Dal 18 giugno Gianluca Petrachi non è più il ds della Roma: la notizia, anticipata da La Gazzetta dello Sport, è poi diventata ufficiale con un comunicato laconico del club. Tre righe sputate prive di qualunque formalismo: «L’AS Roma comunica che Gianluca Petrachi è stato sospeso dalle sue mansioni di Direttore Sportivo con effetto immediato. L’allenatore e la squadra saranno guidati direttamente da Guido Fienga, CEO del Club». Nessun rituale ringraziamento per il lavoro svolto, nessun commento sul suo operato. Non c’era spazio per le ipocrisie: la Roma ha licenziato Petrachi, un trattamento che di solito si riserva agli allenatori, e lo ha fatto a una settimana dalla ripresa del campionato, come fosse un’urgenza non più rimandabile, o il frutto di un litigio improvviso e quanto meno anomalo nel calcio d’alto livello, dove si è disposti a sacrificare tutto sull’altare delle apparenze. Anche in un momento più o meno tranquillo per tutti, la Roma è riuscita a far parlare di sé, come una serie tv che non può permettersi cali d’attenzione dal suo pubblico.
I commenti dei tifosi sotto al tweet della Roma sono aspri e le critiche alla società quasi unanimi, ma non è chiaro se si tratta più di un effettivo attaccamento a Petrachi o della sensazione di caos che la Roma trasmette in questo periodo. La pandemia globale ha bloccato una cessione della società che sembrava praticamente fatta, e ha lasciato al timone una presidenza sempre meno amata e dei dirigenti che, agli occhi dei tifosi, sembrano tante facce diverse dello stesso impero del male: Franco Baldini, ufficialmente un consulente di Pallotta che però sembra avere un peso nelle decisioni sportive della società, tanto che per molti è un'eminenza oscura senza un ruolo definito, soprannominato da Ranieri “testagrigia”; l’ad Guido Fienga, senza esperienza sportiva, sbucato fuori quasi dal nulla (quando si cerca su Google la prima ricerca suggerita è “Guido Fienga cv”) e che si è presentato ai tifosi nella dolorosa conferenza di addio di De Rossi; ora Morgan De Santis, odiato da una parte della tifoseria e che ora gestirà il mercato dopo una scalata rapidissima e impronosticabile. Tutti pronti a sacrificare i migliori talenti in rosa all’insaziabile dio delle plusvalenze, necessarie per tenere in piedi un bilancio sempre più squilibrato.
Per molti tifosi il licenziamento di Petrachi, allora, se non altro per tempistiche, sarebbe il segno di una società allo sbando; ma rappresenta anche l’esilio dell’unica figura dirigenziale non disposta al ridimensionamento della Roma. O almeno questo è quello che si racconta, in un ambiente che si nutre di leggende e aneddotica inverificabile come le saghe fantasy. Negli ultimi giorni è circolata la notizia - diffusa da un articolo di Repubblica - che Petrachi avrebbe inviato un sms offensivo al presidente James Pallotta. Il ds si sarebbe risentito della sua mancata citazione nell’intervista rilasciata al sito del club, ma è difficile credere che questa non fosse la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso. Questo tipo di notizie a Roma circola di continuo, ma stavolta le fonti erano diverse e troppo affidabili per non crederci. Del resto sembra un aneddoto nelle corde di un personaggio sanguigno come Petrachi, e il tipo di cosa che tra i tifosi della Roma lo ha fatto passare dalla parte della ragione. Se volete misurare la febbre alla piazza fatevi un giro su questa pagina che riporta gli interventi in radio di quei giorni.
Il suo licenziamento è stato imprevisto fino a un certo punto, perché Petrachi in questi mesi è sembrato un corpo estraneo alla Roma, sia in senso letterale che figurato. Col passare del tempo è finito sempre più sullo sfondo, persino irreperibile durante la quarantena; ma a dire il vero il suo stile, operativo e comunicativo, è sempre sembrato inconciliabile con quello di questa Roma, tanto che è difficile capire perché, la scorsa estate, a qualcuno è sembrata una buona idea nominarlo direttore sportivo.
Petrachi l’uomo forte
Petrachi è diventato ufficialmente ds della Roma il 25 giugno del 2019, ma la notizia era ufficiosa da almeno due mesi, durante i quali è andato in scena un contenzioso legale fra il Torino e il suo vecchio ds, che ha avuto strascichi in un processo risoltosi solo a febbraio con l’assoluzione di Petrachi. A giugno il ds aveva ammesso di lavorare già per i giallorossi nonostante fosse ancora formalmente sotto contratto col Torino, ed era anche circolata la notizia che avrebbe rubato il database di scouting dalla società granata.
La Roma, insomma, sembrava voler puntare molto su di lui, nonostante il suo profilo non fosse del tutto in linea con quello della società. Il ruolo di ds nella Roma è estremamente delicato: la società di Pallotta ha sempre vissuto al di sopra delle proprie possibilità, provando di anno in anno a bilanciare i costi alti attraverso il player trading. In questo gioco d’azzardo il talento del ds nel comprare a poco per rivendere a tanto è cruciale. Petrachi, però, al Torino aveva costruito delle rose puntando soprattutto su ex giovani promesse dal valore incerto (Izzo, Belotti, Benassi, Baselli), su profili concreti e affidabili (De Silvestri, Sirigu, N’Koulou, Burdisso) oppure su giocatori che avevano fallito a un livello più alto ed erano in cerca di riscatto (Iturbe, Cerci, Meite, Ljajic, Immobile, Iago Falque, Niang, Obi, Rincon, Ansaldi, Ola Aina). I risultati erano stati complessivamente buoni, ma in un modello che faceva a meno del player trading.
Nelle prime settimane, però, si diceva che Petrachi sarebbe arrivato alla Roma con la promessa di portare Antonio Conte in panchina. Un allenatore ambizioso e dalle pressanti pretese sul mercato: era difficile immaginarlo in una squadra distante dal poter essere subito competitiva, e infatti Conte ha preferito andare all’Inter. Nella sua conferenza di presentazione Petrachi si è giustificato dicendo che ha provato a convincere Conte che uno Scudetto a Roma avrebbe avuto più valore, ma lui, da parte sua, “voleva vincere subito”. Nel frattempo la Roma aveva ricevuto anche i rifiuti di Sarri e Gasperini, ripiegando infine su Fonseca: una delle poche scelte felici di questa stagione è arrivata quindi quasi per caso (la Roma pare abbia cercato anche Mihajlovic e De Zerbi prima del portoghese). Nella stessa conferenza Petrachi ha mostrato tutta la differenza tra sé e i ds che lo hanno preceduto, dal linguaggio da manager seduttore di Ramon Monchi all’idealismo poetico di Sabatini. Quando ha parlato di mercato però non è stato meno astratto dei suoi predecessori: si è definito “un realista” e quando gli hanno chiesto della strategia di mercato ha detto di volere giocatori “che portano qualità morali”. Ha usato concetti come “appartenenza”, “entusiasmo”, “valori e principi”. Ha saputo toccare le corde giuste di una tifoseria che negli ultimi anni è stata sempre naturalmente dalla parte di chi considerava più puro e romanista (Totti, De Rossi, Di Francesco, Ranieri). Nonostante quindi agli occhi dei tifosi Petrachi sia passato come un ds “pane e salame”, onesto e pratico, anche lui in questi mesi ha saputo manipolare la sua immagine attraverso il linguaggio: la sua retorica era quella del “sacrificio”, “dell’umiltà”, “della sana cattiveria agonistica”. Implicitamente voleva forse dire che tutte queste qualità erano mancate nella Roma precedente.
Petrachi però non è sembrato sempre in controllo del suo linguaggio. Nella stessa conferenza è riuscito a definirsi “omertoso” sulla questioni di mercato (prendendo in prestito il vocabolario mafioso) e al contempo scendere in dettagli molto specifici: «Per ritrovare il vero Higuain non c’è soluzione migliore della Roma. Potrebbe seguire le orme di Batistuta, che qui ha lasciato un segno indelebile»; «Io non ho mai cercato Barella, sono loro che hanno cercato me, dicendo che l’Inter stava traccheggiando. Tentar non nuoce, per me era già difficile prima, figuriamoci adesso». Se Sabatini e Monchi facevano un uso elusivo del linguaggio, Petrachi mette tutto in piazza. Una comunicazione che non poteva piacere a una società che in questi anni ha provato a distinguersi per una comunicazione elegante, virtuosa e attenta alle questioni sociali. Petrachi invece è anche quello che ha detto che il calcio «non è uno sport per signorine».
A febbraio è andato in conferenza per presentare gli acquisti del mercato di gennaio, tre ragazzi semi-sconosciuti rimasti sullo sfondo mentre per il primo quarto d’ora ingaggiava un duello con i giornalisti che tutti a Roma, prima o poi, hanno la tentazione di fare. Si è lamentato che sui media escono fuori “cose da vigliacchi”, poi si è definito “una persona scomoda”: «Non faccio comunella, non prendo caffè con nessuno, non rispondo ai vostri messaggi. La mia schiena è sempre dritta». Petrachi quindi si è fatto anche portavoce del sentimento di molti tifosi che pensano la società goda di una pessima stampa, che i giornali - detta nel gergo comune - “sfondino” la Roma.
Infine, come il suo amico Conte, ha preso a parlare di sé in terza persona: “Petrachi è muscolare, Petrachi parla male, Petrachi fa lapsus”. Petrachi, quindi, troppo semplice e onesto per un ambiente corrotto dall’ipocrisia e dallo strategismo politico. È il messaggio che ha voluto far passare, ma per i tifosi non era difficile credergli. Stiamo pur parlando una società che lascia molte decisioni importanti a un personaggio occultato, Franco Baldini, che vive a Londra (o forse in Sudafrica?) e non compare mai davanti ai microfoni.
La Roma era in un brutto momento di forma e per lui il problema era che si erano montati la testa dopo il derby - possibile? Per un derby pareggiato? - e che avevano smarrito “la sana passione, la sana cattiveria, che poi è quello che vogliono vedere i nostri tifosi”. Dopo la conferenza la società, come era prevedibile, ha preso le distanze dal suo direttore sportivo: ma questo è il gioco che ha fatto Petrachi con scaltrezza: presentarsi in implicito conflitto con una società poco amata e mettersi dalla parte dei tifosi contro tutto e tutti. Un uomo a difesa della Roma: «Tutti hanno capito che non possono venire a Roma a dettare legge, a prendersi i calciatori come vogliono e fare i “prepotenti”» disse alla conferenza di fine mercato estivo.
Petrachi era criticato per le sue conferenze già a Torino.
Del resto per una piazza che ha spesso amato le figure forti e autoritarie - Capello, Spalletti - non era difficile innamorarsi di Petrachi, che alla fine del brutto primo tempo di Reggio Emilia contro il Sassuolo si è presentato nello spogliatoio per cazziare tutti, e che pare abbia rimproverato Dzeko perché ha fermato Fonseca dall’andare a protestare con l’arbitro. Petrachi che nella sua ultima intervista a Sky Sport aveva la foto della vecchia Sud alle spalle e ha detto di essere stato costretto a rimproverare i calciatori perché «Li ho visti un po’ meno convinti e ho dovuto far capire loro che la ripresa si stava avvicinando sempre di più». In una società spesso rimproverata per il suo cinismo aziendalista, in cui il presidente viene sempre accusato di non essere a Roma, Petrachi è riuscito a incarnare la figura un po’ nostalgica di un dirigente vecchie maniere, sempre pronto a strigliare la squadra. Secondo La Gazzetta dello sport, però, lo spogliatoio sarebbe sollevato dal suo allontanamento.
Un mercato difficile da giudicare
Un direttore sportivo però non si giudica dalla sua comunicazione ma dalle sue intuizioni nelle compravendite. E se i problemi comunicativi di Petrachi sono sotto ai nostri occhi, giudicare il suo operato sul mercato è più difficile. Per presentare la Roma 2019/20 Emiliano Battazzi la definiva “un uroboro”, un serpente che si morde la coda ed eternamente si distrugge e si rigenera. In estate quindi ha compiuto l’ennesima rivoluzione, muovendosi molto sia in uscita che in entrata, come ha ricordato Petrachi per chiedere pazienza: «Abbiamo fatto uscire 20 giocatori e ne abbiamo presi 14». È difficile capire quanti di questi siano una scelta del ds.
Spinazzola è stata soprattutto un’operazione finanziaria e oggi non si può dire che la Roma ci abbia guadagnato dallo scambio con Luca Pellegrini. Manolas aveva chiesto la cessione al Napoli e Diawara, arrivato al suo posto, pare sia stata una richiesta esplicita di Fonseca. Poi Petrachi ha preso un buon portiere pagandolo molto, Pau Lopez, e un difensore promettente ma acerbo pagandolo molto, Mancini. Verso la fine del mercato estivo la rosa pareva ancora incompleta e la Roma incerta sul da farsi. Alla fine è stato Franco Baldini, almeno da quanto si dice, a risolvere la situazione aiutando a prendere due giocatori in prestito, Smalling e Mkhitaryan, che hanno tolto tanti problemi alla squadra. Gli altri due prestiti, Zappacosta e Kalinic, hanno avuto abbastanza problemi fisici da renderli ingiudicabili, così come ingiudicabili sono i giovani arrivati a gennaio, Ibanez, Perez e Villar - con il primo comprato attraverso una formula oscura: prestito con obbligo di riscatto a 8/10 milioni, dopo che l’Atalanta lo aveva pagato solo 4 milioni la scorsa estate, e dopo aver giocato neanche 20 minuti in stagione. Fra loro l’acquisto di Jordan Veretout è stato quello forse più nelle corde di Petrachi: un calciatore pronto, senza grossi picchi ma con un rendimento affidabile, pagato il giusto.
Per certi versi Petrachi non è mai sembrato il ds della Roma, una società che brucia sempre più in fretta giocatori, allenatori e dirigenti. Sabatini aveva resistito al comando 6 stagioni e se mentre era in carica la ferocia del suo player trading aveva logorato i tifosi, oggi viene ricordato con nostalgia, e qualcuno chiede persino il suo ritorno. Dopo di lui Monchi ha resistito appena un anno e mezzo: sufficienti per commettere errori che hanno infilato la Roma in una situazione complicata, dal punto di vista sportivo e finanziario. Petrachi doveva essere un normalizzatore, un realista, un pragmatico, ma alla fine è affondato in un contesto forse troppo grande e difficile per le sue possibilità. Nonostante Petrachi abbia diverse attenuanti dalla sua parte, va anche detto che ha finito per lasciarsi in cattivi rapporti sia col Torino che con la Roma, a cui potrebbe addirittura far causa per mobbing.
Nella realtà accelerata della Roma sembra passato un secolo, ma sono trascorsi appena due anni da una delle notti più dolci della storia giallorossa, quella della rimonta al Barcellona. Magari in quel momento avrebbe avuto senso puntare sulla continuità e non sull’ennesima rivoluzione. Da quella partita c’è stata invece una serie impressionante di scelte sbagliate e momenti francamente sfortunati, come ha ricordato Alessandro Austini. I mercati sbagliati da Monchi, il velenoso addio di Totti in conferenza stampa, il labirinto politico dello stadio, l’addio mal gestito di De Rossi, l’infortunio al crociato di Zaniolo - arrivato letteralmente durante la migliore azione della sua carriera - la pandemia globale che ha bloccato la cessione della società, il bilancio ingestibile. Il contesto è così cupo e confuso che è difficile vedere la luce. Eppure non è tutto da buttare: la Roma - pur in una stagione con la tradizionale, devastante trafila di infortuni - a tratti ha mostrato un grande calcio, è ben allenata e ha ancora un patrimonio tecnico significativo, con una media età bassa e alcuni dei talenti più eccitanti in Europa. Servirebbe qualche idea chiara, e un bilancio meno compromesso, è già troppo tardi?