Immaginate di avere a disposizione un budget di 33 milioni di euro per il monte ingaggi e di voler costruire una squadra più competitiva possibile. Se fossimo in un videogioco o nel fantacalcio, non ci sarebbero troppi problemi nello spendere almeno il 60% di quella somma per gli attaccanti, completando la rosa con mestieranti e affari a parametro zero. Nella realtà di un club di Serie A però come funziona? È davvero possibile applicare lo stesso ragionamento?
La risposta, potete immaginarlo, non è così semplice come sembra, o almeno questo è quello che vi risponderebbe la gran parte dei direttori sportivi del nostro campionato. Eppure, a vedere bene, in Serie A c'è chi fa esattamente così, peraltro con una storia di risultati più che discreti sul campo: il Sassuolo. Il club neroverde è infatti quello del nostro campionato con la più ampia sproporzione nella spesa salariale tra i quattro reparti, con oltre 20 milioni di euro (lordi) destinati agli attaccanti, a fronte di 13 milioni e mezzo circa spalmati tra porta, difesa e centrocampo. Un’occhiata a questo grafico su Capology rende evidente a prima vista tale disequilibrio.
I risultati del Sassuolo anche quest'anno sono un riflesso, sul campo, di questa strategia. Dopo la sconfitta maturata lunedì scorso con un altro finale pazzo del Cagliari e di Pavoletti, e il successivo pareggio 2-2 contro l’Udinese, la squadra di Alessio Dionisi occupa ora il quindicesimo posto, con l’ottavo attacco più prolifico del campionato ma una difesa che ha concesso tantissimo: 30 gol in 16 partite, meglio soltanto della Salernitana (34). Per la squadra emiliana è una situazione piuttosto familiare. Dal suo arrivo in Serie A, è stata spesso tra le squadre che hanno concesso ma anche segnato di più: sei anni su dieci tra le peggiori sei difese, e altrettante stagioni chiuse nella colonna sinistra della classifica offensiva. Nelle ultime due stagioni, Consigli è stato battuto rispettivamente 61 e 66 volte, e la proiezione per il 2024 a oggi scollina quota 70.
Anche quando vince...
Questa recidiva fragilità difensiva, però, non sembra dare troppa noia alla dirigenza, anzi. In estate, seguendo le orme di quanto fatto dodici mesi prima, è stato confermato il blocco Consigli-Toljan-Erlic-Tressoldi, rimpiazzando il solo Rogerio (dopo sei anni) con Matias Viña. Ampliando la prospettiva, tra le dieci operazioni di mercato più onerose per il Sassuolo negli ultimi 24 mesi (nell’ordine: Pinamonti, Álvarez, Boloca, Thorstvedt, Laurienté, Lipani, Volpato, Bajrami, Mulattieri, Antiste) non troviamo nemmeno un difensore; e allargando ulteriormente lo sguardo, possiamo vedere che nella storia del club non sono mai stati spesi 10 milioni o più per un innesto nella retroguardia, a fronte di sette in attacco e quattro a centrocampo.
Naturalmente, per costruire una solida retroguardia non servono soltanto investimenti e difensori costosi, anzi. Il Bologna di Thiago Motta, ad esempio, finora ha concesso solo 12 reti (terzo miglior dato del campionato, dietro Inter e Juventus) e 0.71 xG (rigori esclusi) per 90 minuti; e questo pur spendendo nei salari dei difensori una cifra ben distante (11.8 milioni lordi) rispetto a quella destinata di Inter (34) e Juventus (42) appunto, ma anche di altre “big” come Roma (37.5), Milan (29), Lazio (21), Napoli (20.5) e Atalanta (15), sempre secondo i dati forniti da Capology. Altri due validi esempi dalla passata stagione sono il Lecce di Marco Baroni e il Torino di Ivan Juric.
Non è solo una questione di qualità degli interpreti, che come sappiamo è dipendente dal contesto tattico in cui si esprime, ma anche del modo delle squadre di stare in campo. È fondamentale quindi tenere conto anche della scelta degli allenatori e dei sistemi di gioco e in questo senso la società neroverde sembra aver preso una chiara direzione ormai da anni. Il Sassuolo guidato da Di Francesco prima e De Zerbi poi ha sfornato un talento offensivo dopo l’altro, anche grazie al contributo delle idee di gioco portate a Reggio Emilia dai due tecnici attualmente sulle panchine di Frosinone e Brighton (che, tra l’altro, sono rispettivamente nono attacco e quindicesima difesa in Serie A, e settimo attacco e sedicesima difesa in Premier League). Le scelte della dirigenza sul mercato e la cronica fragilità difensiva del Sassuolo ne sono allo stesso tempo una causa e una conseguenza.
Al di là di questo, comunque, rimane il fatto che il Sassuolo spenda molto di meno per i difensori, quasi come se non gli interessasse migliorare la propria fase difensiva. Ma è davvero così? Anche qui la risposta è complicata, e per arrivarci bisogna partire da lontano. Innanzitutto da alcuni dati di fatto.
Le fondamenta
Il Sassuolo è, senza mezzi termini, un lusso sfrenato per una cittadina di circa 40mila abitanti e per una fanbase stimata da StageUp intorno ai 68mila tifosi: prima degli emiliani, nella storia del campionato italiano, soltanto il Chievo era riuscito a portare una comunità tanto ristretta sul palcoscenico europeo. Gran parte della solidità del Sassuolo deriva dalle possibilità finanziarie della proprietà Squinzi, che oltre a uno stadio di proprietà e un centro sportivo all’avanguardia ha regalato un decennio abbondante di Serie A e addirittura una qualificazione in Europa League (2016), dopo quasi un secolo di militanza nelle leghe inferiori.
La data spartiacque nella storia del Sassuolo è quindi il 2002, anno in cui Giorgio Squinzi ne ha rilevato la proprietà espandendo la capillare presenza dell’azienda milanese - un colosso della chimica industriale - nel panorama sportivo internazionale. Ai tempi la squadra giocava in Serie C2 ed era distante anni luce dai riflettori del grande calcio, ma stava per iniziare una scalata “che vi farà credere nei miracoli”, come ha scritto Karan Tejwani sul Guardian.
«Guardateci bene, perché tra 10 anni andremo a San Siro a vincere contro l’Inter», aveva promesso al tempo Squinzi, come ci ha raccontato Alberto Pomini, storico portiere del Sassuolo dalla Serie C all’Europa League. Un traguardo simbolico che, al di là della dichiarata fede rossonera, tradiva la gittata delle ambizioni dell’imprenditore. «Ci siamo guardati tra di noi per capire se l’avesse detto davvero», ha ricordato Pomini. Il successo sul campo dell’Inter (0-1, Berardi su rigore nei minuti di recupero), non l’ultimo, arriverà effettivamente nel gennaio 2016, al terzo anno in Serie A. Nel frattempo, il club aveva trovato nella vicina Reggio Emilia la propria nuova casa, acquistando nel 2013 l’impianto della Reggiana (ribattezzato Mapei Stadium) e diventando il terzo club italiano con uno stadio di proprietà. Il Sassuolo aveva già conquistato due salvezze e nel 2015/16, sotto la guida di Eusebio Di Francesco, si stava affermando come rivelazione del campionato. A livello dirigenziale, poi, aveva affidato le chiavi del progetto all’amministratore delegato Giovanni Carnevali, pietra angolare del modello-Sassuolo dal 2014 ad oggi.
Il sostegno economico di Mapei, come raccontano i bilanci della società, non è mai venuto meno in questi anni. Sono oltre 300 i milioni iniettati complessivamente dall’azienda tra sponsor sulla maglia e naming rights di stadio e centro sportivo, ovvero quasi un terzo del fatturato netto del club (escluse le entrate da player trading). Una solida garanzia per una provinciale dal seguito limitato e sostanzialmente priva di tradizione, soprattutto di fronte alle passività dovute alla pandemia.
Non si tratta, però, solo di capitale. A Sassuolo sono state importate anche la supervisione, la gestione finanziaria e la programmazione a lungo termine proprie di una realtà delle dimensioni del Gruppo Mapei, che ha un fatturato annuo di 4 miliardi di euro e 12mila dipendenti in tutto il mondo. Lo stesso Carnevali ha raccontato che «Squinzi ha trattato il Sassuolo come se fosse una qualunque azienda del gruppo Mapei: ha dato alla dirigenza e alla squadra una struttura importante, ma soprattutto una programmazione virtuosa». Un progetto in cui la sostenibilità economica non preclude, anzi alimenta l’approccio ambizioso al futuro, come è sempre stato dall’arrivo di Giorgio Squinzi e anche dopo la sua morte nel 2019. Vanno in questa direzione gli investimenti sul mercato, sulle infrastrutture, sul settore giovanile e sulla squadra femminile.
Per tenere questa macchina sempre oliata serviva però che il Sassuolo avesse una sua sostenibilità, e di questi anni nel calcio italiano questo obiettivo si raggiunge soprattutto attraverso il player trading. Da questo punto di vista, la società neroverde è andata anche oltre, trasformandosi in un modello. Negli ultimi anni, in Serie A un numero molto ristretto di squadre ha fatto meglio: solo Atalanta, Udinese ed Empoli hanno un saldo netto migliore dal 2018 ad oggi. «Dobbiamo sempre far combaciare aspetti tecnici ed economici», spiega Carnevali, «non potendoci permettere di perdere denaro ed essendo parte di un gruppo che ha 98 fabbriche nel mondo». Il divario tra teoria e pratica, però, è molto ampio. Il limitato bacino d’utenza del Sassuolo restringe non poco le opportunità commerciali (il Mapei Stadium è uno degli impianti meno frequentati della Serie A) e questo restringe lo spazio di manovra. «Una società del nostro livello, che non ha grandi incassi da diritti TV e pubblico, deve puntare sui giocatori, farli crescere e venderli a società importanti: non è facile, ma è l’obiettivo che dobbiamo portare avanti».
Un modello Sassuolo?
Non è solo questione di scouting, però. Nell’affermazione dei neroverdi ha giocato un ruolo fondamentale la creazione di un contesto, di un’identità e quindi di una reputazione funzionali al percorso di crescita. La missione, diventare un club perfetto per giovani e in particolar modo attaccanti in rampa di lancio in Serie A, aderisce perfettamente all’atmosfera rilassata che circonda la squadra: lontano dalle pressioni delle grandi piazze e dalle zone calde della classifica, è l’habitat ideale - forse l’unico possibile - per lanciare giocatori inesperti e gestire il continuo ricambio in spogliatoio. Con quel pizzico di stabilità garantita dalle comode salvezze sul campo (fino ad adesso almeno) e dalla presenza in spogliatoio di qualche punto fermo - Mimmo Berardi su tutti - in mezzo al via vai di giovani.
Il resto, l’hanno fatto le idee e le scelte. E qui si torna alla scelta degli allenatori. Al di là delle tante scommesse vincenti nell’era Mapei (Allegri, Pioli, Di Francesco, De Zerbi), la dirigenza ha sempre prediletto allenatori in grado di esaltare le qualità offensive del collettivo e inclini a dare spazio ai giovani, assecondando poi la scelta con operazioni coerenti sul mercato. E così sulla panchina neroverde abbiamo visto tecnici diversi tra loro, ma il più delle volte orientati a un calcio propositivo, al controllo del campo attraverso il possesso palla, alla libertà espressiva degli attaccanti. Tante giovani punte, mezze punte, esterni d’attacco e trequartisti hanno tratto beneficio da tutto ciò, e conseguentemente la stessa società. Certo, il Sassuolo ha fatto qualche plusvalenza significativa anche in difesa (Demiral, Acerbi e Vrsaljko, per esempio), ma le fondamenta del suo piccolo impero poggiano principalmente sui talenti offensivi. E in campo alla fine si vede.
È così che il Sassuolo si è costruito il suo modello, che chiaramente non è l’unico possibile per chi deve vivere di player trading - sono tanti, del resto, i club che investono e monetizzano maggiormente nei reparti difensivi - ma che a Reggio Emilia è diventato la specialità della casa. Difficile dire perché abbia scelto proprio questa strada. Forse è per la convinzione che lo sviluppo e la valorizzazione degli attaccanti sia un processo meno complicato, o più rapido; o forse è il valore commerciale di questi giocatori ad essere storicamente più alto rispetto ad altri ruoli; o forse le cose sono anche più semplici di così, e semplicemente: sistema che vince non si cambia.
Il rafforzamento della credibilità del club in tal senso ha consentito la costruzione di un network ormai ben oltre la dimensione nazionale. «Abbiamo stretto buonissimi rapporti con i club più importanti, ponendoci come interlocuzione per lo sviluppo di quei giovani che da loro non avrebbero avuto spazio: era una parte della nostra strategia, e ha funzionato bene. Ora però abbiamo ampliato i nostri legami, guardiamo all’Europa, al Chelsea, al Barcellona, all’Atlético Madrid, società con cui collaboriamo da anni».
Le plusvalenze
Come inevitabile, la combinazione di talento e inesperienza ha generato effetti sorprendenti in questi anni, nel bene e nel male. Il Sassuolo è diventato l’ammazzagrandi per antonomasia del campionato, con un bilancio surreale contro le milanesi (7 vittorie e 3 pareggi negli scontri con il Milan, 9 vittorie e 2 pareggi contro l’Inter) e tante serate di passione regalate al pubblico italiano. Ad esempio, il 4-2 rifilato ai rossoneri nel 2014 (poker di Berardi) e il 3-2 dell’anno successivo, oppure le quattro vittorie consecutive a San Siro nel 2022 e 2023 (tra cui un 2-5), il 4-2 con la Juve a settembre, il 3-4 con la Roma a marzo, e così via.
Il rovescio della medaglia è la discontinuità di rendimento, nell’arco delle stagioni ma anche delle singole partite, che affligge cronicamente i neroverdi. L’incredibile rimonta subita a Cagliari è l’ultima di tante partite buttate via a risultato quasi acquisito (già nel 2018 era possibile stilare una lista preoccupante); e in questi anni non sono mancati periodi di crisi, risultati ondivaghi e passaggi a vuoto imbarazzanti, come i tre 7-0 incassati da Inter e Juve.
In queste montagne russe, però, il Sassuolo è riuscito a trovare una sua stabilità. Di classifica e di bilancio, come certificano i dati - tutt’altro che ondivaghi - relativi ai ricavi dal player trading. Dal 2013 fino all’ultima annualità contabilizzata (2022), le entrate garantite dal calciomercato sono state pari a 332 milioni di euro, cifra non comprensiva delle ultime due sessioni, in cui è stato incassato il riscatto di Raspadori e sono stati ceduti, tra gli altri, Traorè e Frattesi.
L’attivo record di 60 milioni di euro registrato nell’ultimo esercizio, permesso dalla plusvalenza da oltre 32 milioni per la cessione di Scamacca al West Ham, è stato finora l’apice in tal senso; quella per l’attuale punta dell’Atalanta, però, è solo una delle tante grandi operazioni messe a segno dalla società neroverde. La lista sarebbe già lunga con i nomi menzionati fin qui: Frattesi, Traorè, Raspadori, Scamacca, Locatelli, Sensi, Demiral, Acerbi, Vrsaljko; ma non è tutto, ci sarebbero anche Boga, Politano, Zaza, Duncan, Sansone, Lirola, Marlon, Pellegrini.
Da tutti questi giovani proiettati nel grande calcio, il Sassuolo ha generato centinaia di milioni di utile e portato al Mapei Stadium una cascata di altri prospetti da sviluppare e mettere sul mercato; sia sotto forma di contropartite tecniche (ad esempio Mulattieri, Marco Sala e Gravillon), sia reinvestendo massicciamente sul mercato. Nel 2022 la monetizzazione di Scamacca, Raspadori e Boga ha indotto la dirigenza a spendere somme importanti per una squadra di media classifica, con le acquisizioni di Pinamonti (20 milioni circa), Alvarez (12), Thorstvedt (10) e Laurienté (10). Una sessione di mercato che ha dimostrato quanto sia fragile un equilibrio che si basi così tanto sul player trading, che inevitabilmente si basa anche sulle buone prestazioni della squadra.
Con Dionisi, le cose sembrano essersi un pochino appannate e, se si esclude l’affermazione di Boloca in questa prima parte di stagione, è più difficile immaginare per il Sassuolo plusvalenze grasse come quelle degli anni scorsi. Senza contare l’ombra sempre più presente di un possibile addio di Mimmo Berardi, che potrebbe togliere l’assicurazione sulla permanenza in Serie A al Sassuolo rendendo tutto più difficile.
Il Sassuolo 2023/24, dunque, è solo l'ennesimo collettivo frizzante davanti e traballante dietro plasmato da queste parti. Non serve guardare lontano, del resto, per comprendere i motivi delle sofferenze difensive. Dovrebbe bastare una scorsa alla rosa, in ordine di presenze stagionali: Erlic, Viña, Toljan, Tressoldi, Pedersen, Ferrari, Viti e il giovanissimo Missori; cui si aggiunge il pacchetto di portieri composto da Consigli, Cragno e Pegolo. E così, la squadra di Dionisi non è riuscita a mantenere inviolata la propria porta nemmeno in un’occasione per ora; e anche in questa stagione, come nella scorsa, è una delle difese con il peggior saldo tra xG concessi e gol subiti (-5.7). Difficile immaginare un’inversione di rotta con l’organico attuale, carente in marcatura e nell’uno contro uno, così come è improbabile che arrivino rinforzi significativi nel mercato di riparazione. Uno o due innesti affidabili in difesa potrebbero fare comodo, senz’altro, ma come detto non sembra essere quello che interessa al Sassuolo, che continuerà a scendere in campo per segnare un gol in più degli avversari più che subirne uno in meno.
Considerazioni del genere magari non accenderanno l’entusiasmo dei tifosi, come avviene più o meno sistematicamente nello sport quando le logiche competitive si intrecciano con quelle aziendali. Il Sassuolo, però, rappresenta un caso diverso da tanti altri. La società deve rendere conto del proprio operato a una fanbase troppo piccola per esercitare una vera pressione, e considerando da dove è partito il percorso della squadra sono davvero in pochi quelli che possono rimproverare qualcosa alla famiglia Squinzi e al Gruppo Mapei.