Questo articolo vorrebbe parlare solo di sport: di Sagan, della sua evoluzione, delle sue prospettive alla luce di questa importantissima vittoria. Purtroppo, però, il trionfo di Sagan non sarà l’unica cosa per cui ricorderemo questa Parigi-Roubaix.
Mentre il ciclista slovacco vinceva per la prima volta la Parigi-Roubaix, a pochi chilometri di distanza Michael Goolaerts lottava per sopravvivere in un letto d’ospedale. Il ciclista belga di appena 23 anni è crollato a terra nel secondo dei ventinove settori di pavé in programma, a circa 150 chilometri dal traguardo. Si è accasciato al suolo apparentemente senza motivo. La motoripresa gli è passata accanto inquadrandolo giusto per un istante, sdraiato a bordo strada, come fosse una delle tantissime cadute che in quel momento stavano spezzando il gruppo. Ma purtroppo quella non era una caduta come le altre e Michale Goolaerts è morto poco dopo per arresto cardiaco.
Il mondo del ciclismo si è rivolto attonito verso questa tragedia, sconvolto ancora una volta da un ragazzo che all’improvviso smette di essere parte del gruppo. Da ogni parte sono arrivati messaggi e segnali di affetto e condoglianze, e come ogni volta lo sport si ferma a pensare, a piangere, per poi ripartire subito dopo.
Domenica scorsa, sul Muro di Grammont.
Il brutto rapporto tra Sagan e le Classiche
Si è discusso molto in questi anni, e soprattutto nelle ultime settimane, sulla reale capacità di Peter Sagan di vincere le Classiche del pavé dopo anni di fallimenti, forse perché, come tutti i fuoriclasse, paradossalmente fa più notizia quando non vince.
Due settimane fa Sagan ha vinto la Gand-Wevelgem rimanendo nella pancia del gruppo e aspettando passivamente la volata prima di fulminare tutti i suoi avversari. Ma la stessa strategia non aveva funzionato per il Giro delle Fiandre, domenica scorsa. Sagan ha aspettato, ma ha marcato i suoi principali avversari talmente a lungo che nel frattempo si è fatto scappar via Niki Terpstra e non l’ha più ripreso. Ci ha provato troppo tardi, e troppo timidamente.
Negli ultimi anni Sagan ci ha abituati a questa condotta di gara più passiva. La sua trasformazione in velocista, cercata e riuscita alla perfezione, tanto da portarlo a indossare per ben cinque volte la Maglia Verde della classifica a punti sul podio di Parigi, forse ha influito però negativamente sull’interpretazione della corsa nelle Classiche del Nord.
Le Classiche sono state da sempre il grande sogno e il grande cruccio di Peter Sagan. Prima di quest’anno era riuscito a portarsi a casa solo una Classica Monumento e una serie di piazzamenti avevano avuto però più il sapore amaro di una sconfitta: due secondi posti a Sanremo, uno al Fiandre (vinto però nel 2016). E poi la Roubaix, sempre sognata e mai neanche sfiorata.
Risultati frutto di una serie di scelte sbagliate che lo hanno portato a dover costantemente inseguire, a finire nel sacco dalla tanto odiata Quick Step o dal suo grande rivale, il campione olimpico Greg Van Avermaet. Inseguire, nell’Enfer du Nord, come viene chiamata la Parigi-Roubaix, significa rischiare, sprecare energie e perdere lucidità. Così si spiegano le cadute, le forature, gli errori grossolani compiuti da Sagan in questi anni (tra cui la caduta al Fiandre del 2017, quando in un disperato tentativo di rimonta su Gilbert si è agganciato alla felpa di un tifoso a bordo strada volando per terra).
Errori tattici, quindi, prima che tecnici. Peter Sagan si è spesso affidato al suo strapotere nelle volate per vincere. Ma le gare sul pavé hanno una logica tutta loro, diversa da qualsiasi altra corsa normale, che le rendono ostiche per questo tipo di strategia. Sagan ha sempre aspettato troppo, perdendo spesso e volentieri l’attimo buono, il treno giusto, o qualsiasi altra frase fatta vogliate usare per definire quel momento della gara in cui il futuro vincitore stacca tutti e va via.
Sagan ha imparato a correre?
Per questo, dopo la vittoria di ieri, si può dire che forse Sagan ha “imparato a correre”. Suona paradossale se pensiamo alle sue oltre cento vittorie in carriera a soli 28 anni, o ai tre Mondiali vinti consecutivamente dal 2015 al 2017. Ma per vincere sulle pietre del nord serve una complessità che finora il ciclista slovacco non aveva ancora dimostrato, sbagliando quasi sempre tutto: dalla scelta della squadra, la Bora-Hansgrohe, priva degli uomini necessari per supportarlo adeguatamente; alle scelte in corsa, sempre in ritardo rispetto agli avversari, che l’avevano lasciato preda delle altre squadre.
Anche mentalmente Sagan non si era dimostrato all’altezza di questo tipo di gare. Si era innervosito di fronte al fatto che gli avversari facessero la corsa su di lui (strategia perfettamente comprensibile quando si affronta quello che al momento è considerato uno dei migliori). È successo in maniera evidente alla Gand-Wevelgem dell’anno scorso, quando Sagan era in fuga con Van Avermaet, Keukeleire, Terpstra e Andersen. Infastidito dalla mancata collaborazione degli ultimi due, Sagan creò un buco che consentì a Van Avermaet e Keukeleire di andarsi a giocare la corsa in una volata a due mentre dietro il terzetto rimasto veniva riassorbito dal gruppo (poi regolato in volata proprio da Sagan).
Ed è successo di nuovo, anche se in maniera meno plateale, alla Milano-Sanremo di quest’anno, quando Sagan ha scelto di non seguire l’attacco di Vincenzo Nibali sul Poggio e aspettare che fossero gli altri favoriti a muoversi per riprendere il siciliano (che ha poi trionfato sul traguardo di Via Roma). Una scelta che si spiega soltanto ripensando a quanto accaduto nell’edizione del 2017, quando Sagan attaccò sul Poggio portandosi dietro Michal Kwiatkowski, che dopo avergli succhiato la ruota per tutti i chilometri conclusivi riuscì a bruciarlo di pochi centimetri in volata. Due situazioni simili in fondo, che delineano un tratto tecnico caratteristico di Peter Sagan, ma anche molto della sua personalità.
Nell’intervista al termine della Gand-Wevelgem 2017 Sagan se la prende con Niki Terpstra. «This is an example how to lose a race against me1, e ancora «I could decide who can win».
Nelle ultime stagioni Sagan aveva affidato una grossa fetta della sua legacy al Mondiale a fine anno, vincendone tre consecutivamente. Tutti e tre i percorsi erano molto simili, e tutti e tre sembravano disegnati su misura per il fuoriclasse slovacco, che dal canto suo non si è lasciato sfuggire l’occasione di entrare nella storia. Se il primo successo era però arrivato a conclusione di un’azione da finisseur, attaccando su un breve strappo a pochi chilometri dal traguardo, gli ultimi due Mondiali hanno visto un Sagan sempre attento a non scoprirsi, nascosto nel gruppo, incurante delle schermaglie degli avversari e pronto a cercare la vittoria con lo sprint finale.
Uno stile di gara che sembrava l’emblema del nuovo Sagan. Un ciclista passivo, stufo di dare spettacolo a tutti i costi e disposto anche a non vincere, se questo significa non far vincere chi sfrutta il suo lavoro senza collaborare. Uno stile che, appunto, non pagava nelle due Monumento del pavé: il Giro delle Fiandre e la Parigi-Roubaix.
Ieri Sagan ha deciso per la prima volta di cambiare, di evolversi per vincere, anticipando gli avversari e partendo da lontano. Ha approfittato dell’attacco di Greg Van Avermaet nella zona di rifornimento per poi ripartire in contropiede e lasciare tutti i suoi avversari sul posto, proprio mentre rifiatavano dopo aver chiuso il buco creato dal campione olimpico in carica.
Ha guadagnato pochi metri senza che nessuno si muovesse per riprenderlo. Poi Marcus Burghardt ha rallentato la sua azione in testa al gruppo e mentre gli altri aspettavano che i Quick Step organizzassero un inseguimento, Sagan se n’è andato. Ha raggiunto i tre fuggitivi di giornata, ha sfruttato il loro lavoro. È stato perfetto anche nel trovare subito l’accordo con i suoi nuovi compagni di fuga: non li ha staccati sul pavé, ma si è fatto dare una mano sull’asfalto provando a portarli tutti sul podio di Roubaix.
L’unico a tenere le sue ruote fino alla fine è stato Silvan Dillier, il campione nazionale svizzero, che tutto si aspettava da questa giornata tranne di finire secondo alla Parigi-Roubaix alla sua seconda partecipazione in carriera. Soprattutto perché la prima, quattro anni fa, non si era conclusa nel migliore dei modi. In realtà, non si era proprio conclusa.
Entrambi si sono ritrovati in testa, a più di 50 chilometri dal velodromo di Roubaix. Sono andati via insieme fino al traguardo, mentre dietro un disperato Niki Terpstra cercava di vincere l’ostracismo degli avversari nei confronti della Quick Step, inutilmente. Nel velodromo, Dillier ha tentato di far la volata ma alla fine è stato scavalcato facilmente da Sagan.
Il posto di Sagan nella storia
Ogni volta che una vittoria porta alla ribalta un nuovo campione è inevitabile che lo si cerchi di paragonare ai più grandi del passato. E Peter Sagan, con la vittoria di ieri, ovviamente non ha fatto eccezione.
Da giovanissimo c’era chi pensava di aver trovato il nuovo Eddy Merckx, forte su tutti i terreni e potenzialmente in grado di vincere anche i Grandi Giri. Ma crescendo Sagan ha scelt una strada diversa e si è concentrato principalmente sulle Classiche del Nord e le volate del Tour de France. Così, essendo impossibile paragonarlo a Tom Boonen, vuoi per le caratteristiche completamente diverse, vuoi perché il belga è stato il simbolo della tanto odiata Quick Step, il campione designato per lo scomodo paragone è stato Fabian Cancellara.
Sagan e Cancellara effettivamente hanno avuto due percorsi simili. Innanzitutto per la scelta di correre in squadre sempre poco attrezzate per la campagna del Nord preferendo muoversi per conto proprio, risolvendo le corse affrontando gli avversari a viso aperto. Anche tecnicamente i due si somigliano per la potenza sprigionata dalle gambe a ogni pedalata, in grado di spianare le pietre del pavé pur non essendo nati su quelle strade.
Foto di Bernard Papon / Getty Images
Entrambi, poi, fin dai primi passi nel mondo del professionismo hanno messo nel mirino le Classiche del Nord, in particolare il Fiandre e la Roubaix.
Finora, però, la differenza tra Sagan e Cancellara sembrava un limite incolmabile. Sagan non ha la forza mentale del cronoman svizzero, né tanto meno la sua straripante potenza in grado di mandare all’aria i piani delle altre squadre. Fino a ieri, Sagan sembrava del tutto incapace di reagire allo strapotere dei belgi. Quest’anno è stata la Quick Step a soffiargli tutte le vittorie sul pavé (Gand-Wevelgem a parte); l’anno scorso ci aveva pensato Van Avermaet, belga anche lui ma capitano dell’americana Bmc.
Ieri, però, Peter Sagan ha fatto un piccolo passo verso il suo modello, o almeno quello che noi gli abbiamo imposto. Ha imparato finalmente che per vincere su queste strade deve stare sempre davanti, attaccare in prima persona anche in punti che sembrano impossibili, perché su questi terreni non puoi permetterti di inseguire. E che per tenere testa alle squadre più forti deve trovarsi degli alleati in corsa perché altrimenti, anche se sei il più forte, finirai sempre per cadere nella rete dei tuoi avversari.
Forse Peter Sagan ha capito che la sua strada non è quella del velocista. Una strada che potrebbe portarlo più lontano di quanto sembrasse possibile.