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Evadere con il ping pong
31 lug 2024
Un reportage dal carcere romano di Rebibbia, dove il ping pong sta aiutando a sopportare la detenzione.
(articolo)
7 min
(copertina)
IMAGO / Press Trust of India
(copertina) IMAGO / Press Trust of India
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Su un lato del perimetro del carcere di Rebibbia, in via Bartolo Longo, una parete blu elettrico spezza il monologo grigio del muro di cinta. La porta si apre e chiude con un movimento meccanico autonomo: siamo dentro.

Un agente penitenziario, con una noia che confina con l'ostilità, raccoglie i documenti e segna i nomi dei visitatori autorizzati. L'occhio cade d'istinto sulle finestre delle sale colloqui, fruga dentro, si posa per un attimo sulle vite degli altri. Dopo pochi minuti arriviamo su uno spiazzo all'aperto, su una parete è stata pitturata in bianco la sagoma di una porta da calcio, il confine destro è un palazzo di mattoni rossi alto sei piani. Le finestre, simmetriche, sono chiuse dalle grate.

Siamo nella casa di reclusione di Rebibbia, come ospiti. Siamo qui per giocare un torneo di ping pong. Assieme ai quattro giornalisti ci sono Patrizio Gonnella, presidente di Associazione Antigone, e Susanna Marietti, responsabile della polisportiva Atletico Diritti. Per merito dei loro sforzi, dal 2021 i detenuti di Rebibbia hanno una loro squadra di tennis tavolo, un gruppo che compete a livello agonistico ed è iscritto al campionato FITET (Federazione Italiana Tennis Tavolo) di Serie D.

La squadra è allenata da Fabio Di Silvio, un pongista che è ha giocato in Serie A ed è stato tra i migliori in Italia. «Il campionato inizia ad ottobre, a settembre faccio una sorta di selezione per capire chi è realmente interessato e vuole partecipare al progetto», racconta Di Silvio «Il gruppo è di massimo 15 detenuti, ma siccome l'attività si svolge in ambienti comuni, in modo indiretto partecipa la maggior parte dei ragazzi, alcuni magari vengono solo a vedere, colgono l'occasione per prendere aria e distrarsi un po'».

Foto Atletico Diritti

Ci si allena una volta a inizio settimana, nel weekend c'è la partita. L'Atletico Diritti, inevitabilmente, gioca sempre "in casa". Non è stato semplice: «Adesso gli avversari si sono un po' abituati, nel Lazio il progetto è conosciuto. Il primo anno invece c'erano più resistenze. Alcuni erano curiosi, altri avevano paura, qualcuno si è anche rifiutato di giocare. A livello psicologico non è facilissimo entrare in un carcere e sentire la porta che si chiude alle spalle. E nemmeno giocare contro un detenuto».


Al torneo amatoriale con i giornalisti partecipano tre ragazzi dell'Atletico Diritti. Lo vince Cornelio, che indossa la casacca rossa della squadra. Ogni tanto un sorriso sornione si fa largo sopra la sua barba lunghissima. Ha uno stile di gioco elegante, elusivo: si sbarazza senza tanta fatica degli avversari con un palleggio scivoloso e pieno di tagli; compete con una forma di rispetto e premura, non aumenta quasi mai l'intensità dei colpi.

«Lui è uno di quelli che mi ha dato più soddisfazioni», dice Di Silvio«Ha iniziato da zero, ma ha avuto tempo per imparare, purtroppo, perché ha una pena non breve. Adesso ha un record più che discreto: a livello di D3, il primo campionato agonistico, è tra il 50 e il 60% di vittorie, ha cominciato a ingranare. Ho avuto un altro ragazzo molto appassionato, Luca, era davvero forte. Mi diceva: “quando esco voglio continuare a giocare”. Ma in carcere “quando esco” è un parolone. Ha fatto un reato durante la detenzione e l'hanno trasferito, chissà se gioca ancora».

Patrizio Gonnella sgrana come un rosario dolente i numeri della perpetua, oscena emergenza delle carceri italiane: «Quarantacinque suicidi da inizio anno [sono diventati 58 nel frattempo, di cui 9 solo a luglio, nda], tassi di sovrappopolamento che in alcuni istituti arrivano fino al 200%, mentre la media è del 125%». Il torneo si gioca nella casa di reclusione, uno dei quattro istituti del polo penitenziario di Rebibbia (nemmeno il peggiore: il più grande e sovraffollato è la casa circondariale).

Foto Atletico Diritti

In un contesto del genere, lo sport ha un valore non solo simbolico: «Tanto per cominciare fa bene alla salute», sorride il presidente di Antigone «Per chi è costretto all'ozio forzato, a una vita sedentaria dove si sta sempre chiusi a letto o seduti, l'attività sportiva fa bene al fisico e alla psiche. Libera la mente dalla ripetitività dei pensieri. Praticare sport agonistico, poi, aiuta a stare all'interno di un contesto di regole, a darsi una disciplina, a imparare a perdere e a vincere. È utile, terapeutico, dota la pena di un senso».

Il progetto Atletico Diritti ha appena compiuto dieci anni. La polisportiva continua a crescere: ha una squadra di calcio a 11 in prima categoria (con migranti e studenti universitari, non solo persone in stato di detenzione), una di calcio femminile che gioca a Rebibbia il torneo del CSI (e quest'anno, senza ironia, ha vinto la coppa disciplina), una di basket che fa la spola tra la promozione e la Serie D e persino una squadra di cricket di ragazzi pakistani e indiani, per lo più braccianti impiegati nei campi dell'Agro Pontino.

Il tennis tavolo è l'ultimo arrivato. «In un carcere chiuso»,dice Gonnella «Ci sono meno sguardi, diventa autoreferenziale, opaco. Ogni settimana, per il tennis tavolo e il calcio femminile, ci sono squadre che vengono in carcere dall'esterno. Quei cancelli che si aprono, con tanta gente che va fare un'esperienza sportiva e sociale così diversa dal comune, per noi hanno un grande significato».

Quando la porta blu elettrico si richiude, dopo il torneo, la luce all'esterno sembra provenire da un altro pianeta. Fabio Di Silvio si ferma a chiacchierare, il discorso scivola sullo sport di cui è atleta, insegnante e divulgatore (ha un canale su YouTube con un certo seguito e un nome notevole: YouPong). Si infila in una riflessione quasi filologica: «Nel nostro ambiente si insiste molto sulla differenza tra tennis tavolo e ping pong. Chi fa agonistica ritiene di far parte della comunità del tennis tavolo, sport olimpico, mentre chi gioca per divertimento viene catalogato in un'altra categoria, quella del ping pong, che non ha la stessa dignità». Sembra una banalità, ma a chi viene in mente di distinguere tra calcio e pallone? «Penso che questo atteggiamento elitario sia il motivo per cui il nostro movimento, in Italia, non è mai cresciuto davvero. È difficile trovare chi non abbia mai tenuto in mano una racchetta, no? Eppure i tesserati della FITET sono circa 12mila. Pochi. Bisogna fare uno sforzo per abbracciare e coinvolgere anche i giocatori 'da spiaggia', convincerli a venire in palestra e insegnargli la disciplina».

La Nazionale italiana non si è qualificata alle Olimpiadi di Parigi, dove però ci saranno due atlete, Debora Vivarelli e Giorgia Piccolin (entrambe eliminate al primo turno dopo un sorteggio difficile). «Abbiamo una buona tradizione, soprattutto a livello giovanile, ma lo scalino successivo è più difficile, perché questo sport non si può affiancare a un lavoro a tempo pieno: è più faticoso e complesso di quanto si pensi, richiede tempo e impegno. L'evoluzione dei materiali l'ha reso più veloce e fisico, ha abbassato l'età media dei professionisti. Con il tennis tavolo è difficile campare, mancano visibilità e soldi».

Il suo punto di vista non è quello di una persona comune. Dice che ora giocare in carcere è quasi naturale, ha imparato «a distinguere la persona dalla pena» e che se salta un allenamento, la settimana dopo mezza Rebibbia gli chiede che fine avesse fatto. «Le loro storie restano qui dentro, io però me le porto a casa. Ti cambia la prospettiva su ogni aspetto della vita in libertà: anche il più piccolo, il caffè al bar la mattina».

Foto Atletico Diritti

«Credo molto in questo progetto e in questa esperienza, credo meno nella funzione rieducativa della pena. Viste da dentro tante cose non mi piacciono. Vengono trattati come detenuti, non persone. Anche il gergo carcerario sembra fatto apposta per umiliare. Fuori, uno che lavora è un lavoratore, dentro lo chiamano “lavorante”. L'addetto alle pulizie qui si chiama “scopino”, quello che organizza la spesa è lo “spesino”. Ogni cosa è rimpicciolita, sminuita. L'essere umano si abitua a tutto, finisce per coincidere col nomignolo che gli danno».

Giocare serve davvero? «Non solo giocare, loro non vedono l'ora di parlare, di raccontarsi con qualcuno. Poi la competizione è bella, sana: due rivali sui due lati del tavolo e nient'altro in mezzo». È una grande verità: quando si alza la pallina sparisce il resto. Il gioco ha una dimensione miracolosa: cancella barriere, annulla differenze, finché si è in campo si dimentica tutto.

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