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La più grande rimonta nella storia dell’America's Cup
04 ott 2024
L'incredibile storia della sfida tra Oracle e New Zealand, che nel 2013 segnò un prima e un dopo.
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17 min
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IMAGO / teutopress
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L’amore di Larry Ellison per il Giappone arriva da lontano, dai suoi primi viaggi di lavoro, prima ancora di diventare miliardario grazie alla sua Oracle Corporation. In un’intervista del 1995, Ellison ha raccontato di essere rimasto sbalordito soltanto due volte in vita sua: «La prima è quando ho visto per la prima volta la Yosemite Valley. Semplicemente non pensavo che una cosa del genere potesse esistere. Lo stesso per Kyoto». «I giapponesi sono allo stesso tempo la cultura più aggressiva del pianeta e la più educata. Hanno un’incredibile arroganza, insieme a un’incredibile umiltà». Il fondatore di Oracle – la cui biografia è intitolata La differenza tra Dio ed Larry Ellison: Dio non pensa di essere Larry Ellison – ha deciso di vocare la propria esistenza a solo una di queste due cose.

Tra le varie figure della cultura nipponica a cui Ellison è particolarmente interessato c'è quella di Miyamoto Musashi, il più grande samurai nella storia del Giappone. Scrittore, poeta e soprattutto formidabile spadaccino, Musashi vinse nel corso della sua vita oltre sessanta duelli. Nel più famoso di questi – il duello più raccontato e celebrato di sempre – ospitato sull’isola di Ganryu-jima nel 1612, Musashi dovette affrontare un altro celebre spadaccino dell’epoca, Sasaki Kojiro. Nonostante l’appuntamento fosse concordato per il mattino presto, Musashi arrivò sull’isola con oltre tre ore di ritardo. Kojiro, infuriato per la mancanza di rispetto, si scagliò verso di lui, ma fu sorpreso e ucciso dal colpo portato da Musashi con una spada di legno ricavata da un remo, che secondo alcuni aveva trascinato nell’acqua per nasconderne la lunghezza e sorprendere così l’avversario. Era questo uno dei numerosi esempi dei modi sottili con cui Musashi dominava il confronto psicologico con gli avversari e applicava ogni possibile strategia che potesse condurlo alla vittoria. È su uno yacht proprio intitolato a Musashi che, quattro secoli, un anno e pochi mesi dopo, siede Larry Ellison, che insieme al Giappone ama ogni cosa che possa ingrandire l’immagine di sé.

In quel settembre del 2013, per una volta, Ellison sta scoprendo che nemmeno duecento milioni di dollari fanno la felicità. Perlomeno, non ti garantiscono di difendere il trofeo della più antica e importante corsa velistica al mondo: l’America’s Cup, contesa tra la squadra da lui finanziata, l’Oracle Team USA, e gli sfidanti di Team New Zealand, che si sono qualificati dominando la Luis Vuitton Cup contro gli italiani di Luna Rossa e gli svedesi di Artemis Racing. La disfatta è imminente: in una sfida al meglio delle diciassette regate, New Zealand è in vantaggio su Oracle per otto successi contro uno. Ancora una sconfitta, ed Ellison dovrà cedere la coppa ai kiwi – dopo che, per strappare agli svizzeri di Alinghi la coppa tre anni prima, di milioni ne aveva spesi quattrocento.

Anche per un essere umano che si sente in confronto diretto con Dio, è difficile, in quei giorni, immaginare che il nome di Musashi sarebbe potuto diventare profezia. Non certo nell'annunciare l’invincibilità sempre più pericolante di Ellison, ma mostrando che ogni mezzo, ogni sottigliezza può essere utilizzato al fine di raggiungere l’obiettivo. In questo caso, quello di compiere la più grande rimonta nella storia dell’America’s Cup, e forse di ogni sport.

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La 34esima edizione dell’America’s Cup non è però la storia della Cenerentola che riesce in un’impensabile rimonta. Cenerentola non è sostenuta da uno sponsor con una capitalizzazione di svariati miliardi di dollari, e con dei vantaggi competitivi che, in questa gara, sono la prerogativa del defender. Nella tradizione dell’America’s Cup, infatti, è la squadra che vince a scegliere le regole che determinano lo svolgimento della competizione nell’edizione successiva.

Larry Ellison e il suo team hanno deciso di fare le cose in grande. L’obiettivo è quello di portare la vela all’interesse del grande pubblico, per il bene dello sport e – incidentalmente – del proprio portafogli. Per questo, la 34esima America’s Cup è la cosa più lontana dalle precedenti edizioni che si sia mai vista. Il presupposto è semplice: attirare più pubblico. Di qui discende il primo corollario. Le masse, probabilmente, non sono educate a sufficienza per guardare ore di barche che sembrano muoversi a fatica e senza punti di riferimento nell’infinito mare. Si decide per una competizione avvincente e televisiva: mentre la prima regata dell’edizione 2010 era durata quasi due ore e mezza, ora ogni confronto dovrà concludersi entro 40 minuti, pena l’annullamento. Ma per catturare l’attenzione non basta che la gara sia breve, bisogna che sia eccitante e spettacolare, e quindi le barche velocissime. La scelta di correre su catamarano – e cioè un imbarcazione con due scafi – non è una novità assoluta nella storia della competizione, ma la nuova classe AC72 apre uno squarcio che non si rimarginerà più: anche grazie alla stabilità garantita dal doppio scafo, le barche sono capaci di raggiungere quasi 80 chilometri orari, prestazioni fino a quattro volte superiori rispetto ad appena un decennio prima.

Le gare devono essere veloci, e soprattutto devono esserci – senza lunghi e imprevedibili recuperi per eccessivo vento (o per la sua assenza), nemici della prevedibilità e dei palinsesti televisivi. Ellison conosce il palcoscenico ideale: San Francisco, la sua città d’adozione, in un circuito breve e vicino alla costa, che coniuga la (quasi) sicura presenza di vento a uno scenario di sicuro impatto anche sullo spettatore più distratto. Il percorso della gara si articola così: passato il cancello di partenza e una prima boa poco distante, le due imbarcazioni devono percorrere un primo tratto con il vento in poppa raggiungendo e superando l’isola di Alcatraz, risalire la baia controvento verso il Golden Gate e ripetere il percorso con il vento alle spalle. A quel punto, una strambata (cioè una virata con il vento alle spalle) di circa 90° conduce rapidamente al traguardo verso la città di San Francisco, e il suo anfiteatro naturale che garantisce un’ottima visibilità anche al pubblico in presenza, ammaliato da queste astronavi lunghe più di venti metri e alte più di quaranta. Pensiamo alle regate del 2024, con le guglie della Sagrada Familia di Barcellona che contendono la prospettiva dell’orizzonte alle altissime vele delle imbarcazioni: nasce tutto qui.

Più che a marinai, i membri dell’equipaggio delle imbarcazioni assomigliano a piloti, attrezzati di casco, tute tecniche, microfoni per comunicare gli uni con gli altri. Il desiderio è quello di creare la Formula Uno del mare, con ogni suo elemento: velocità, spettacolo e rischi. Gli AC72 sono giganti fragili. Il pericolo numero uno è il capsize: una barca che perda il proprio incerto equilibrio rischia di ribaltarsi in pochi secondi. È accaduto quattro mesi prima agli svedesi di Artemis, durante una regata di prova. Andrew Simpson, rimasto intrappolato sott’acqua, muore. È, fuori di metafora, questione di vita e di morte.

E di soldi, dimenticavo: una sola di queste barche costa tra gli 8 e i 10 milioni di euro, l’intera campagna ne pretende almeno 100. Un budget alla portata quasi di nessuno: soltanto quattro squadre in totale riescono (o vogliono) accumulare il capitale necessario. Non che la sfida tra ultra-ricchi sia una novità nella storia dell’America’s Cup: nel 1901, la barca finanziata da Thomas Lipton (quello del tè) sfidò e perse dalla barca finanziata da J. P. Morgan (quello dei rating) – guadagnandone comunque in notorietà e nuovi mercati.

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Anche più di un secolo dopo, il mantra è cercare nuove fonti di guadagno. Secondo il CEO di Oracle Racing, Russell Coutts, bisogna «venire in contro alle aspettative della generazione Facebook, non della generazione Flinstones». Ma anche lui sa che il gigantismo non è sostenibile: «Chiunque vinca», dice prima della gara «farà dei cambiamenti: barche più piccole, budget più piccoli». Avrà ragione: anche se le velocità non scenderanno, anzi, più nessuna imbarcazione di America’s Cup raggiungerà la gigantomania del 2013. Dean Barker, timoniere di New Zealand, pochi mesi prima raccontava così le prime esperienze su questi bolidi precipitati da chissà dove: «Abbiamo superato un paio di volte i 40 nodi (circa 74 chilometri orari), c’è una tensione diversa: ti stai spingendo nell’ignoto». Traducendo una meravigliosa espressione anglosassone, è una competizione da nocche bianche, piena di eccitazione e paura. Ma se l’uomo sa fare una cosa, si sa, è adattarsi a tutto. Barker riprende: «È strabiliante quanto ci si abitua a quelle velocità. Quando regato a 20 nodi, ora mi sembra noioso». Secondo Shannon Falcone, marinaio di Oracle, a quelle velocità gli spruzzi che colpiscono i membri dell’equipaggio sono «acqua solida».

I puristi sono scandalizzati dallo sconsiderato aumento di costi e rischi, nonché da quella che vedono come un attacco all’anima dello sport: l’America’s Cup, dicono, non è mai stata una sfida di velocità, ma di raffinatezza e acume tattico. C’erano momenti in cui le barche stavano quasi ferme per costringere l’avversario alla prossima mossa, per spingerlo alla virata meno conveniente. Adesso, le regate assomigliano più a esibizioni muscolari: la vela è nel futuro, che poi è il nostro presente.

La scommessa, in effetti, paga: per la prima volta in 20 anni, le televisioni americane (la NBC, in questo caso) decidono di comprare i diritti per la competizione, attratte sì dallo spettacolo, ma pure da quel brivido segreto che nasce dentro il pubblico quando il pericolo (degli altri) è dietro l’angolo.

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Un altro tipo di pericolo, di natura sportiva, preoccupa però Oracle. Entrato nell’America’s Cup da favorito, perde subito le prime tre regate. New Zealand sembra semplicemente più veloce, soprattutto nel lato di bolina (e cioè controvento).

È proprio nel lungo tratto che porta al Golden Gate, da cui il vento arriva, che Oracle fatica a mantenere la velocità di base di New Zealand, soprattutto quando si tratta di virare. Nella vela, per sfruttare appieno il vento, le barche si muovono secondo percorsi a zig-zag. La difficoltà sta nel trovare l’angolo più adatto: con virate strette si sfrutta meglio la forza del vento, ma si è costretti a percorrere più strada – e ogni virata costringe la barca a perdere parte della velocità acquistata. Dopo ogni virata, Oracle è quasi otto chilometri orari più lenta di New Zealand. Questo, a catena, porta a problemi sempre maggiori: una delle grandi innovazioni di queste barche riguardano i foil, ovvero le appendici che, se immerse, permettono agli scafi di alzarsi dall’acqua dando l’impressione del volo e riducendo sensibilmente l’attrito – e aumentando di conseguenza la velocità. Il problema è che per attivarli, questi foil, c’è bisogno di una velocità minima che controvento Oracle non riesce a raggiungere quasi mai. Insomma, le difficoltà sono tante e vanno risolte in fretta, se gli statunitensi vogliono sperare di recuperare il deficit.

In più, a causa di manomissioni proibite nelle regate di avvicinamento all’America’s Cup, a Oracle sono stati assegnati due punti di penalità, e per lo stesso motivo tre esperti membri dell’equipaggio sono stati squalificati per l’intera competizione. Per difendere la coppa non bastano nove vittorie, ma ce ne vorranno undici, da ottenere con un equipaggio che ha lavorato poco insieme. Nella quarta regata un vento forte mitiga il vantaggio competitivo di New Zealand e mette Oracle nelle condizioni migliori per afferrare la prima vittoria, annullando così il primo punto di penalità. La vittoria quindi non viene assegnata e si rimane sul 3-0.

Eppure i suoni ancestrali e bestiali che provengono dalle vele e dalle corde, spinte e tirate a velocità inedite per l’America’s Cup, sembrano lamenti polifemici, presagio di sventura. Il refolo di ottimismo viene spazzato via in fretta dalla regata successiva, la quinta: a posteriori, forse quella che più di tutte ha cambiato la storia di questa America’s Cup. Al secondo cancello Oracle è in leggero vantaggio su New Zealand, come accaduto già altre volte. John Kostecki – il tattico dell’equipaggio – consiglia a Jimmy Spithill – il timoniere – una manovra molto stretta che porti Oracle sul lato destro del campo di regata, proprio sotto l’isola di Alcatraz. Non c’è tempo di discutere, e Spithill esegue. È un disastro: con una manovra così stretta il catamarano si pianta in acqua, perdendo completamente l’inerzia, e si costringe a una virata ulteriore poco dopo, accumulando ulteriore ritardo. Alla boa successiva New Zealand è in vantaggio di oltre un minuto, e così sarà fino al traguardo. 4-0.

Per Oracle, è un colpo durissimo. Spithill, in accordo con il management della squadra, decide di chiedere il rinvio della seconda regata di giornata. È un azzardo: le squadre hanno a disposizione un solo rinvio in tutta la competizione, ed è generalmente considerato più saggio tenersi questa opportunità nell’evenienza di un guasto al catamarano. Ma ad Oracle sono certi che sia l’unica cosa da fare: il futuro guasto è solo potenziale. La sconfitta, se non si agisce in fretta, è certa.

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Nell’ufficio del management di Oracle, costruito all’interno dell’immenso quartier generale della squadra sulla baia di San Francisco, John Kostecki non oppone resistenza alla notizia della sua sostituzione come tattico. Al suo posto Ben Ainslie, uno dei più grandi velisti della storia – quattro ori olimpici consecutivi tra Sidney 2000 e Londra 2012, più un argento ad Atlanta ’96 – e una discreta esperienza anche nel campo dell’America’s Cup. Senza Kostecki, Oracle rimane con un solo statunitense nell’equipaggio. Un ennesimo cortocircuito in una competizione nata per mettere a confronto le diverse scuole velistiche del mondo (o quantomeno di Europa e Stati Uniti), ma che si sta rapidamente sta reincarnando in un libero mercato delle competenze.

Per la verità nessuno ad Oracle pensa di poter rimontare New Zealand facendo cadere qualche testa. Bisogna trovare soluzioni tecniche, bisogna trovarne tante e bisogna trovarle in fretta, per provare a spingere queste astronavi da acqua ancora un po’ più in là.

Tra le altre cose, Spithill non è convinto che il catamarano stia sfruttando appieno il proprio potenziale. Le traiettorie ottimali da seguire durante la regata sono suggerite da simulatori digitali, in funzione di vento, corrente e chissà quante altre decine di parametri. Il simulatore di Oracle suggerisce, nel tratto controvento, di tenere un angolo stretto rispetto alla direzione del vento, risparmiando così sui metri da percorrere. Spithill, tuttavia, si accorge che New Zealand utilizza angoli più ampi, e comincia a sospettare che sia questo a permettergli di essere più veloce e alzarsi sui foil. Il giorno dopo la sospensione non sono previste gare, e l’equipaggio di Oracle torna in acqua per provare le nuove traiettorie.

Quando si torna nel testa a testa, però, le cose non sembrano cambiare. New Zealand vince le prime due regate, portandosi sul 6-0 – e con ancora una regata di penalità sulle spalle di Oracle. Nonostante la situazione, in conferenza stampa Spithill continua a mostrarsi fiducioso, e anzi si muove involontariamente sulle orme del samurai Musashi, provando a mettere pressione sull’avversario: «Credo che la domanda sia: immaginate se la perdessero da qui». E aggiunge: «Ce l’hanno quasi nel sacco. Sarebbe una grande storia».

Nel frattempo, Oracle decide di abbandonare ogni precauzione: Spithill e Ainslie scelgono di fidarsi più del proprio istinto che degli output del simulatore, mentre alcune modifiche che permettano alla vela di gonfiarsi di più promettono di aumentare la velocità di base. All’ottava regata arriva la seconda vittoria di Oracle, sin lì la più convincente. Ora non ci sono più penalità, ma siamo ancora sul 6-0. Nel frattempo, però, qualche incertezza inizia a piovere su New Zealand, che rischia il capsize nel tentativo di sbarrare la strada ad Oracle, per la prima volta competitiva anche controvento. Le innovazioni stanno sortendo gli effetti sperati, e al ritorno alla casa base la teoria si allinea finalmente con i fatti: i programmatori si sono resi conto che il simulatore non considerava la possibilità di aprire troppo l’angolo rispetto al vento, senza tenere conto che i vantaggi in termini di velocità avrebbero superato quelli della strada aggiuntiva da percorrere. Spithill e Ainslie avevano ragione, e ora è sfida alla pari. Certo, resta questo problema delle sei regate da rimontare.

Ogni dettaglio può girare la regata. Nel suo The Comeback, l’ex inviato del Wall Street Journal, G. Bruce Knecht, ha accusato Oracle di praticare il pumping, una delle tecniche storicamente proibite in America’s Cup: spostando continuamente l’inclinazione della vela rispetto al vento, si può produrre un effetto simile a quello di un uccello mastodontico che sbatta le sue ali, guadagnando ulteriore velocità. Il pumping è espressamente citato come pratica vietata nelle Regole di regata della vela (le regole standard della Federazione Internazionale della Vela), ma non in quelle dell’America’s Cup di quell’anno – che pure dalle prime sono in gran parte tratte. Secondo alcuni questa differenza consente implicitamente il suo uso. Le accuse di pumping non sono mai state commentate ufficialmente, né i giudici di regata hanno mai notato niente di sbagliato, e in tanti ritengono che le accuse di Knecht siano infondate.

Nei cinque giorni successivi la gara resta aperta, tra numerosi rinvii per vento eccessivo. Oracle vince due gare e New Zealand fa altrettanto, arrivando anche 8-1 prima di mancare il primo match point. In particolare, la decima regata è considerata una delle più emozionanti nella storia ultracentenaria della coppa: pur in vantaggio dopo il primo tratto col vento in poppa, New Zealand è costretta alla difensiva quando il vento tira contro. I catamarani si alternano in testa ad ogni incrocio, tanto che al terzo cancello Oracle passa in vantaggio di un solo secondo. Alla fine, un piccolo errore da parte degli statunitensi consegna la regata a New Zealand, ma forse anche i puristi si stanno convincendo: non sarà la vela come l’abbiamo sempre conosciuta, ma questa nuova versione della nuova America’s Cup sa divertire.

Il 20 settembre, però, tutto sembra arrivare a conclusione. Dopo giorni di regate a singhiozzo per il troppo vento, improvvisamente la brezza è al minimo. Si salpa comunque, ma le nuove condizioni si adattano male alle modifiche di Oracle, che precipita di centinaia di metri alle spalle degli avversari. L’enorme sforzo e i rischi corsi negli ultimi giorni, insieme al lavoro dei tre anni precedenti, stanno svanendo. Mentre New Zealand si avvicina alla quarta boa, l’ultima prima del traguardo lì vicino, una voce gracchiante entra nelle orecchie di entrambi gli equipaggi: «Qui il comitato di regata. Il tempo è scaduto. La gara è annullata. La gara è annullata». Il poco vento ha rallentato notevolmente le barche, e nonostante l’enorme vantaggio New Zealand non è riuscita a raggiungere il traguardo nei 40 minuti imposti dal regolamento.

Nelle vecchie America’s Cup, quaranta minuti di regata erano un battito di ciglia. Ora è l’unica cosa che impedisce a New Zealand di assicurarsi la coppa. Le telecamere a bordo, cessati i lamenti infernali dei catamarani, raccolgono un altro grido, stavolta decisamente più umano, provenire dalla barca neozelandese: «Fuck that!».

Nella seconda regata di giornata le condizioni tornano favorevoli ad Oracle, che vince ancora. Con il passare dei giorni e delle regate, il lavoro notturno dà solidità alle prestazioni della barca statunitense, che scava una distanza sempre più profonda tra sé e i kiwi, e vince una regata dietro l’altra. Quattro giorni dopo, da 3-8, Oracle arriva al pareggio. In una competizione che vede spesso una barca nettamente superiore all’avversaria vincere lasciando le briciole, due squadre si giocano il trofeo all’ultima regata per la prima volta in trent’anni, quando l’Australia pose fine a 132 anni di imbattibilità statunitense.

L’inerzia è dalla parte di Spithill, finché, a quarantacinque minuti dal via dell’ultima regata, a bordo di Oracle si accorgono di un rigonfiamento nella vela. Il collegamento con il braccio di controllo è rotto, ed è questione di minuti perché, con quelle forze in gioco, sia impossibile manovrare correttamente la vela. Oracle non può chiedere di rimandare la regata, ma non c’è nulla da rimpiangere: senza quel rinvio dopo la quinta regata mai avrebbero potuto sperare di arrivare a giocarsi quella decisiva. I motoscafi di supporto si avvicinano al catamarano con tanta colla e tantissime preghiere.

Funzioneranno. A cinque minuti dal via Oracle è in grado di partire, il braccio di controllo regge, e meno di mezz’ora dopo la più grande rimonta nella storia dell’America’s Cup è compiuta. I soldi di Larry Ellison non sono andati spesi invano. Alla fine della regata il miliardario sale al timone, per godersi il successo.

Nel 2010 Ellison faceva effettivamente parte dell’equipaggio che sconfisse Alinghi, ma per governare queste nuove imbarcazioni c’è bisogno di atleti. Non c’è spazio per il superfluo, neanche per uno degli uomini più ricchi del mondo. Non si tornerà più indietro: la strada dell’America’s Cup è segnata, e Larry Ellison ha messo il proprio marchio, forse il più prestigioso e duraturo della sua vita. D’altronde, lo spiega lui stesso: «Oracle potrebbe scomparire un giorno. L’America’s Cup no».

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