Andrés Nicolás D’Alessandro e io siamo nati a distanza di poche ore. Condividiamo il segno zodiacale, Ariete, e per quello che possa significare anche l’ascendente: Cancro. Secondo le credenze astrologiche, il segno zodiacale che si trova all’orizzonte orientale del luogo di nascita eserciterebbe un particolare influsso sulle sorti degli uomini: il Cancro, anticamente, era chiamato “il segno della lacrima”.
La vita di D’Alessandro, e forse in parte anche la mia e quella di tutti, è piena di lacrime, di timidezze, di fragilità. Di rimpianti elaborati con un atteggiamento mai auto-assolutorio. A un certo punto, le nostre esistenze si sono incrociate: lui, sul campo, aveva l’onere morale - più per convenzione che per indole - di entusiasmare. Io, più per predisposizione che per abitudine, sentivo dalla mia di avere il diritto sacrosanto di innamorarmi.
Foto di Daniel Garcia / Getty Images.
Non mi sono mai fidato troppo dei pareri degli altri: ho sempre preferito abbracciare in solitudine ogni singolo meraviglioso fallimento, senza pentimenti. Mi sono invaghito, certo, anche perdutamente, a volte. E non c’è nessuna delusione che sia stata così forte da cancellare dalla memoria i momenti in cui ho creduto con forza che un libro, una donna, un amico, una birra, un calciatore, fossero i migliori che potessi incrociare, che potessi sentirmi fortunato per il solo fatto di averli incrociati. Di Andrés ho pensato, con veemenza circoscritta nel tempo, ma a più riprese, che sarebbe potuto diventare uno dei più forti calciatori della mia epoca. Se ho il coraggio di scriverlo, è perché so di non essere il solo.
La sua non è una storia di insuccesso in senso lato: non è sprofondato nell’oblio dei rimpianti, e la sua bacheca è assai più piena di quelle di molti altri evanescenti protagonisti di warholiani quarti d’ora di celebrità. La delusione di D’Alessandro sta tutta in come si è dipanata la sua carriera. Gli highest peaks, perché ne ha avuti, non sono mai stati così brillanti da fargli perdonare le premesse non mantenute.
Andrés Nicolás D’Alessandro poteva diventare molte cose, e molte cose - ma quasi tutte sbagliate - è finito per diventare. Sempre con il dono poco invidiabile di saper rovinare ogni momento, sprecare ogni opportunità.
Premesse
Nel 2001, in Argentina, si disputano i Mondiali U20. I padroni di casa stanno affrontando la Finlandia, e Livio Prieto si infortuna. Al suo posto entra in campo Andrés Nicolás D’Alessandro. È soprannominato Cabezón (che per chi non sapesse proprio nulla di spagnolo significa testone, anche nel senso di testa grossa) ed è al River da quando aveva 8 anni. In un’intervista da ragazzino, con lo stesso tono di voce trascinato e insolente che conserverà negli anni, dice di ispirarsi a Rúben Paz, un calciatore uruguayano transitato anche per l’Italia, più solido che fantasioso. Ha il passato turbolento di chi viene dal barrio, e la stessa pragmatica predisposizione al sacrificio: per aiutare i genitori fa il lavapiatti dal giovedì alla domenica e consegna pizze in motorino.
Quella al Mondiale U20, con Pékerman in panchina, non è la prima presenza in una giovanile Albiceleste. Nel 1998 Tocalli l’ha già fatto esordire con l’U23 nel torneo di qualificazione alle Olimpiadi. L’anno successivo sempre Pékerman l’ha portato con sé in una tournée in Inghilterra, dove il West Ham se ne è innamorato. L’offerta al River, con cui ha già fatto qualche apparizione in prima squadra, è importante: quattro milioni di dollari. Il River accetta, poi ci ripensa. Ne chiede sette e non se ne fa più nulla.
Nei primi scorci con il River ha già messo in mostra le sue caratteristiche tecniche fondamentali, concentrate in quella che è una vera e propria signature move. La chiama “la boba” e sembra rappresentare alla perfezione quello che sarà la carriera di D’Alessandro: mascheramenti, eclissi, oblio, ma anche un abbacinante nitore, una luce di quelle che disorientano. In quel Mondiale, intanto, va in rete già nella gara d’esordio, senza mai toccare il pallone con un piede che non sia il sinistro.
A fine torneo, nonostante Andrés fosse sostanzialmente sconosciuto (sicuramente meno in luce del “Chori” Domínguez titolare del River), Pelé, che ha l’innamoramento facile ma mai scontato, dirà «è il migliore che abbia visto in Argentina». In quel Mondiale o in senso lato?
Il fatto che sia nato a La Paternal, lo stesso quartiere di Maradona, e usi il sinistro come se fosse l’unico piede con cui può fare qualcosa di diverso che non sia scaricare il peso del proprio corpo, porta già con sé un carico di sottotesti a cui è difficile sfuggire. I primi anni zero sono quelli in cui non ci si può permettere di non somigliare a qualcuno che ha già scritto la storia.
Il primo Andrés, chissà magari il più puro, ha una capacità di lettura degli spazi e degli angoli (di passaggio, di tiro) che non sono parte di quello che il pubblico gli chiede per entusiasmarsi. Gli spettatori preferiscono la sua capacità nel dribbling, sempre sfuggevole sulla fascia, brutale nell’uno contro uno, è questa sua indole ad essere molto apprezzata. In una delle sue prime partite, contro l’Independiente, segna un gol che La Nación battezza «capolavoro di genio e d’inventiva».
L'illusione della felicità
Ha la testa rasata, la maglia larga: è un piccolo buddha con la diez sulle spalle. Alla seconda stagione da titolare Manuel Pellegrini lo nomina capitano. Con una maturità inattesa doma le proprie frustrazioni, e domina gli spazi in campo. Gioca un calcio di seta, eppure istintivo. Organico, verrebbe da dire, ma quando si invola sulla fascia in isolamento è anche esplosivo.
È felice, o almeno lo sembra. Ha un senso d’appartenenza, di coinvolgimento emotivo, altissimo nel River. Al primo Clásico rimedia la prima espulsione, che rimarrà la sola e unica in Primera. Vederlo giocare è veder giocare un leader, qualcuno che dà l’impressione di essere un pesce troppo grande per nuotare in un piccolo stagno, del quale temi il sacrificio.
A vent’anni, Cabezón, ci sembra ancora una meraviglia d’inventiva. Sei il capitano della squadra che t’ha cresciuto, cosa puoi chiedere di meglio? Però l’Europa ti reclama. A Barcellona - dove è già arrivato Saviola - Van Gaal si confessa estasiato. Valdano, con intelligenza, nel ritratto che dipinge sembra voler gettare il seme del dubbio, per preservarlo, per ritardare l’inevitabilità del salto nel vuoto. Dice «è il classico argentino, abile con la palla ma innamorato al punto da apparire pretenzioso».
Il 2002 è anche l’anno del centenario del Real Madrid. Viene organizzata un’amichevole contro una selezione di stelle mondiali, che mescola campioni a giovani promesse. D’Alessandro viene invitato: mentre è in Spagna compare in un programma televisivo con la maglia del Barcellona. Poi scende in campo al fianco di Kakà «lasciando tutti meravigliati», come dice il presidente del River Plate, José María Aguilar, che lo ha accompagnato a Madrid con la speranza di piazzare il colpo.
Anche D’Alessandro comincia a volere fortemente l’Europa. Nelle interviste di quel periodo si schermisce, si dice lusingato dell’interessamento ma anche consapevole di essere importante per il River Plate, in patria. Forse gli manca soltanto, come avrebbero avuto Tévez e Mascherano, la capacità di riconoscere ogni transizione come endemica. In quel momento è combattuto, una parte di D'Alessandro vorrebbe, per lui, solo il meglio; ma presto si farà strada la convinzione che con la mediocrità, tutto sommato, si può convivere.
Per tagliare il cordone ombelicale, in ogni caso, c’era bisogno di un trauma. Uno squarcio nel terreno che ti costringe a prendere il coraggio a quattro mani, se non vuoi precipitare nel vuoto, e saltare. Senza nessuna garanzia di riuscire a superare il calanco.
Il salto nel vuoto
Il più grande errore in carriera di D’Alessandro, forse, è stato accettare il cambio di prospettiva troppo tardi, quando si era ormai abituato allo status di eroe, di più giovane capitano del River, di piccola leggenda di casa sua.
Nel 2004 D'Alessanro aveva 23 anni, e con la Selección aveva già vinto la medaglia d’oro olimpica. Con la Nazionale maggiore, però, aveva da poco perso in maniera rocambolesca la finale di Copa América, in cui aveva indossato la maglia numero 10 e incarnato la nouvelle vogue del calcio argentino. Era arrivato il momento di imprimere uno scarto alla propria carriera. Aver avuto Bielsa come allenatore, pensava D’Alessandro, l’avrebbe facilitato al cambio di velocità. «Ho deciso di andare in Germania, ma giocavo ancora al ritmo del River. Il Loco mi ha insegnato la tattica, quando fermarmi, mi ha fatto capire il gioco: mi ha detto come avrei dovuto marcare, rispettare posizioni».
Anche se oggi ci si può ripensare con simpatia, forse addirittura nostalgia, il Wolfsburg in quell’hic et nunc non è esattamente il contesto ideale per D’Alessandro. In Germania non riesce ad essere brillante come avevamo imparato a conoscerlo in Argentina e per chi ne ha seguito l’evoluzione, speranzoso (come me), quel risultato di ceneri bagnate infonde tristezza.
Spesso frustrato, nervoso, riottoso, D'Alessandro non riesce a brillare della luce che gli dipingeva un’aura attorno al Monumental. Eric Gerets, il suo allenatore in un tratto della prima stagione, dopo qualche mese deludente dice: «Mi piace Andrés e ho provato a difenderlo a lungo, ma non posso concedergli un trattamento preferenziale rispetto al resto della squadra. Ho bisogno di calma e normalità, e se ci sono giocatori che non ci stanno allora dovrò fare a meno di loro».
Andrés non è calmo: in una sfida contro il Borussia supera Rosicky con un tunnel, e il ceco lo stende. D’Alessandro reagisce, perché puoi portare via un argentino dal barrio ma non riuscirai mai a portar via il barrio da un argentino, e gli affronti si lavano con la riottosità. Klaus Augenthaler, suo allenatore nell'anno successivo, sarà ancora più severo: «Non ho bisogno di undici Maradona in campo». E ancora, su D'Alessandro: «Deve capire che la sua partita non è finita quando gli portano via la palla».
D’Alessandro non riesce a trattenersi. «Sono stanco di sentirmi dire che devo lavorare sul gioco difensivo», esplode. «Ci sono altri tipi di giocatori che devono fare questo compito». Nel tentativo di giustificarsi, D’Alessandro peggiora la sua situazione. In Germania non riesce a dimostrare che tipo di calciatore sia, si sente incompreso. Forse perché i tifosi, e gli addetti ai lavori, e i giornalisti, di D’Alessandro, si sono fatti - così come me - un’impressione sbagliata.
La Boba
Ho riguardato qualche partita di D’Alessandro al Wolfsburg: cerca spesso la giocata di prima, controintuitivamente rispetto all’immagine di un "dieci" argentino, a quella dipinta da Valdano. Poche volte intraprende, come se ne vergognasse, o cercasse di liberarsene, la Boba che l’ha reso celebre. Il suo trick più conosciuto: un passo di tango, una sfida da gaucho agli stalloni della Pampa. Il piede sopra la palla, l’accarezza, la pettina: l’avversario la vede, ora non la vede più. D’Alessandro la tira verso di sé, poi la mette di nuovo in mostra: quando lo sfidante si avventa sulla sfera, Andrés se lo è già lasciato alle spalle.
«Mi è uscita fuori per la prima volta nel ‘99, nelle giovanili. Mi è venuto incontro un ragazzo e l’ho fatta. Mi è riuscita, perciò ci ho riprovato». Il nome del trucchetto l’ha coniato Eduardo “Chacho” Coudet, compagno di D’Alessandro al River. «Una volta l’ha fatta tre volte in partita. In tv passavano le immagini a ripetizione, e mi è venuto da fissarmi sulle facce degli avversari che subivano il dribbling. Sembravano instupiditi». Bobo, in spagnolo, la parola per stupido. «Ma non è una cosa che faccio solo quando stiamo vincendo», spiega D’Alessandro sul suo sito, che ha una pagina dedicata alla “boba”. «Serve a concretizzare un vantaggio di gioco, per squilibrare la difesa avversaria durante un attacco».
Per questo tipo di magie, un altro soprannome di D’Alessandro è “Mandrake”. Come Trobbiani. Ma un calciatore distillato all’essenza profonda dei suoi trick è un calciatore vittima di un riduzionismo. Si può anche implodere, sotto il peso delle aspettative di una spettacolarità inespressa.
Nel 2006 D’Alessandro è già l’ombra di una supernova di cui si sono perse le coordinate nella mappa del firmamento. Per tornare - iniziare? - a brillare accetta di andare in prestito in Premier League. Vederlo giocare al Portsmouth alimenta quel tipo di rimpianto che affiora dai racconti di Roberto Arlt, un «dolore simile al pulsare del nervo di un dente cariato». Dei sei mesi in Premier rimarranno una salvezza alla quale contribuisce marginalmente e un gol, contro il Charlton, che è l’epitome di una carriera: una rete tanto bella quanto inutile, vanificata dalla rimonta e dal sorpasso, nei minuti successivi, dei rivali.
Ovviamente, immancabilmente, c’è anche una “boba”.
Mi viene da pensare che l’elemento straniante nella carriera di D’Alessandro sia l’emozionalità troppo spinta, la teatralità esacerbata, il fatto che ogni giocata - o esperienza - somigli alla scena in cui le attricette di provincia sbattono platealmente la porta uscendo di scena. Se fosse stato più freddo, chissà. Ma a rendere tragica la sua spettacolarità esteriore è l’umiltà profonda con cui sembra rifiutare il ruolo di primadonna, quel desiderio interiore di guadagnarsi un riconoscimento honoris causa che l’ha portato a scegliere destinazioni in cui era impossibile evitare lo scontro di personalità.
L’ho amato ancora, Andrés, di quei ritorni di fiamma passionali e incontenibili, quando ha scelto Saragozza, quando ha deciso di mettersi alla prova - l’ultima che gli era concessa, in Europa - in uno spogliatoio che tracimava ego.
Doversi giocare il posto con Pablo Aimar non l’ha favorito. Una volta, in allenamento, i due argentini sono arrivati quasi alle mani. «Stai sempre a parlare, ti lamenti di tutto», l’ha rimproverato Aimar. «Non alzare la voce con me, boludo», gli ha risposto D’Alessandro, dandogli dello "stupido" o, forse più propriamente, del "coglione". E poi: «Ti ammazzo. Sei il meno indicato per parlare. Fai sempre quello che ti pare, dentro e fuori dal campo. Ma chi ti credi di essere?».
A fine allenamento Aimar ha minimizzato: «Sono cose che succedono in uno spogliatoio coeso, in cui tutti hanno voglia di emergere». Era chiaro che D’Alessandro temesse, piuttosto, di affondare definitivamente. Un timore fondato: il tecnico Víctor Fernández, infatti, qualche settimana dopo lo mette fuori rosa.
Per ogni giocatore argentino, tornare in patria sul tramonto dei propri giorni calcistici corrisponde al coronamento di una carriera. Farlo prima che sia il tempo giusto, invece, può corrispondere al riconoscimento di un fallimento, o alla volontà di rilanciarsi. Nel caso di D’Alessandro tornare in Primera, ma con la maglia del San Lorenzo, disegna uno scenario in cui le motivazioni si confondono, intricate in un groviglio difficile da sprimacciare.
Un tornare-non-tornare
D'Alessandro stesso aveva dichiarato che il suo ritorno in Argentina si sarebbe concretizzato solo nel momento in cui gli avessero chiesto di tornare a indossare la maglia del “Millonario”. Che torni per giocare nel San Lorenzo, per questo, è una scelta che stupisce, ma fino a un certo punto. Qualcuno, dalla sala dei bottoni de “El más grande”, deve avergli fatto promesse irrealizzabili, deve aver tradito la sua fiducia (e, inoltre, al San Lorenzo ritrova il suo vecchio allenatore, Ramón Díaz).
Quando con il “Cuervo” affonda, negli ottavi di Libertadores, proprio il suo River (la notte del silencio atroz, in cui il San Lorenzo in dieci rimonta due reti di svantaggio e supera il turno) la reazione è sproporzionata e confusa. Dice: «Mi dispiace per il pubblico, per la mia gente. Ma stasera vorrei fare un saluto speciale a chi gestisce il River. A chi sta arriba». «Perché non ti hanno riportato a casa?», gli chiede l’intervistatore. «È difficile da spiegare, adesso», tituba lui. Ostenta un sorriso tiratissimo. Poi, con una “boba” ai pensieri e alle parole, sgattaiola via. «Però il mio saluto più speciale è per loro».
Foto di AFP / Stringer.
Al River, infine, sarebbe tornato nel 2016. In prestito, per una sola mezza stagione, che è sembrata durare un’eternità. Perché dopo il San Lorenzo (quando Díaz ha lasciato il club) c’è stata l’esperienza brasiliana dell’Internacional de Porto Alegre, la più felice della sua carriera. La parentesi che se non avesse avuto un prima così ingombrante, e un dopo così agrodolce, ci avrebbe costruito in testa l’idea di un calciatore maturo, vincente. Di un trascinatore, casomai. Di un leader vittorioso, che spinge il “Colorado” verso una Copa Sudamericana, nel 2008, e una Libertadores, nel 2010, e quasi a un Mondiale per Club, lo stesso anno.
Lontano dalle aspettative, D’Alessandro ha trovato l’equilibrio domestico di chi si accontenta di essere un pesce grande in un piccolo stagno; a metà strada tra un assurdo autoculto della personalità e un incitamento, sullo stomaco si tatua il suo volto e l’abbreviazione del suo nome, che suona come un incoraggiamento: D’Ale. Dale. «Qui, per noi, D’Alessandro significa qualcosa di simile a quello che è stato Maradona per Napoli», dicono i tifosi.
Anche se nel 2016, con l’Internacional retrocesso per la prima volta nella sua storia nella seconda serie brasiliana, vivono l’addio di D’Alessandro come un piccolo tradimento, un abbandono. «C’è una mescolanza di gioia e tristezza oggi in me», dice D’Alessandro in conferenza stampa. Si commuove, ma poco prima, nell’ultima partita in campo, ha risposto agli insulti accusatori di un tifoso dagli spalti. «Torno a casa, nella mia terra, dai miei genitori. Torno al club in cui sono cresciuto dopo tredici anni».
I tifosi dell’Internacional gli danno del mercenario ma lui quando torna al River si tiene lontano dai proclami trionfalistici del rientro (per esempio, quelli di Tévez al Boca): «Sono qui per essere uno in più». Con il River di Gallardo vince due titoli in un semestre: la Copa d’Argentina e la Recopa Sudamericana. Dovrebbe suscitare empatia, strappare ammirazione, questa parabola lacrimevole e che invece, almeno per me, coincide con il gesto della rottura non fragorosa, ma insanabile con l'International. Uno sfizio che D'Alessandro si è tolto ma che ha finito con il macchiare la sua parabola all'Internacional di Porto Alegre: quando è tornato in Brasile dopo il prestito, con la squadra sempre in seconda divisione, non era già più come prima.
A volte un ritorno può essere più intempestivo e puntuale di un addio, e scontentare tutti, essere interpretato come la scelta egoista di chi sceglie di (o si ostina a) tornare. Il ritorno-non-ritorno di D’Alessandro al River non è una storia che rinfocola le vecchie passioni. Somiglia più, magari, alla fotografia di quel momento in cui ti accorgi di come l’amore di una vita si sia trasformato, senza che te ne sia reso conto prima, in qualcosa in cui l'innamoramento ha ceduto il passo alla stima, o al rispetto.