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Il più umano degli dei in terra
14 dic 2021
La storia di Hakuho, il più grande lottatore di sumo di sempre.
(articolo)
43 min
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Alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, su un palcoscenico minore, quello dei pesi medi nella lotta libera, si consuma un evento che passa inosservato alle telecamere ma che riveste un'importanza unica per un piccolo angolo di mondo, una nazione che è una tasca chiusa al centro del continente eurasiatico, fatta di steppe dove sembra di sentire il rombo dei cavalli al galoppo, deserti, terre ghiacciate e uno sfondo di montagne invalicabili. La Mongolia conquista la sua prima medaglia olimpica; è un argento, vinto dal ventisettenne Jigjidiin Mönkhbat. In patria, Mönkhbat è già un eroe. Ha primeggiato per cinque volte consecutive nel Naadam, pittoresco, antichissimo e spietato festival estivo che culmina nello stadio nazionale di Ulan Bator dove gli uomini, vestiti con singolari costumi, si cimentano nel tiro con l'arco, nell'equitazione e, appunto, in un particolare tipo di lotta che, per i mongoli, è un patrimonio nazionale da custodire gelosamente, lontano dalle mani straniere.

Con le sue vittorie nel Naadam, Mönkhbat si è meritato un titolo che potremmo tradurre con “Titano”. Viene da Erdenesant, nel cuore gelido della steppa, un posto dove ci sono più capre che persone e dove si mangiano marmotte tarbagan arrosto – catturate in autunno, quando ingrassano per andare in letargo. Mönkhbat si sente invincibile. Per traslare le sue abilità dal combattimento in stile mongolo alla lotta libera olimpica, però, e competere con avversarsi più tecnici ed esperti, deve fare ricorso alla sua aggressività innata, al fisico portentoso, alla volontà di giocare sporco, se necessario. I mongoli chiamano tutto questo con una sola parola: spirito. E l'uomo, così ritengono, è una creatura di spirito. Dopo la medaglia olimpica, se possibile, Mönkhbat diventa ancora più celebre nel suo paese. Il governo gli garantisce un vitalizio, lo ricopre di onori e medaglie. La Mongolia dovrà aspettare quarant'anni per un'altra impresa olimpica di simile impatto: stavolta sarà la prima medaglia d'oro, quella di Naidangiin Tüvshinbayar nel judo, a Pechino 2008.

Il padre di Hakuhō, lo statuario Jigjidiin Mönkhbat, impegnato nel Naadam.

In quello stesso giro d'anni, però, la Mongolia aveva trovato un'altra disciplina – non olimpica s'intende – in cui dominare, e in terra straniera, per giunta. Dal 2000 a oggi, tutti gli yokozuna (lottatori del massimo grado) del sumo giapponese tranne uno sono stati mongoli. Tra questi, un uomo conosciuto con lo shikona (nome d'arte) di Hakuhō ma nato nel 1985 come Mönkhbatyn Davaajargal – figlio di Mönkhbat, questo significa il patronimico che accompagna il nome proprio – e che a quindici anni, portandosi dietro i suoi miseri 62 chili di peso, era volato in Giappone per seguire l'esempio del padre ampliando gli orizzonti sportivi del paese, e mostrare al mondo che i lottatori mongoli non hanno rivali, non importa quale sia la disciplina.

A fine settembre 2021, Hakuhō ha annunciato il ritiro. Chiude una carriera ventennale (di cui quattordici anni da yokozuna), con 1187 vittorie in incontri singoli, 45 tornei conquistati, e una striscia di 63 successi consecutivi – tutti record assoluti tranne l'ultimo che lo relega a un doloroso secondo posto, ma ne parleremo più avanti. Se il concetto di grandezza è particolarmente sfumato e relativo, in una disciplina così profondamente legata alla cultura prima che all'agonismo, si tratta di numeri che eleggono comunque Hakuhō a lottatore più vincente di ogni epoca – e nel sumo, si parte dal 1600. John Gunning, forse il maggior esperto di sumo occidentale, ha definito il suo lascito “ineguagliabile”. Stephen Stromberg del Washington Post lo ha battezzato “la più grande figura sportiva, forse di sempre”. Il GOAT, per usare un acronimo particolarmente di moda – e abbiamo avuto la fortuna di vederlo all'opera nella nostra era.

Oni e Kami

Al di là dei numeri e dei titoli, c'è una parte della storia che racconta qualcosa in più di Hakuhō, del sumo, della Mongolia, di padri e figli, dello spirito che rende tale un uomo. Un finale meno lieto di quello che Hakuhō, Mönkhbat e tutti noi avremmo meritato.

Siamo su un altro palcoscenico olimpico, la spettrale cerimonia di apertura di Tokyo 2020, stridente fin dal nome che finge di ignorare l'anno pandemico. Mentre gli atleti sfilavano nello stadio vuoto e la colonna sonora, ispirata dai videogiochi nipponici, esaltava un pubblico assente, gli appassionati di sumo seguivano l'evento con occhi attenti e una continua, ansiosa domanda: “quando arriva Hakuhō?” La cerimonia d'apertura è una celebrazione del paese ospitante ed era naturale aspettarsi una finestra sullo sport tradizionale del paese; magari un dohyō-iri, la caratteristica danza di origine shintoista con cui gli yokozuna benedicono tornei ed eventi pubblici, che del resto era stata già proposta a Tokyo 1968 e Nagano 1998.

Per Hakuhō, l'occasione avrebbe rivestito un'importanza speciale. Da piccolo girava per casa con la medaglia olimpica del padre al collo – una reliquia, un cimelio nazionale. Coccolatissimo figlio più giovane di una famiglia numerosa, aveva promesso al padre che si sarebbe esibito anche lui alle Olimpiadi, là dove tutto era cominciato. Dopo la morte di Mönkhbat, quella promessa era diventata un tributo alla memoria. E negli ultimi anni, con ogni record ormai frantumato e le articolazioni che chiedevano pietà, quella promessa era diventata l'unico obiettivo che spingeva Hakuhō a mettere ancora i piedi sul dohyō. “Mi ritirerei anche domani, se ascoltassi il mio corpo” aveva detto in un'intervista del 2017. “Aspetto soltanto le Olimpiadi di Tokyo. È l'unico sogno che mi resta: ma avrei preferito che si fossero tenute nel 2016”. Quel sogno era più importante dei numeri e dei record, perché era un sogno in egual misura mongolo e giapponese, sportivo e umano.

Hakuhō esegue il suo dohyō-iri

Nella danza del dohyō-iri, gli yokozuna indossano la tsuna o shimenawa, una variazione della corda bianca attorcigliata che è facile vedere in qualsiasi tempio shintoista. Ma nessun uomo la può indossare, eccetto gli yokozuna che assurgono a un vero e proprio stato semidivino. Con i forti schianti dei piedi a terra (chiamati shiko), il battere delle mani, le pose austere di braccia e busto, il lottatore allontana gli spiriti maligni oni e benedice la terra che calpesta. Nel 2011, dopo il tremendo terremoto del Tōhoku con conseguente tsunami, mentre i professionisti stranieri degli altri sport tornavano in patria, i lottatori di sumo restavano in Giappone e si spostavano nelle aree più colpite per assistere la popolazione, preparando e servendo agli sfollati il loro piatto caratteristico, il sostanzioso chankonabe. In quell'occasione, Hakuhō eseguì il dohyō-iri di fronte al mare, a pochi chilometri da Fukushima, fra le macerie dei palazzi e mentre il suolo lanciava ancora scosse di assestamento.

Dal giorno successivo, le scosse cessarono. Ricordando quel momento, con i brividi a fior di pelle, Hakuhō racconta di aver compreso la connessione invisibile ma inestricabile fra il sumo e il Giappone, e di aver ricevuto la prova che al mondo esistono cose invisibili – come gli dei shintoisti, i kami, dimenticati nel ritmo frenetico del mondo contemporaneo ma ancora nascosti nei fiumi, nei boschi, sulle montagne, o in ogni piccola finestra urbana in cui sorge un tempio. “Sono lo yokozuna di questo sport e di questo paese” disse quel giorno, e ricevette una lettera di ringraziamento dall'Imperatore in persona, che prima d'allora non aveva mai scritto a un privato cittadino. Eseguendo il dohyō-iri nella cerimonia di apertura di Tokyo 2020, Hakuhō avrebbe voluto benedire l'intero ecumene olimpico, unire da ambasciatore la terra e gli spiriti, i mari del Giappone e le steppe mongole, l'eredità dei padri con il futuro dei figli. Ma gli appassionati hanno atteso invano. Hakuhō non è comparso, nemmeno nella cerimonia di chiusura. La JSA, la federazione del sumo, era in rotta con il comitato olimpico; in aggiunta, probabilmente, i dirigenti non hanno voluto accontentare lo yokozuna come ultimo capriccio di un rapporto conflittuale, tormentato e controverso – a testimonianza del fatto, Hakuhō ha fatto di testa sua e alle Olimpiadi ha partecipato comunque, sebbene con un dimesso ruolo di spettatore ospite della delegazione di judo mongola, scatenando le ire della gelosa JSA. Perché il GOAT, l'atleta più forte, non sempre coincide con il più amato. Per il resto del mondo Hakuhō è sinonimo di sumo, ma il Giappone non l'ha mai pienamente accettato – troppo poco dignitoso, troppo poco giapponese, in fondo – e non gli ha mai del tutto restituito l'amore che Hakuhō ha versato. Come ha titolato la NHK, principale rete televisiva giapponese, nel documentario appena dedicatogli, la cavalcata da yokozuna di Hakuhō è riassumibile con “quattordici anni di solitudine”. Facciamo un passo indietro, e proviamo a capire perché.

Creatura di spirito

Se nemmeno tuo padre e tua madre credono nel tuo proposito, in genere, significa che le probabilità di successo sono davvero basse. Quando il futuro Hakuhō, che ancora per tutti si chiama Davaajargal, si trasferisce in Giappone per concludere le scuole superiori e addestrarsi nel sumo, ha 15 anni, poco più di 170 centimetri di altezza e 62 chili di peso. Oggi che è alto più di un metro e novanta e pesa quasi il triplo, non prova un briciolo di vergogna a raccontare le durissime difficoltà iniziali e invita sempre i giornalisti a mostrare le foto di quel ragazzo mingherlino; sono la dimostrazione che il talento non serve a niente senza l'impegno, sono la prova che lo spirito conta più della tecnica e del corpo.

Un giovanissimo e magrissimo Hakuhō.

Il padre, che di lotta se ne intendeva, lo trovava troppo gracile e poco cattivo, lo spronava a proseguire nel basket, suo sport preferito. La madre era una donna di scienza e cultura, lavorava come medico e veniva da una famiglia dai trascorsi nobili, fra ambasciatori e guerrieri che, si diceva, avevano ucciso dei lupi a mani nude – quella strana disciplina giapponese, il sumo, non doveva sembrarle particolarmente accattivante. Ma Davaajargal aveva già preso la sua decisione; di gruppo, di branco, come fanno spesso i ragazzi. Andava ogni estate a vedere il Naadam insieme agli amici, tra loro c'erano anche quelli che sarebbero diventati Asashōryū e Harumafuji, altri due yokozuna mongoli. Si cimentavano nelle gare, talvolta, poi mangiavano le mele con i soldi vinti dal fratello maggiore del futuro Asashōryū; sognavano il Giappone, perché il sumo era tecnicamente simile alla lotta mongola, ma si svolgeva in uno scenario più sacro e spettacolare, che li avrebbe portati nel cuore antico di un paese globalizzato. C'era una timida scuola di sumo mongolo che stava attecchendo in Giappone, ma le premesse non erano buone. I sei ragazzi che si erano trasferiti oltremare prima di Hakuhō erano scappati due volte in patria tramite l'ambasciata mongola; una volta gli allenatori li avevano riacciuffati in aeroporto, la seconda erano volati addirittura in Mongolia per riprenderseli – ma solo i più talentuosi. Davaajargal rischia di seguire il loro esempio. L'impatto è brutale. Atterra a Ōsaka, che ha un aeroporto quasi sospeso sul mare; lui non aveva mai visto nessuna distesa che non fosse d'erba, non si spiega quell'odore strano, salato, e ha paura di affondare. Il periodo di prova passa rapidamente, due mesi di anonimato. È talmente piccolo e magro che non può neanche allenarsi con gli altri; lo chiamano “fagiolino”, e gli suggeriscono di pensare a una carriera di parrucchiere. Alla scadenza del termine, nessuna palestra (heya) ha mostrato interesse per lui e Davaajargal ha già comprato il biglietto di ritorno per la Mongolia, insieme al whisky per il padre e al cioccolato per la madre. Il sogno sportivo resta, ma sceglierà un'altra disciplina, uno sport olimpico magari, per seguire più da vicino le orme del padre. Poi, la sera prima di partire, durante la cena d'addio organizzata insieme ai compagni, una telefonata che pare scritta in un copione gli cambia la vita. L'allenatore (oyakata) Miyagino lo vuole con sé nella sua omonima Miyagino-beya: crede che lo spirito combattivo del figlio d'arte verrà fuori, un giorno, ma prima lo mette all'ingrasso come una vacca.

Hakuhō all'apice della sua forma fisica.

Per i primi tempi, Davaajargal è come un ospite in palestra. Non può allenarsi, deve solo mangiare e dormire. Mangiare significa buttare giù ciotole e ciotole di chankonabe, ricco stufato di carne e verdure con riso, anche se gli viene da vomitare. Dormire significa restare sul futon anche diciotto ore di fila, per far sedimentare il cibo. Prende diciotto chili in un mese. Quando raggiunge altezza e peso minimi per allenarsi, la vacanza finisce. Gli addestramenti sono brutali. Schiantato sull'argilla del dohyō da uomini adulti ed enormi, deve continuare a lottare finché non riesce più a rialzarsi; a quel punto gli gettano addosso una secchiata d'acqua, per svegliarlo, e se non basta gli infilano in bocca una manciata di sale. Lo portano oltre il limite, in una “zona” dove hai due alternative: o crolli, o lasci che il tuo spirito prenda il controllo del corpo e lo porti dove non avrebbe mai osato spingersi. Sono giornate lunghissime, di dolore fisico e lacrime, in un paese straniero dall'etichetta rigida e di cui sta faticosamente imparando la lingua, ma sono anche giornate colme di una gioia purissima, quella della crescita. Dopo ogni pasto, dopo ogni risveglio, dopo ogni allenamento, Davaajargal si sente più grande e più forte. Lo è davvero. A soli 16 anni debutta nelle competizioni, e scalerà rapidamente i ranghi fino a raggiungere nel gennaio 2004 la divisione chiamata jūryō, la seconda dall'alto e la prima che elargisce uno stipendio agli atleti.

Con i genitori, a inizio carriera.

È tempo di procurarsi un nome d'arte, lo shikona che contraddistingue ogni lottatore. La sua palestra propone di fondere i nomi di due campioni del passato: Kashiwado e il grandissimo yokozuna Taihō, attivo negli anni Sessanta. La JSA però non è d'accordo, lo ritiene un nome troppo altisonante per un ragazzino mongolo che verosimilmente farà poca strada, e allora, lavorando di taglia e cuci con i kanji, si toglie l'ideogramma ki, “albero”, ma si mantiene ha, “bianco”, per la carnagione pallida. Il risultato è Hakuhō (白鵬), che richiama anche il peng, gigantesco uccello della mitologia cinese. Con il senno di poi, la JSA avrebbe volentieri fatto marcia indietro concedendo al futuro yokozuna un nome più radicato nella storia. Eppure, l'unicità di un campione sta anche in questo; costruirsi una storia talmente forte da diventare un'icona che non ha più bisogno di spiegazioni e confronti con il passato, perché ogni debito è stato ripagato e ogni paragone è stato superato.

Quattordici anni di solitudine

Vedere combattere Hakuhō, persino negli ultimi anni di attività, resta un'esperienza unica, capace di trasmettere un senso di gravità, di attrazione e di inesorabilità che ha pochi eguali nelle discipline di combattimento, e probabilmente negli sport toto genere. Brian Phillips, in un memorabile e struggente articolo su Grantland nato dal suo viaggio in Giappone sulle tracce di Yukio Mishima, descriveva i lottatori di sumo, visti dai gradini più alti delle tribune, come dei corpi attraversati da “crepacci”, le pieghe di grasso sopra i voluminosi muscoli che creavano scanalature simili ad antichi canyon scavati da fiumi. Hakuhō appare se possibile come un massiccio montuoso ancora più antico; affusolato da venti e piogge che l'hanno ridotto al suo nucleo di pietra, un masso liscio e perfetto, privo di fenditure e appigli. Ventre e petto morbidi, per assorbire l'impatto avversario; fianchi potenti e mobili, sensibili, mossi da gambe stabili come tronchi, per spingere e non cedere; spalle cesellate e braccia come tenaglie, per ribaltare ogni leva a suo vantaggio. Vederlo lottare dal vivo, poi, avvolti dai secoli di storia che occupano gli spalti della Kokugikan di Tokyo insieme agli spettatori, deve dare l'impressione di assistere a una cerimonia incapsulata fuori dal tempo, a un duello simbolico che si svolge in un Giappone ideale e in un'epoca aurea – se il sumo resta sempre uguale a se stesso, ostinato nelle sue tradizioni, non è per un facile e nostalgico passatismo, ma per realizzare un'astrazione virtuosa che, almeno nelle due settimane di un torneo, sia più bella e nobile del mondo in cui viviamo. Gli yokozuna, lo accennavamo, sono considerati alla stregua di semidivinità nel pantheon shintoista, e Hakuhō sfoggia una magnitudine divina quando sale sul dohyō. Negli interminabili rituali che precedono l'incontro vero e proprio, mentre gli atleti gettano il sale, si scaldano con gli shiko e prendono posizione, Hakuhō tiene la testa alta e il petto in fuori, non perde mai di vista il suo rivale; vuole essere l'ultimo ad abbassare gli occhi, come dimostrazione di superiorità, ma vuole anche esplorare ogni dettaglio nell'espressione dell'avversario. Dal ritmo con cui respira, racconta Hakuhō, può già intuire che strategia adotterà il rivale; se gli tremano le pupille, è sicuro che non partirà all'attacco. Perciò, il rituale che precede l'incontro è esso stesso parte dell'incontro. E quando Hakuhō torna al suo angolo per l'ultima volta prima del via ufficiale, con l'iconica postura acquattata, felpata, minacciosa, per asciugarsi il sudore e riconquistare poi il centro del dohyō, sembra a tutti gli effetti una tigre pronta a sbranare un'inerme preda: se vuoi battermi puoi farlo, dice all'avversario senza pronunciare parole, perché nessun dio è veramente immortale, ma dovrai versare tutto il tuo spirito sull'argilla, perché io non mi risparmierò.

E tuttavia, Hakuhō è al tempo stesso il più umano fra gli dei scesi in terra. L'etichetta vuole che i lottatori di sumo siano inespressivi, serafici, quasi robotici nell'attenersi al cerimoniale: devono trasformarsi in statue non appena finisce l'incontro, per offrirsi immobili alla venerazione del pubblico. Per Hakuhō, invece, è il contrario. Appena l'arbitro, chiamato gyōji, grida il suo caratteristico “via”, hakkeyoi, Hakuhō si getta nell'incontro con l'animosità di un pugile o di un artista marziale misto. Festeggia le vittorie con sorrisi sornioni, o in casi speciali anche con il pugno alzato o grida barbare, riserva occhiatacce e qualche spintone omaggio agli avversari, incita il pubblico, interagisce con esso; contesta le decisioni degli arbitri, talvolta, e non risparmia le parole in conferenza stampa quando c'è da criticare la federazione. Proprio come suo padre, è disposto a giocare le sue carte con cattiveria, perché la vittoria è più importante dell'etichetta; il che non significa affatto giocare sporco o cercare scorciatoie, tutt'altro, bensì amare così tanto una disciplina da dedicarvisi con tutto lo spirito. Sono atteggiamenti normalissimi nella maggioranza degli sport, ma che diventano una rarità nell'ingessato mondo del sumo. È anche per questo che gli appassionati internazionali sono particolarmente affezionati ad Hakuhō, ne hanno accettato e ammirato subito la grandezza riconoscendo nella sua condotta “sregolata” sul dohyō quella fame spietata, ma anche genuina e onesta, che soltanto i grandi campioni hanno – come Michael Jordan, altro GOAT a cui, non a caso, Hakuhō ha dedicato un'intera parete della propria casa con foto e poster. I giapponesi, invece, sembrano non averlo mai amato, e forse capito, fino in fondo. Durante la sua ascesa è raramente stato il più tifato dalla folla, e nel suo periodo d'oro suscitava nel pubblico la classica antipatia di chi è troppo forte, del villain che domina la concorrenza.

Ci sono anche altri motivi però, meno espliciti e più profondi. Il primo ce lo raccontano direttamente le parole di Hakuhō. Tra i momenti che gli sono rimasti impressi con più affetto, non manca mai di citare quella volta in cui stava per combattere contro Kotoōshū, di nazionalità bulgara, e dagli spalti qualcuno gli gridò: “non farti battere da quello straniero!”. Commosso, perché Hakuhō amava il Giappone quanto la sua madre patria e aspirava a sentirsi accettato come parte di esso, ripensò alla lotta tradizionale mongola, che non ammetteva lottatori esteri, e al simile ostracismo degli appassionati nipponici che negli anni Novanta avevano subito il dominio di una generazione di lottatori hawaiani, come Akebono, e adesso assistevano al cambio del guardia con la nuova, agguerrita scuola mongola: qualcosa, forse, in quell'apertura internazionale, stava cambiando. In realtà, l'episodio restò perlopiù un caso isolato, perché in assenza di lottatori giapponesi di spicco (e il regno di Hakuhō coincise con il periodo più povero di successi per i giapponesi) il pubblico di casa si disaffezionò alla disciplina. I lottatori mongoli erano un problema, dentro e fuori dal dohyō. Nella lotta, il loro killer instinct era tale da scavalcare la consueta “dignità” (hinkaku) richiesta a uno yokozuna. Asashōryū possedeva un'aggressività furiosa, un'apparenza arrogante e uno stile brutale. Hakuhō amava aprire gli incontri con una combinazione schiaffo-gomito, perfettamente legale eppure mal vista, e all'occorrenza adoperava tattiche “astute” ma considerate indegne per uno yokozuna. In un recente scontro con Shōdai, lo ha provocato partendo da una posizione arretratissima, ai limiti del terreno di gara, per poi attaccarlo in carica con una raffica di schiaffi. In un curioso incontro contro Tochiozan del 2015 adoperò una rarissima tecnica chiamata nekodamashi, ossia “ingannare il gatto”, e difatti Hakuhō racconta divertito di aver escogitato la mossa proprio dopo essersi imbattuto in un gatto per strada: battendo le mani a mezz'aria davanti al viso dell'avversario lo spinge a chiudere gli occhi e, in quell'attimo di sorpresa, gli fa perdere l'equilibrio.

Come ingannare un gatto – e farla franca.

E soprattutto, la famigerata henka – un movimento simile a quello del torero che si scansa di lato per evitare il toro in corsa, che se eseguita correttamente fa capitombolare a terra l'avversario senza quasi bisogno di toccarlo. È in genere adoperata come ultima carta da lottatori che si sentono inferiori o hanno un problema fisico, ed è considerata massimamente indecorosa. Hakuhō, come se godesse ad attirarsi più critiche, la sfoderò contro Kisenosato, suo acerrimo rivale e lottatore giapponese più amato dell'epoca, in un tesissimo duello nel 2012. Ma la sua motivazione era squisitamente tattica, mentale. Dopo due false partenze, in cui Kisenosato aveva caricato Hakuhō prima del via ricevendo in cambio due spintoni ben poco educati, i nervi erano a fior di pelle: Hakuhō mantenne la calma e capì che il suo avversario, invece, stava andando fuori giri. Contro un toro imbizzarrito, quindi, quale strategia migliore che scansarsi e lasciarlo cadere da solo?

Hakuhō batte Kisenosato con rabbia e astuzia.

Ma i problemi con i lottatori mongoli, dicevamo, nascevano soprattutto fuori dal ring. Sia Harumafuji sia Asashōryū, gli altri due yokozuna mongoli contemporanei di Hakuhō, furono costretti a un ritiro prematuro, avvolto da scandali e malumori, tra falsi infortuni, risse in luoghi pubblici e legami più o meno limpidi con la criminalità organizzata. I primi anni Duemila furono un autentico periodo nero per il sumo anche a causa dell'esplosione della bolla delle scommesse, con decine di lottatori squalificati e un mondo sommerso che veniva a galla; mentre gli spalti si svuotavano e le dirette televisive perdevano share, capitava spesso che le prime file intorno al dohyō venissero occupate da vistosi membri della yakuza. L'amore di Hakuhō per il sumo sopravvisse a tutto questo. Difese come poteva i suoi connazionali, ma non si lasciò mai trascinare in condotte pericolose fuori dal dohyō. Perseguì nel suo modo strettamente personale di intendere la disciplina, ma senza mai eccedere e mantenendosi fedele a tutti gli impegni istituzionali di uno yokozuna. Visse a tutti gli effetti quattordici anni di solitudine, in alcuni dei quali sembrava essere l'unico ad avere ancora a cuore il sumo. Lo traghettò fuori dalle sabbie mobili, offrendo alla federazione un fulcro intorno a cui ripulire la propria immagine pubblica; salvò il sumo sull'orlo del baratro, quando nel torneo più triste e tormentato di sempre, senza premi né coppa dell'imperatore in palio come reazione allo scandalo sulle scommesse del 2010, Hakuhō vinse e pianse, e quelle lacrime versate sulla sacra argilla del dohyō scacciarono i demoni e riportarono il sumo nel cuore della gente.

Dieci anni dopo, molti, forse troppi, lo hanno dimenticato; pochi, forse troppo pochi, lo hanno ringraziato.

Lupo bianco, cielo blu

L'ultimo Hakuhō, dicevamo, eccelleva in malizia ed esperienza, ma a differenza di altri lottatori che puntavano tutto sulla forza fisica della gioventù, per poi trovarsi ad annaspare nel prosieguo della carriera, ha sempre avuto uno stile tecnico e prudente. Dietro quella gravità divina con cui sembra piantare la propria bandiera ogni volta che sale sul dohyō, c'è una sicurezza che nasce non dalla spacconeria o dall'incoscienza, bensì da una fiducia scientifica nei propri mezzi e nell'ardore del proprio spirito. Hakuhō si considera un lottatore composto “all'80% dallo spirito e al 20% dalla tecnica”, ma quella percentuale di tecnica è raffinata alla perfezione. Hakuhō possiede la mente e la memoria di uno scacchista; nelle interviste, è capace di richiamare con sorprendente affidabilità incontri risalenti a dieci anni prima (ne combatte quasi cento l'anno) e descrivere con precisione sequenze di mosse racchiuse in poche frazioni di secondo. Ed è altrettanto frequente sentirlo citare episodi antichi, o snocciolare elementi di storia del sumo e del Giappone: fin dai primi anni di carriera, la sua passione per la disciplina si era concretizzata in una conoscenza enciclopedica.

Ci sono stati anni in cui Hakuhō era chiaramente l'uomo fisicamente più potente della massima divisione, chiamata makuuchi, e sembrava vincere gli incontri per inerzia, ma la straordinaria longevità della sua carriera è stata dovuta anche a una preparazione paziente e lungimirante, che si fondava sulle debolezze e cercava di trasformarle in punti di forza. I primi anni di allenamento, racconta, consistettero nel consolidare i fondamentali come se fossero la base di un albero; dal tronco poi, se fosse stato bravo, avrebbero potuto spuntare innumerevoli rami. Chiedendo consiglio al padre, ad esempio, il giovane Hakuhō si lamentava delle gambe poco esplosive, dei polpacci troppo sottili per la sua stazza: sarebbero rimasti sempre così, ma il padre gli spiegò che la forza pura è raramente la qualità più importante. “Chi ha le gambe più sottili tra un cavallo e un bue?” chiese al figlio. “E chi ha le gambe più veloci e scattanti, tra questi due animali?” Il gioco di piedi è sempre stata una caratteristica peculiare nello stile di Hakuhō, unita alla capacità di dominare gli spazi del dohyō evadendo da situazioni pericolose.

Quando vedeva i suoi coetanei puntare sul cosiddetto stile oshi-sumo, mirato a spingere l'avversario fuori dal dohyō anziché proiettarlo a terra, Hakuhō si accorgeva di non possedere la loro stessa esplosività, la stessa durezza. “Il mio corpo era morbido come quello di una donna” scherza oggi, ma lo intende come tutt'altro che un difetto, perché aveva capito ben presto che il sumo è una questione di leve ed equilibri, e a volte è opportuno “cedere il petto”, assorbire l'impatto dell'avversario, lasciare che si sfoghi e si sfianchi. Da lì il suo stile paziente, un classico yotsu-sumo che mira ad agguantare il mawashi dell'avversario (la caratteristica “cintura”) per tenerlo sotto controllo e rovesciarlo a terra. A conferma delle sue doti tecniche complete, Hakuhō sostiene di non avere una tecnica vincente (kimarite) preferita, e i numeri sostengono la sua tesi: la soluzione più comune (yorikiri, che è del resto la più diffusa nel sumo di oggi e consiste nello “accompagnare” l'avversario di peso fuori dai limiti di gara) si attesta solo al 28%, mentre fra le proiezioni spicca il 15% della tecnica chiamata uwatenage, una presa con la mano esterna.

Forte di queste basi, Hakuhō sbarca nella massima divisione, makuuchi, nel maggio 2004 a soli 19 anni e ottiene subito buoni risultati. Non è l'unico giovane in rampa di lancio e ci sono altrettanti lottatori esperti con cui confrontarsi, ma se Hakuhō crede davvero di poter andare fino in fondo è perché ha un esempio da seguire come un faro. Asashōryū, al secolo Dolgorsürengiin Dagvadorj, è di cinque anni più grande di Hakuhō ed è l'apripista per la grande scuola mongola di sumo. Il suo stile sul dohyō rispecchia la fierezza del nome, che significa “drago blu del mattino”, ma vi abbina una prepotenza fisica senza pari (era capace di sollevare 200 chilogrammi alla panca piana) è un'aggressività pressoché inedita. Per gli appassionati è esaltante perché il suo approccio così intenso ricorda quello di Chiyonofuji, lo yokozuna giapponese più amato degli ultimi decenni, ma, come accennavamo, la condotta indisciplinata all'interno e all'esterno dei combattimenti gli pregiudicarono l'affetto del pubblico locale, trasformandolo in un sanguinario conquistatore della steppa come quel Kublai Khan che, nel 1200, tentò di assoggettare il Giappone ma fu respinto – con l'aiuto dei kami, cioè gli spiriti shintoisti, dicono le leggende – sull'isola di Tsushima.

Asashōryū e Hakuhō in patria, con gli abiti tradizionali mongoli.

All'epoca del primo incontro, Haku e Asa sono due amici che, dopo essere cresciuti l'uno accanto all'altro a Ulan Bator, si sono spesso allenati insieme – nonostante appartengano a palestre diverse – e, a dispetto dei caratteri quasi opposti (compassato e un po' timido Hakuhō, nevrile e istrionico Asashōryū), si sono spalleggiati a vicenda nel difficile inserimento nella società giapponese. Asashōryū però è già stato promosso a yokozuna e ha conquistato sei tornei. Hakuhō sale sul dohyō sentendosi sconfitto in partenza, con il peggiore degli atteggiamenti possibili. “Quando incontri uno yokozuna”, racconta, “certe volte il tuo unico pensiero è come cadere per evitare di farsi male”. Come volevasi dimostrare, la vittoria di Asashōryū è una pratica rapida e indolore.

Alla fine del torneo Hakuhō torna in patria per qualche giorno, gli serve una pausa per riflettere, per capire se potrà davvero ergersi all'altezza dell'amico/rivale o se dovrà ridimensionare le proprie ambizioni. E forse sarà proprio la steppa mongola, con i suoi sconfinati cieli blu che sembrano racchiudere il mondo in una campana di vetro, a suggerirgli l'illuminazione che cercava. Ammirando in lontananza i monti Altai, magari gli torna in mente un antico proverbio mongolo che, tradotto, suona più o meno così: “Non puoi voltarti e tornare indietro solo perché la montagna è troppo alta”. Hakuhō capisce che soltanto mettendosi alla prova potrà capire se Asashōryū è davvero troppo forte per lui; ma come fare con il timore reverenziale che prova nei suoi confronti, con la paura di perdere? Mentre viaggia in auto insieme al padre, verso il villaggio di famiglia a Erdenesant, nel cuore arido e gelato della steppa s'imbatte in un lupo, un grosso maschio bianco. Hakuhō è tentato di accelerare e andare via, ma il padre lo ammonisce: “Fermati e guardalo negli occhi”. Secondo i mongoli, guardare negli occhi un lupo dona coraggio e forza.

Al ritorno in Giappone, Hakuhō si ritrova ad affrontare nuovamente Asashōryū nel torneo successivo. Lo guarda negli occhi, prima di toccare l'argilla con le mani per far partire l'incontro, e il timore della prima volta è improvvisamente svanito: quelli di Asashōryū sono occhi ardenti, feroci, ma non potranno mai spaventarlo come quelli di un lupo, perché sono occhi umani. Hakuhō resisterà all'impeto iniziale dell'avversario, si libererà ai margini estremi del dohyō con un passo di danza e lo spingerà fuori. Sotto una pioggia di cuscini, lanciati tradizionalmente dal pubblico in caso di sconfitta di uno yokozuna contro un lottatore di rango minore, Hakuhō offre una mano all'amico per rialzarsi, ma Asashōryū la rifiuta con disprezzo. Ha appena imparato un'altra lezione, e in futuro si asterrà quasi sempre da simili gesti di sportività: nella fiera idea marziale dei mongoli, offrire la mano all'avversario sconfitto significa umiliarlo due volte, e proseguendo nel ragionamento il modo migliore per ringraziare un amico diventa batterlo in combattimento. “Quel giorno, quando battei Asashōryū” racconta Hakuhō, “sentii di averlo finalmente ripagato del debito, di tutte le volte che lui era venuto nella mia palestra per aiutarmi ad allenarmi. Da lì in avanti, saremmo stati alla pari”.

La prima vittoria di Hakuhō – con il bellissimo mawashi azzurro degli esordi - sull'amico/rivale.

Sarà esattamente così. Negli anni successivi i due mongoli daranno vita alla rivalità più avvincente del nuovo millennio, una giocatasi ad altissimi livelli di fisicità, tecnica e agonismo, ma rimasta in secondo piano nell'immaginario pubblico perché i contendenti, per l'appunto, avevano il difetto di non essere giapponesi. Asashōryū è il favorito in ogni torneo che disputa ma Hakuhō, pur restandogli inferiore, riesce a sottrargli qualche vittoria. A marzo 2006 un'altra svolta, di quelle che valgono una carriera. Hakuhō batte Asashōryū nel torneo regolare ma i due finiscono appaiati con 13 vittorie e 2 sconfitte. Si disputa un match diretto, un bellissimo spareggio dove entrambi i lottatori ottengono la presa sul mawashi del rivale e da lì si apre un duello di forza e pazienza. Lo vince Asashōryū con un plastico shitatenage, una proiezione sfruttando la presa interna destra (lo stesso esito del loro primissimo incontro), ma il pubblico lancia i cuscini sul dohyō come a significare che entrambi gli uomini sono degni del rango di yokozuna. Hakuhō guarda l'amico sollevare la coppa dell'imperatore sotto un velo di lacrime, e promette di rifarsi. Non deve aspettare molto: a maggio 2006 conquista il suo primo torneo per festeggiare la promozione a ōzeki, il secondo rango più alto del sumo. A un anno di distanza, Hakuhō conquista altri due titoli e, infine, a luglio 2007, arriva anche l'agognata nomina a yokozuna. La resa dei conti fra i due, però, deve attendere.

Due piccolissimi giocatori di tennis, e un enorme lottatore di sumo (foto di TORU YAMANAKA/AFP via Getty Images).

Asashōryū ha combinato uno dei suoi pasticci, assentandosi per infortunio ma comparendo poi in una partita di calcio in Mongolia, e si è guadagnato una sospensione. Dopo un lungo battibecco con la federazione, torna a gennaio 2008 senza mostrare nessuna ruggine. Appaiati al primo posto con 13 vittorie e una sconfitta, i due si affrontano nell'ultima giornata del torneo per decretare il vincitore. L'esito dell'incontro, è evidente, detterà la linea per i prossimi anni; il computo degli scontri diretti recita 12-5 in favore di Asashōryū, ma il vento sta cambiando e l'età è tutta dalla parte del lottatore più giovane. Entrambi gli uomini hanno un enorme peso sulle spalle: Hakuhō deve dimostrare di valere il titolo di yokozuna, Asashōryū deve dimostrare di essere ancora il più forte. L'atmosfera è incandescente, quasi surreale. Tokyo è avvolta in una tempesta di neve e tra gli spalti della Kokugikan sventolano le bandiere blu e rosse della Mongolia, perché in 2000 sono partiti da Ulan Bator per assistere allo scontro decisivo fra i loro connazionali – il loro tifo, ben più esagitato e caloroso dei cerimoniosi giapponesi, fa impallidire gli oltre 9.000 spettatori locali, e non può non ricordare il rombo dei cavalli di Kublai Khan al galoppo. Persino i telecronisti appaiono confusi in quel pandemonio. Nel rituale che precede l'incontro, Asashōryū è impaziente, nervoso, una sfera di polvere da sparo pronta a esplodere; dopo il primo faccia a faccia al centro del dohyō, è lui il primo a cedere e correre al suo angolo per caricarsi. Hakuhō è controllato, sembra ripassare mentalmente il proprio piano, e scruta Asashōryū alla ricerca di ogni minimo segnale, ogni cenno di debolezza. I ruoli, rispetto al loro primo incontro, sembrano essersi ribaltati. Adesso è Hakuhō che svetta alto come una montagna, è Hakuhō che ha gli occhi del lupo. L'incontro è struggente e tragico, è al tempo stesso una rissa sanguinaria e un muto duello fra samurai, una sfida tra corpi e spiriti; uno dei più begli incontri di sempre, in qualsiasi disciplina marziale, anche per il suo enorme portato emotivo. Come nello spareggio del 2006 entrambi i lottatori riescono ad afferrare il mawashi del rivale, e nel gioco di leve (che dura più di un minuto, un'eternità per il sumo) Asashōryū prende il sopravvento con la sua forza bruta. Riesce persino a sollevare di peso Hakuhō, ma poi si sbilancia e offre la schiena all'avversario. Ha esaurito le energie troppo presto, non è riuscito a scalare la montagna: Hakuhō lo ribalta con una presa esterna, la sua uwatenage. Questa volta festeggia sobriamente.

La sfida del gennaio 2008.

A partire da quella sfida del gennaio 2008, Asashōryū ammetterà di essere stato superato in forza dal rivale e ricorrerà ad altre strategie, rinunciando a un attacco diretto nel tachi-ai (il primo scatto dei lottatori quando partono con le mani a terra). Otterrà una vittoria, d'astuzia, ma per il resto sarà un dominio di Hakuhō che porterà il totale a 13-12 in favore del lottatore più giovane. I due avrebbero potuto continuare a spronarsi e migliorarsi per anni, ma nel gennaio 2010 Asashōryū si fece sorprendere in una rissa in un locale, i cui dettagli restarono fumosi ma che si diceva avesse coinvolto anche un esponente della criminalità organizzata. L'unica opzione per evitare guai più seri era il ritiro, imposto dalla federazione. La Mongolia protesta, Hakuhō si oppone e piange in conferenza stampa, affermando che i due avevano ancora “una questione in sospeso”. Come per omaggiare e ringraziare Asashōryū per quella rivalità che l'ha spinto a diventare grande, Hakuhō si presenta ai successivi quattro tornei da unico yokozuna e li vince tutti per 15-0, senza nemmeno una sconfitta – quel “demonio”, oni, in cui Asashōryū sosteneva di trasformarsi ogni volta che saliva sul dohyō, per qualche mese, ha posseduto anche lui.

Il gallo di legno

In occasione del ritiro, i giornalisti hanno chiesto a Hakuhō di citare due vittorie particolarmente importanti nella sua carriera. Lui, invece, ha parlato di una sconfitta. Quella avvenuta per mano di Kisenosato nel novembre 2010, a chiudere a quota 63 le vittorie consecutive dopo quel filotto di tornei perfetti. Hakuhō aveva preso di mira il record assoluto di Futabayama, che fra 1936 e 1939 (all'epoca si combattevano meno incontri all'anno) aveva raggiunto 69 successi consecutivi. Nessuno parlava d'altro, ormai, visto che dopo il ritiro di Asashōryū gli unici rivali degni di Hakuhō sembravano nomi incisi nella storia. Con la vittoria consecutiva numero 58 eguaglia Umegatani I, attivo a fine Ottocento, e con la numero 63 raggiunge Tanikaze – parliamo addirittura del 1782. Il record è alla sua portata, e per Hakuhō avrebbe un significato particolare perché Futabayama è il lottatore che forse ha più amato e a cui più si è ispirato, mentre studiava la storia della disciplina. Aveva appreso da lui il concetto di dominare il dohyō appellandosi a tre principi confuciani: non temere l'aspetto del nemico; non temere la voce del nemico; non mostrare la propria forza. Futabayama aspirava a essere come il mokkei, il gallo da combattimento di legno di un detto cinese, citato dal filosofo Zhuāngzǐ, che vinceva ogni incontro perché imperturbabile – e Hakuhō aspirava a essere come il suo idolo. Futabayama era cieco da un occhio fin dall'età di cinque anni, ma nessuno dei suoi avversari se n'era mai accorto.

La sconfitta contro Kisenosato che pose fine alla striscia di vittorie.

Perché allora Hakuhō cita proprio quella sconfitta, che segnò la fine della sua corsa quando il record era quasi a portata di mano? Perché dopo un momento di tremendo scoramento, in cui meditò addirittura di abbandonare il torneo in corsa, Hakuhō capì che Kisenosato, battendolo, lo aveva salvato. Raggiunto il record, non avrebbe più avuto motivazioni degne per combattere e si sarebbe con tutta probabilità ritirato a soli 25 anni; e avrebbe peccato di superbia nei confronti di Futabayama e di tutti i suoi antenati, reputandosi superiore a loro. Quella sconfitta, invece, riaccese la sua passione e lo stimolò a cercare nuovi obiettivi: i duelli con lo stesso Kisenosato, protagonista di una breve ma intensa corsa da yokozuna; Harumafuji, il nuovo yokozuna mongolo anch'egli ritiratosi presto e fra le polemiche; e infine Kakuryū; i 45 tornei vinti – seppellendo a quota 32 lo storico record di Taihō negli anni Sessanta; le 1187 vittorie singole, i 16 tornei perfetti chiusi per 15-0 (zenshō yūshō, in gergo), e soprattutto altri dieci anni di entusiasmante carriera colmi di sfide inedite.

Prima fra tutte, quella con il proprio corpo. Fino al 2015 Hakuhō vive un altro periodo di grazia, facendo incetta di tornei, ma alla soglia dei trent'anni inizia a doversi prendere qualche pausa per curare gli infortuni, soprattutto quelli al gomito e al ginocchio destro. Da perfezionista qual è sempre stato, uno che dopo oltre dieci anni di esibizioni continua a trovare difetti nella propria danza del dohyō-iri, ridisegna personalmente gli allenamenti per bilanciare le sopravvenute debolezze, trattando in maniera specializzata ogni singolo muscolo e articolazione del corpo. Adotta anche uno stile più conservativo, specialmente nel tachi-ai. Nel 2018, però, il tempo sembra averlo finalmente raggiunto; vince un solo torneo, poi due nel 2019, in mezzo tanti ritiri. Lui ci scherza su, rievocando l'ormai proverbiale antipatia nei suoi confronti: “I giapponesi mi sopportano più volentieri se vinco solo un torneo all'anno”, dice, ma c'è da credere che il declino fisico gli pesi, e non poco. Gli yokozuna non vengono retrocessi in caso di assenza per infortunio, come accade ai ranghi inferiori, ma è tradizione che vadano in pensione quando sono ancora in grado di lottare ad alti livelli, per non macchiare la reputazione del ruolo. In molti si chiedono se Hakuhō non stia tirando troppo la corda, si domandano perché si ostini a continuare nonostante abbia già vinto tutto, non abbia nessun conto in sospeso. La sua motivazione è fissata soltanto alle Olimpiadi del 2020, non c'è altro evento cerchiato in rosso sul calendario. Stringe i denti, perché gli basta tenersi in attività fino a quel giorno, ma poi ci si mette la pandemia a complicargli i piani. Vince a marzo 2020, il torneo di maggio è cancellato, quelli successivi si disputano a porte chiuse e poi con pubblico ridotto, e mentre le Olimpiadi vengono ufficialmente spostate all'estate successiva Hakuhō si prende un periodo di riflessione. Prima si opera al ginocchio, in agosto, e poi decide di provarci. Un altro anno. Un anno che significa molto, con 35 primavere già sulle spalle, perché per il corpo umano non è facile portare in giro tutto quel peso – non è un caso che numerosi lottatori dopo il ritiro soffrano di problemi di salute o, al contrario, perdano rapidamente peso tornando a dimensioni più ragionevoli.

Il lancio del sale, per purificare il dohyō.

Il ginocchio, il gomito e la schiena non lo fanno dormire la notte. Salta tre tornei a cavallo fra 2020 e 2021, uno per contagio da COVID-19, tenta il ritorno a marzo ma il ginocchio cede di nuovo e lo obbliga a una nuova operazione chirurgica, stavolta alla rotula. Hakuhō lo promette a se stesso, al suo futuro e alla sua famiglia: sarà l'ultima visita in sala operatoria della carriera, perché non vuole rischiare la salute di un padre di quattro figli. Per la JSA, però, le sue assenze stanno diventando inaccettabili. I dirigenti lo invitano a ritirarsi con un richiamo ufficiale. Lui li ignora con regale superbia: non ha nessun debito verso la federazione, anzi, si sente bistrattato per tutto quello che ha dato alla disciplina. Vuole ritirarsi a modo suo, dimostrando che è ancora il migliore. Si reca a Nagoya, la sede del torneo di luglio 2021, con settimane di anticipo, quasi un ritiro spirituale. E il torneo di luglio 2021 è un capolavoro di fulgida bellezza, toccante perché Hakuhō, per la prima volta, non è più un semidio sul dohyō. È un essere umano, che su quell'argilla ha trovato il suo palcoscenico e la sua casa. Quei quindici giorni di combattimenti sono il suo spettacolo personale, Hakuhō è ancora più espressivo ed espansivo del solito, come se avesse davvero gettato la maschera dello yokozuna e si godesse ogni momento senza freni, senza filtri.

Le prime giornate sono una preghiera ai kami della lotta, affinché il ginocchio destro regga l'impatto. Lo fa, e Hakuhō tira vistosi sospiri di sollievo e si concede ampi sorrisi quando vince incontro dopo incontro con tattiche meno imponenti del solito, per il rotto della cuffia, talvolta arretrando. A metà torneo prende fiducia, ignora il dolore e per qualche incontro sembra tornato dominante come un tempo; i suoi sorrisi diventano sardonici, da spaccone, ma poi la fatica si fa sentire, deve ricorrere all'astuzia e alla rabbia, ormai evidente dal suo volto rigido, dai muscoli tesi sotto le ingombranti fasciature. Arriva all'ultimo incontro con un percorso perfetto, 14 vittorie e nessuna sconfitta, ma è un ruolino che non basta ad assicurargli il successo perché il suo avversario ha totalizzato lo stesso risultato. È un peccato che l'arena di Nagoya sia semivuota a causa del distanziamento obbligatorio, perché l'atmosfera avrebbe potuto replicare quel gennaio 2008 nella Kokugikan invasa dai tifosi mongoli. Terunofuji, l'uomo dall'altra parte del dohyō, è anch'egli mongolo, sei anni più giovane e con una storia che un giorno meriterebbe di essere raccontata con la stessa dovizia di particolari di questa. Straordinaria promessa del sumo ma vessato da ginocchia di cristallo, nel 2018 Terunofuji scivolò dalla massima divisione giù fino ai ranghi dei principianti a causa di una lunghissima assenza per ricostruire le articolazioni, e da lì, nel giro di due anni, diventò protagonista di un comeback senza precedenti, divorandosi in un sol boccone la concorrenza fino a conquistare un torneo nel 2020 e due consecutivi nel 2021. La sfida di Nagoya è anche il coronamento della sua rincorsa, un sprint ossessivo e fragile, vissuto in apnea, perché è chiaro a tutti che la carriera di Terunofuji durerà finché le bombe a orologeria che ha al posto delle ginocchia non scoppieranno: con il 14-0, si è già assicurato la nomina a yokozuna.

L'ultimo incontro di Hakuhō sarà uno dei più belli, merita di essere visto nella sua interezza.

C'è una sensazione crepuscolare che traspare anche dallo schermo televisivo. Tutti hanno un sospetto: questa è l'ultima volta che vediamo Hakuhō correre verso l'angolo, con il suo caratteristico passo felpato, gettare il sale, battersi la mano sul ventre e sul mawashi, prendere posizione, sempre a testa alta, con quei movimenti aggraziati dei piedi, e poi quell'inclinazione delle anche, segno quasi impercettibile che sta per scatenare l'attacco. Un passaggio di consegne fra connazionali, dunque? Uno scenario pacifico, di serena resa al nuovo che avanza? Tutt'altro. L'incontro, ancora una volta, è riassumibile in venti secondi di poesia marziale. Nel rituale pre-gara, Hakuhō torna lo stesso del 2008; è lui che dovrebbe patire di più la pressione, ma è lui l'ultimo a spostare lo sguardo, l'ultimo ad abbassarsi per poggiare le mani sull'argilla. È un gallo di legno, imperturbabile e illeggibile, e quando le quattro mani degli atleti toccano il dohyō e l'arbitro grida hakkeyoi, diventa una roccia, inamovibile. Sa che l'avversario è più forte e non vuole concedergli la presa, lo tiene a distanza muovendosi in cerchio e colpendo con gli schiaffi, finché non trova il varco per afferrargli il mawashi con due mani, una interna e una esterna. È una posizione di grande vantaggio, perché Terunofuji sta ancora cercando l'equilibrio e ha piazzato una sola mano, in posizione debole, sulla cintura del rivale. Qui entra in gioco la straordinaria sensibilità e forza che Hakuhō ha sempre avuto nel bacino, una capacità che Asashōryū lodava e che tanto lo faceva dannare, per tirare i 177 chilogrammi di Terunofuji verso di sé e tentare di ribaltarlo con la mano esterna, uwatenage. Terunofuji resiste, Hakuhō perde la presa e rischia di offrire la schiena al rivale, ma resta aggrappato al braccio, di puro istinto. Lo uncina sotto l'ascella e lo trascina a terra, kotenage. Gli attimi che seguono sono un lungo, commovente brivido di grandezza. Hakuhō alza il pugno, lancia un grido primordiale, di un Khan che cavalca nella steppa si potrebbe dire, digrigna i denti prima di cattiveria agonistica e poi di dolore, quando deve piegarsi sulle ginocchia per ricevere il premio dall'arbitro. Tutti gesti insolitamente e straordinariamente umani, nel cerimonioso mondo del sumo, così come insolita è la presenza di moglie e figli sulle tribune, subito pizzicati in lacrime dalle telecamere. Il sospetto di aver appena assistito all'ultimo incontro di Hakuhō si avvicina pericolosamente alla certezza; ed è l'ennesimo torneo vinto per 15-0.

L'ultima immagine della carriera agonistica di Hakuhō è anche la più intensa.

Hinkaku, o della dignità di uno yokozuna

Se un tempo fu la chiamata dell'oyakata Miyagino a fargli cancellare i biglietti di ritorno per la Mongolia dando il via alla sua carriera nel sumo, stavolta è una chiamata mancata che vi pone fine, prima ancora della notizia ufficiale diramata soltanto a settembre dopo giorni di assedio mediatico alla sede della heya – contrariamente allo sfarzo che si può immaginare, uno spartano edificio bianco in un'anonima via cittadina dove al mattino si vedono gli allievi in ciabatte uscire per lavare i tappetini e spazzare i marciapiedi. Il sogno di eseguire il dohyō-iri a Tokyo 2020 non si realizza per una combinazione di fattori tra cui, non ultimo, la capricciosa ostilità della JSA nei suoi confronti. Nel tira e molla degli ultimi anni, dopo che Hakuhō aveva preso la cittadinanza giapponese come requisito per diventare a sua volta allenatore dopo il ritiro, i dirigenti si sono rifiutati di concedergli un posto ufficiale tra gli “anziani”, una posizione detta toshiyori-kabu o elder stock, in inglese: come risultato, il nome Hakuhō si estingue con il ritiro, e nella sua nuova avventura da allenatore dovrà farsi chiamare con un nuovo nome, Magaki. Un peccato, forse uno spregio, ma l'idea che il nome Hakuhō resti impresso solo e soltanto sull'argilla del dohyō dov'è nato ha un certo fascino – ed è anche un monito per il futuro, come a suggerire ai lottatori della nuova generazione, apparentemente povera di talenti e capitana da un unico yokozuna dalle ginocchia scricchiolanti, che dovranno cavarsela da soli da adesso in poi.

Un ultimo saluto al pubblico, prima di diventare oyakata Magaki.

Com'è possibile, si è chiesto un giornalista giapponese mentre ricapitolava la carriera di Hakuhō, che un uomo così profondamente appassionato della disciplina, un vero studioso e cultore della materia, abbia dimostrato così poco rispetto per le sue tradizioni? Per rispondere, viene in mente un documentario trasmesso dalla televisione mongola nel 2017, dove Hakuhō – tra le steppe nebbiose, i cieli blu e gli abiti dorati della madrepatria – parlava di sé per tre ore abbondanti: di come aveva conquistato sua moglie rubando le frasi romantiche dalle serie tv coreane, della rivalità con Asashōryū tracimata di nuovo in amicizia dopo il ritiro, del genuino e paritario amore per la sua Mongolia e l'altrettanto suo Giappone. La lingua mongola è aspra, gutturale, ma certe volte diventa un sussurro nelle sue corde vocali gentili, ed è strano immaginare quello stesso uomo, un po' timido con le telecamere, così tenero con i figli e devoto verso il padre e le altre grandi figure della Mongolia, svettare sul dohyō con la superbia di una tigre. E viene in mente anche una sua frase, nell'ultima conferenza stampa, collocata sapientemente a metà strada fra l'onestà e il sarcasmo. “Io vedo lo yokozuna come qualcuno che sale sul dohyō, non si arrende mai, combatte come un demonio e cerca sempre di vincere. Mi rendo conto che alcuni vedano la cosa in modo differente: io ho provato con tutto me stesso a diventare lo yokozuna che voleva la gente, ma purtroppo non ci sono riuscito”.

La dignità di uno yokozuna, in definitiva, era per Hakuhō un valore più umano che divino. Era la capacità di accettare ed esprimere le emozioni, perché per giungere all'amore e alla benevolenza dei kami bisogna passare anche da quelle negative, come l'odio o la rabbia di un demone oni, anche da quelle brucianti, come le lacrime che ha versato più di ogni altro lottatore in occasioni pubbliche. Era la sensibilità di cercare il contatto fisico, baciare sulle guance e sulla fronte allievi, maestri e compagni diventati rivali, nel freddo mondo giapponese che idealizza la distanza. Era una dote appresa dai cieli blu, dalle montagne rosse e dai lupi bianchi della Mongolia, da insegnare e lasciare in eredità ai figli, ai partecipanti della coppa del mondo di sumo per dilettanti, che lui stesso ha insistito per organizzare in Mongolia, e ai giovanissimi protagonisti delle sue Hakuhō Cup, una festa del sumo che si celebra ogni anno, tutta dedicata al futuro. Traboccante d'amore per la disciplina a cui ha dedicato la sua intera vita, a un certo punto della carriera Hakuhō ha capito che quell'amore, e quella stessa disciplina, erano troppo meravigliosi per restare strozzati nel giogo delle tradizioni; ha cercato di essere non il modello che il Giappone gli chiedeva ma quello che lui ambiva a diventare, provando a cambiarle, quelle tradizioni che nel sumo sono più antiche di qualsiasi altro sport conosciuto, per liberarle dai tessuti morti e lasciarle brillare, rivivere, germogliare. Serve un essere umano di proporzioni ancora più grandi dell'atleta per trovare il coraggio di farlo; una creatura di spirito, un'anima in sintonia con il respiro del cielo, il fruscio della steppa e il rombo di guerra dei cavalli al galoppo.

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