Capita di innamorarsi delle persone sbagliate, dare fiducia a qualcuno che non lo merita, vedere capacità che non ci sono. Quando però il tempo dimostra l'errore si resta convinti, anche se non lo si ammette a sé stessi, che la persona non era sbagliata e meritava fiducia e aveva capacità. E che in ogni caso quell'amore non è andato sprecato.
Vale lo stesso nel calcio, dove le promesse non mantenute lasciano intatto un sentimento. E un risentimento, certo, perché è doloroso capacitarsi di un talento che si atrofizza invece di sbocciare.
Rafał Wolski non è un nome di grido, non ha mai avuto un hype condiviso, e la sua caduta è stata rumorosa solo per chi ha fatto in tempo a restarne abbagliato, o prendere l'abbaglio.
Io ho creduto in lui, d'istinto e senza esitare, e adesso che non è più un giovane con potenziale (perché a Kozienice, nel cuore della Polonia, ci è nato il 10 novembre 1992) devo riconoscere che è un potenziale inespresso. Pensavo si sarebbe preso palcoscenici di livello, a quasi venticinque anni gioca nel campionato polacco ed è fuori dalla nazionale.
Parte da centrocampo, solo verso la porta, ma come è sola una lepre in una battuta di caccia. Si allarga lentamente, dà all'avversario l'opportunità di recuperare. Poi si infila tra quello e l'altro che sopraggiunge. E una volta strozzato il tempo, basta appoggiare di piatto. È il suo primo gol in serie A. L'unico.
179 centimetri per 66 chili. Un fisico in controtendenza rispetto al calcio moderno. Si muove con leggerezza, ben dritto, elegantissimo. Non danza, piuttosto è una farfalla che si posa, torna a sollevarsi, di nuovo si posa.
Personalmente nel calcio sono affascinato dai corpi diversi. Quelli che l'evoluzione del gioco sembra escludere, quelli che nonostante tutto arrivano tra i professionisti. Ho visto Rafał Wolski trovare delle alternative per sostenere fisicamente gli impatti: questo mi dava la certezza che potesse sopravvivere ovunque, come una farfalla che la selezione naturale ha fatto sopravvivere in un habitat ostile.
Concentra tutte le energie sulla gestione del pallone. Gli avversari non esistono, tutto riguarda soltanto lui. Nelle azioni migliori pare avvolto dall'invincibilità di Super Mario quando prendeva la stelletta.
Ha una sensibilità del piede assolutamente superiore, un modo di stendere la gamba che ricorda un dispositivo meccanico. Ed è ambidestro, perfettamente a suo agio e anzi desideroso di usare entrambi i piedi, come se questo aumentasse il rapporto col pallone. Come se lo toccasse di più.
Sguscia fra gli avversari con piacere, senza avvertirne la pressione ma piuttosto andando incontro a un balsamo. Anche quando sarebbe facile evitare la morsa, va a ricercarla. È così anche per i tunnel, che seguono lo stesso principio e ai quali ricorre volentieri. Appena può, alza il coefficiente di difficoltà, in opposizione alla logica.
A diciannove anni partecipa agli Europei 2012, pur senza entrare in campo. Aveva esordito con la nazionale maggiore solo qualche settimana prima.
L'estate successiva arriva in Italia. È una grande speranza del Legia Varsavia, la Fiorentina sborsa circa 3 milioni per il cartellino, lo strappa a Borussia Dortmund e Roma.
Lui, sicurissimo dei propri mezzi, dice frasi come: “A me non piace rinunciare”. Si deve scansare dai paragoni con Roberto Baggio, fa una grande impressione a Luciano Chiarugi, secondo Lorenzo Amoruso ricorda Zidane.
Il suo percorso con la maglia della Polonia è del tutto anomalo: esordisce in nazionale maggiore senza passare dall'Under 21, poi viene retrocesso in Under 21 e richiamato dopo ben due anni, per giocare un unico, simbolicissimo minuto.
La mancanza di linearità è una cifra che aderisce a Wolski fin da quando lascia la Polonia. Al Legia Varsavia ha un infortunio, sembra necessaria una complessa operazione. Quando arriva a Firenze si scopre che la diagnosi dei medici del Legia è sbagliata, il problema al piede non è grave. Tutto lo staff medico del club polacco viene licenziato.
Alla Fiorentina lui non vuole fermarsi subito, preferirebbe andare in prestito in Polonia e accumulare minuti dopo l'infortunio. Montella però lo convince a restare. È l'errore che probabilmente segna la carriera di Wolski. In cinque mesi gioca mezz'ora, giusto nel finale di stagione ha qualche spazio.
Eppure in quell'anno mi aveva colpito. C'era qualcosa, in Wolski, non avevo dubbi che si sarebbe affermato. Un colpo di fulmine che difficilmente mi spiego, sul piano razionale, a leggere le sue statistiche in viola: 487 minuti, un gol e due assist.
Non si afferma. Anzi, il suo percorso contraddice i passi fatti. Wolski si perde, cambia tre squadre in due anni. Gioca scampoli col Bari in B e nel campionato belga col Mechelen, ha un minutaggio ridicolo. Si solleva al Wisła Cracovia, nell'Ekstraklasa polacca, il campionato che lui stesso definiva “non eccezionale”. Un ritorno a casa che sa di sconfitta, come una convivenza andata male che fa ricoverare da mamma e papà. Nei sei mesi al Wisła trova posto, sì, mette insieme 4 gol e 9 assist, ma il prestito non diventa altro.
Trovo commovente che Wolski, lo scorso settembre, abbia detto: “Nelle mie esperienze passate ho trovato difficoltà ma non ho mai fallito”. Deve essere un'autonarrazione che gli permette di motivarsi.
Con la maglia rossa del Wisła. All'inizio pare leggere poco lucidamente il contesto, protegge il pallone troppo presto. Poi resiste alla pressione, e deve scattargli qualcosa perché smette di ripiegarsi su di sé: inventa una finta bellissima, prende tempo col tocco di suola, e gli riesce un esterno potente.
L'estate scorsa, una svolta. La Fiorentina cede il suo cartellino, per mezzo milione, al Lechia di Danzica. Una società di secondo piano in Polonia, con qualche discreto giocatore e l'ex juventino Miloš Krasić. A ridosso della firma, Wolski dichiara: “Voglio dimostrare che non ho dimenticato come giocare a calcio”.
E in questi mesi ha un sussulto, dimostra in effetti di non averlo dimenticato. L'investimento della società lo rassicura, il tecnico gli dà sempre una maglia da titolare, e quindi la fiducia. Certo, il contesto è il campionato polacco e le sue ambizioni saranno ancora da qualche parte a macerare.
19 novembre 2011. Ha compiuto 19 anni da pochi giorni. Gioca nella squadra che l'ha lanciato, il Legia Varsavia, contro la squadra in cui oggi cerca di rilanciarsi. Vuole avanzare col pallone ma di fronte ha uno sbarramento e lui è troppo fragile per buttarlo giù. Controlla di petto e sceglie qualcosa di illogico: manda avanti il pallone con un destro morbidissimo, scivola sulla confusione del difensore e di sinistro spacca la porta.
Poteva essere molte cose: un rifinitore che svaria sulla trequarti, un esterno offensivo, anche un centrocampista di costruzione. Non è riuscito a essere qualcosa per davvero. Ancora adesso la sua posizione è mobile, e dà un senso di incertezza più che di versatilità. Wolski è un irrisolto che vaga.
Oggi il Lechia Gdańsk guida il campionato polacco, per la prima volta nella sua storia. Ha un buon vantaggio, a poche settimane dalla fine della stagione.
“Ho ancora molti anni per dimostrare ciò che valgo” ha sostenuto Wolski di recente. A me piacerebbe pensare che non sia una strategia motivazionale, che sbaglio io a celebrare il suo talento perduto.