a cui per forza di cose siamo contrapposti. Una differenza forse più profonda di quello che ci piace pensare.

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