Il termine plusvalenza trova spazio per la prima volta fuori dalle pagine di economia dei giornali italiani intorno alla fine degli anni novanta. A portare nei discorsi calcistici un termine storicamente legato ad altri ambiti è la quotazione in Borsa della Lazio, che di colpo entra in una nuova dimensione: Giorgio Tosatti, in un corsivo del 31 ottobre 1998 sul Corriere della Sera, elogia l’operazione che ha portato, nell’estate dello stesso anno, alla cessione di Vladimir Jugovic. Qualche mese prima, commentando il passaggio di Pierluigi Casiraghi al Chelsea, Maurizio Nicita rifletteva, sulle pagine della Gazzetta dello Sport, sui quasi 18 miliardi di plusvalenza generati dall’addio di Bisontino. E un anno più tardi, nel discorso rivolto agli azionisti, Sergio Cragnotti torna sulla cessione di Christian Vieri, acquistato nell’estate del 1998 per 48 miliardi di lire e venduto dodici mesi dopo per 69 più il cartellino di Diego Pablo Simeone, per una valutazione complessiva di 90 miliardi: «È stata quanto mai opportuna la plusvalenza realizzata a fine esercizio con la cessione dei diritti di un campione la cui partenza costituisce, al tempo stesso, un grande sacrificio e un doveroso, apprezzabile tentativo di sottrarsi a richieste ragionevolmente inaccettabili». Per il tifo calcistico è una rivoluzione. I tifosi iniziano a fare i conti (in senso letterale) con acquisti e cessioni, con ammortamenti e costi dei cartellini.
Secondo alcune ricostruzioni, a dirla tutta abbastanza complicate da portare a termine a causa della difficoltà intrinseca alle valutazioni di mercato, la prima plusvalenza “discutibile” sarebbe lo scambio avvenuto tra Lazio e Milan in occasione del mercato di gennaio del 1999. Alessandro Iannuzzi, ex enfant prodige del vivaio biancoceleste, già astro nascente di una Primavera laziale che poteva vantare tra le proprie fila Alessandro Nesta e Marco Di Vaio, viene ceduto al Milan in cambio di Federico Crovari, ex capitano del Monza e divenuto in seguito giocatore cardine del Vicenza. Valore dei due cartellini, secondo i bilanci: dieci miliardi di lire a testa. Un po’ troppo per due giocatori obiettivamente marginali all’interno di rose allestite per vincere lo scudetto.
Iannuzzi si era presentato così in Serie A, con una punizione pennellata in pieno recupero contro il Torino sotto la Nord.
Di plusvalenze, nel nostro calcio, si discute quindi da molti anni: il primo a lamentarsene in maniera esplicita è Giuseppe Gazzoni Frascara, presidente del Bologna, che nel 2004 presenta un esposto alla procura di Roma, che ipotizza il reato di falso in bilancio per eludere le norme che regolano l’iscrizione al campionato: vengono perquisite le sedi di 51 club. «Ho dovuto vendere Cruz per pagare l'Irpef mentre la Roma evade il fisco, poi viene al Dall'Ara e mi fa quattro gol», arriverà a dire Gazzoni Frascara. Scrive Repubblica nel 2004: «Negli ultimi cinque anni le plusvalenze nel calcio sono cresciute del 740%. Al 30 giugno 2002, e il 2002 è un anno decisivo per il crack del sistema, in serie A ci furono plusvalenze per 709 milioni di euro». Un sistema che Antonio Giraudo ribattezzò "doping amministrativo", in contrapposizione al doping reale di cui si iniziava a parlare negli stessi anni.
Nell’aprile del 2005 è invece la procura di Milano a inviare gli avvisi di garanzia ai dirigenti di Milan e Inter, per avere «esposto nei bilanci fatti non rispondenti al vero su attività e passività, allo scopo di evitare di evidenziare perdite che avrebbero comportato l’obbligo di ripianarle o di ridurre il capitale sociale entro il successivo esercizio», citando almeno 18 compravendite di giocatori «fittizie nella determinazione del prezzo di cessione o di acquisto». Una vicenda chiusa con il «non luogo a procedere».
Negli anni i tifosi e gli appassionati hanno preso confidenza con il termine "plusvalenze", usate dalle squadre in maniera più o meno massiccia. Scambi di mercato o cessioni eccellenti, ma anche movimenti che vedevano coinvolti giocatori minori con cifre segnate a bilancio difficili da comprendere. L’inchiesta sull’asse Chievo-Cesena, con il club clivense arrivato a realizzare 23 milioni di plusvalenze grazie a movimenti di giocatori minori con la società bianconera, è una delle prime che ha segnalato la questione come problematica. Ora c'è stata la sentenza sul caso Juventus, con la penalizzazione di 15 punti, le cui motivazioni sono uscite proprio in questi giorni. Per la Corte Federale d’Appello, la Juventus ha fatto «un eccessivo utilizzo di plusvalenze artificiali» e ha tenuto un «modus operandi non corretto», con conseguente «alterazione ripetuta dei valori di bilancio e del significato informativo dello stesso».
Altre società sono state coinvolte, ma punite in maniera molto più blanda, almeno per ora. Nella storia del nostro campionato, fin qui, ci sono state plusvalenze eclatanti, frutto di grandi intuizioni di mercato, e altre che hanno destato qualche sospetto: proviamo a riepilogare alcune di queste ultime. Come potete immaginare, non c'è nessuna pretesa di esaustività: la lista completa sarebbe praticamente infinita. Ci fermeremo alla soglia degli ultimissimi anni, quelli presi in esame dalla giustizia, ordinaria e sportiva.
L’asse Milan-Inter
Ferraro, Livi, Ticli, Varaldi, Brunelli, Deinite, Giordano, Toma. Se questi cognomi vi dicono pochino, è perfettamente comprensibile. Nell’estate del 2003, il Milan è fresco campione d’Europa e apre questo fronte di mercato con l’Inter: non è il primo passaggio da una sponda all’altra del Naviglio e non sarà certo l’ultimo, ma è certamente particolare. I quattro ragazzi che vanno a vestire il rossonero sono Salvatore Ferraro, Alessandro Livi, Giuseppe Ticli e Marco Varaldi. Tragitto opposto per Simone Brunelli, Matteo Deinite, Matteo Giordano e Ronny Toma. Dai bilanci dei due club emergeranno plusvalenze complessive per 14 milioni di euro legate al primo pacchetto e di 12 milioni di euro per il secondo. Con un piccolo problema: Brunelli denuncia di non aver mai firmato alcun contratto, anzi, di essere stato ceduto mentre era in vacanza. Viene anche ascoltato dai pm della Procura di Milano, ma la sua denuncia non porta da nessuna parte. Nel 2007, alla Gazzetta dello Sport, Varaldi confessa tutta la sua amarezza: «Quando venni ceduto al Milan avevo speranze di un certo tipo: avevo fatto il terzo portiere all’Inter, ero stato nel giro delle nazionali giovanili con Amelia. All’inizio non avevo capito cosa fosse successo, chiesi all’Inter il motivo dello scambio e mi risposero che ci sarebbero stati vantaggi per tutti. Passando al Milan, in effetti, guadagnai tre anni di contratto in più. Solo quando i giornali cominciarono a occuparsi del caso mio e di altri compagni mi fu tutto più chiaro. Chiarissimo. Mi è capitato di essere insultato dai tifosi avversari che mi urlavano “Sei una plusvalenza”. Siamo stati penalizzati come persone e come calciatori».
Già tra il 1999 e il 2001, Inter e Milan avevano messo in piedi alcuni scambi di giocatori minori: Paolo Ginestra, Matteo Bogani, Fabio Di Sauro, Davide Cordone, Andrea Polizzano e Marco Bonura avevano generato plusvalenze reciproche tra i 7 e i 10 miliardi di lire. E poi c’erano stati scambi più celebri, con i passaggi dei vari Coco, Seedorf, Pirlo, Guly, Helveg, Simic, Domoraud, Brocchi, Brncic. «Ci scambiamo i giocatori con l'Inter perché le loro mogli e fidanzate sono ormai abituate a vivere a Milano e non saprebbero più farne a meno», sarebbe arrivato a dire Adriano Galliani.
La serie di rigori che decide, nell’estate del 2000, il trofeo Canale 5 (per i vent'anni del canale): Brncic non trema dovendo calciare il quinto, ma alla fine la spunta comunque la Roma.
I fratelli di latte
I nomi di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi vengono associati (insieme) per la prima volta al termine plusvalenza nel marzo del 1999. Sono entrambi già proprietari rispettivamente di Lazio e Parma, ma il calcio, per una volta, non c’entra nulla. Un anno prima, Cragnotti aveva rilevato, per 80 miliardi di lire, il 75% delle azioni della Centrale del Latte di Roma. Un accordo che prevedeva l’impossibilità di rivendita per i cinque anni successivi, pena il pagamento di una penale di un solo miliardo di lire, che Cragnotti versa, puntualmente, nel momento in cui conclude con Calisto Tanzi un maxi accordo di cessione che prevede il passaggio alla Parmalat dell’intero gruppo Eurolat, all’interno del quale si trovavano, oltre alla Centrale del Latte di Roma, anche Polenghi, Aia, Stella, Torrimpietra, Torvais, Calabria Latte, Berna e Matese. Un affare da 780 miliardi complessivi, che aveva fruttato al gruppo Cirio una plusvalenza di 340 miliardi. Per la cronaca, la vicenda giudiziaria legata alla Centrale del Latte di Roma e a Parmalat si è conclusa solamente nel novembre del 2022, con la decisione, da parte di Lactalis (attuale proprietaria di Parmalat), di riconsegnare le azioni della Centrale al Comune, prima di attendere il responso della Cassazione.
Nell’estate del 2000, con la Lazio fresca vincitrice dello scudetto, i «fratelli di latte» mettono in piedi un altro affare. Hernan Crespo sbarca a Roma per una valutazione complessiva di 110 miliardi di lire: nel tragitto da Roma a Parma si spostano solamente 30 miliardi in contanti, il resto è coperto dai cartellini di Matias Almeyda e Sergio Conceiçao. Si tratta forse dell’affare più lineare di quelli citati in questa ricostruzione, ma finirà comunque per far discutere, così come aveva fatto l’acquisto, un anno prima, di Juan Sebastian Veron per 60 miliardi. Nel 1998, invece, era stato Diego Fuser ad andare dalla Lazio al Parma per 12 miliardi. In un’intervista del 2022 al Messaggero, Cragnotti dirà di avere, insieme a Tanzi, «inventato le plusvalenze, reali, non numeri fantasiosi, e apportavano vantaggi economici. Negli anni poi ci hanno seguito tutti».
I miliardi di Roma e Parma
Il periodo che va dal 1998 al 2002 è ritenuto dagli esperti quello della «bolla delle plusvalenze»: convertendo il valore in milioni di euro, nel 1998 in Serie A si contavano plusvalenze nette da cessione di giocatori per poco più di 200 milioni; nel 2000 erano diventati 492 milioni; nel 2002 ben 798. Un lifting che ha consentito ai club della massima serie di portare, tra il 2001 e il 2002, le perdite operative a soli 370 milioni di euro, a fronte di un rosso che, senza plusvalenze, sarebbe stato di 1.800 milioni. Secondo un’analisi condotta da Marco Bellinazzo de Il Sole 24 ore, nel periodo 1996-1999 le “Sette Sorelle” (Milan, Inter, Roma, Lazio, Juventus, Fiorentina e Parma) da sole maturano il 62% delle plusvalenze dell’intero movimento calcistico italiano.
È un periodo in cui iniziano a proliferare le operazioni di scambio tra club in cui il valore dei giocatori mossi è sostanzialmente di pari entità: l’emblema di queste operazioni è l’affare Roma-Parma nell’estate del 2002. In giallorosso arrivano Raffaele Longo, Saliou Lassissi e Diego Fuser, valutazione complessiva 65 miliardi. Compiono il tragitto inverso Sergei Gurenko, Paolo Poggi e Amedeo Mangone, per un valore totale di 60 miliardi. Non è uno scambio tra carneadi, ma la valutazione viene subito ritenuta esagerata. Longo sarà subito girato dai giallorossi al Palermo (altro club di proprietà di Franco Sensi), Fuser giocherà una quindicina di spezzoni in due stagioni, Lassissi non esordirà mai con la Roma in gare ufficiali a causa di un terribile infortunio subito nel match amichevole contro il Boca Juniors, che di fatto porrà fine alla sua carriera; Gurenko e Mangone metteranno insieme quattro presenze complessive in un anno, Poggi verrà subito mandato in prestito al Piacenza. Se il Parma in quegli anni è spesso usato come sponda da molti club (verrà messa nel mirino dei critici addirittura l’affare Buffon, per la valutazione di 35 miliardi di euro attribuita a Jonathan Bachini come parziale contropartita), la Roma si mette in mostra soprattutto con cessioni minori, come quelle di Luigi Panarelli, Alberto Schettino e Gabriele Paoletti al Torino per 24 milioni e mezzo nel 2001.
Per i fan romanisti di Lassissi, la riproposizione integrale di Roma-Boca Juniors: nei commenti su Youtube c’è anche si è preso la briga di indicare il momento esatto dell’infortunio.
Il caso Chievo-Cesena
L’inchiesta “Fantacalcio” scava nei bilanci di Chievo Verona e Cesena. Tra il 2014 e il 2017 i clivensi realizzano oltre 60 milioni di plusvalenze, cedendo prevalentemente giocatori di seconda e terza fascia. Di quei 60 milioni, 23 maturano grazie al rapporto con il Cesena: si parte dai 2 milioni incassati per Thomas Gkaras nel 2015 per poi registrare i passaggi di quattro giocatori nella stagione successiva. Sono Luca Concato (2 milioni di plusvalenza), Eziefula Lordswill (1,8 milioni), Sebastiano Foletto (2,2 milioni) e Fatlind Mahmuti (1 milione). Altri quattro movimenti l’anno successivo: Carlo Alberto Tosi (4,5 milioni), Lorenzo Placidi (3,5 milioni), Pietro Borgogna (4 milioni) e Filippo Zambelli (2 milioni). Praticamente nello stesso periodo, compiono il percorso inverso Fabio Tomassini (930 mila euro di plusvalenza), Andrea Magrini e Francesco Mazzavillani (3,9 milioni di plusvalenza), Matteo Bartoletti, Lorenzo Sarini e Nicola Andreoli (5 milioni), Daniele Grieco (2 milioni), Marco Asllani e Alberto Drudi (5 milioni). Tutti nomi rimasti ai margini del calcio che conta, nonostante le valutazioni.
A differenza di altri procedimenti, quello tra Chievo e Cesena ha un impatto tangibile, oltre le semplici ammende, anche a livello di giustizia sportiva. In primo grado, il Tribunale Nazionale Federale accoglie un’eccezione presentata dai difensori del Chievo, basata sul mancato rispetto dei termini per l’audizione delle parti, e impone così alla procura di ricominciare da zero. Nel frattempo, però, i dirigenti del Cesena avevano patteggiato la pena fino alla condanna: 15 punti di penalizzazione per il Cesena “per aver violato l’obbligo di lealtà e correttezza con operazioni che pur frutto di una contrattazione di libero mercato (e quindi senza un prezzo obbligato) sono state comunque ritenute dover rispondere nei valori ai criteri di veridicità, correttezza e prudenza indicati nella redazione dei bilanci”. Sono operazioni giudicate come effettuate “in serie, su giocatori non utilizzati e addirittura mai tesserati, con valori abnormi se paragonati ad altre compravendite”.
Nel frattempo, una volta stralciate le posizioni di chi aveva patteggiato, il Cesena fa ricorso alla Corte di Appello Federale e vince, aggrappandosi allo stesso cavillo del Chievo. Stessi fatti, stesso processo: il Cesena, in sostanza, chiede e ottiene di essere riprocessato insieme al Chievo. Si riparte dal Tribunale Nazionale Federale. Ma il club bianconero, durante questo lasso di tempo, è fallito. La sentenza è simile a quella che aveva portato al -15 del Cesena, ma per il Chievo si tramuta in un -3: se nella prima sentenza il Tribunale aveva ritenuto di aver provato gli illeciti contestati e messi in pratica con lo scopo di garantire al club l’iscrizione, nella seconda si certifica che anche il Chievo avrebbe alterato i bilanci, ma senza la prova che questo sia avvenuto con l’obiettivo di iscriversi al campionato. Il Chievo retrocede proprio al termine della stagione 2018-19, quella dei tre punti di penalizzazione. Resisterà solamente altri due anni, senza riuscire a risalire in Serie A: l’esclusione dai campionati professionisti arriverà nell’agosto 2021. Il presidente del Chievo, Luca Campedelli, tramite il legale Stefano De Bosio si dichiarerà «vittima di una vera e propria discriminazione: si sarebbe comportata allo stesso modo la Figc con la Juventus o con il Milan?».
Il Chievo incasserà in seguito 27 giudizi sfavorevoli alle varie istanze presentate: attualmente, dopo che la curatela fallimentare ha bloccato la fusione con il Sona, il Chievo risulta inattivo. Il Cesena, ripartito dalla Serie D dopo il fallimento e in seguito alla fusione con l’Associazione Sportiva Dilettantistica Romagna Centro, dal 2019 è tornato tra i professionisti. Oggi milita in Serie C.