È finita come tutti ci aspettavamo, con Tadej Pogačar che alza le braccia al cielo sul traguardo di Zurigo. Da solo, senza neanche l'ombra di un avversario all'orizzonte, un caschetto che sbuca sullo sfondo delle fotografie. Nulla. Solo, eppure circondato da una folla in delirio, esaltata per un campione che ancora una volta - l'ennesima - ha fatto a brandelli il ciclismo contemporaneo per elevarsi in un'altra dimensione. E allora, se tutto è andato come doveva andare, perché siamo qui a parlarne? Perché anche questa impresa ci sembra così straordinaria, in un anno in cui aveva già vinto il Giro d'Italia e il Tour de France?
Il tragediografo greco Euripide era solito svelare il finale delle sue opere nell'introduzione. Il coro cantava subito la fine della storia, raccontando al pubblico come sarebbe andata a finire. Poi però aggiungeva un invito, rivolto agli astanti: ora che sapete come andrà a finire, concentratevi su tutto il resto. Concentratevi sugli sviluppi della trama, gli intrecci, i dialoghi. Focalizzate la vostra attenzione non sul “dove” andremo a finire ma sul “come” ci arriveremo.
Forse Tadej Pogačar non ha mai letto Euripide ma, quando ci sediamo sul divano a guardare una corsa in cui è il grande favorito, ormai ci comportiamo allo stesso modo del pubblico ateniese a teatro. Pur sapendo già come andrà a finire, ci concentriamo sui suoi movimenti, ci lasciamo trasportare dalle sue gesta e alla fine come per magia siamo davvero sorpresi.
La corsa in linea del Mondiale, di per sé, è stata abbastanza lineare, almeno nella prima parte. Va via una fuga ben nutrita, con dentro rappresentanti di quasi tutte le Nazionali principali. L'Italia butta dentro Mattia Cattaneo, la Francia ha Pavel Sivakov, il Belgio è presente con Laurens De Plus. La Slovenia ha inserito Jan Tratnik, passista infaticabile che per gli altri 364 giorni dell’anno è una pedina fondamentale nello scacchiere tattico della Visma-Lease a bike, la squadra di Jonas Vingegaard e Wout Van Aert.
Le Nazionali più blasonate quindi lasciano fare, come da prassi. Nessuno vuole prendersi la briga di imbastire davvero un inseguimento, consapevoli forse che nel momento in cui la corsa esploderà per quelli davanti non ci sarà scampo. In parte avevano ragione. Solo in parte, però, perché la Slovenia - vedendo la rilassata disorganizzazione degli avversari - decide di muovere le sue pedine in anticipo. Prima è Novak che va a chiudere su alcuni tentativi di fuga. Poi, a poco più di 100 chilometri dal traguardo, Primoz Roglic si mette in testa al gruppo per forzare l’andatura e mettere alle strette gli avversari. Alla fine è Tadej Pogacar in prima persona a sferrare il suo attacco. Il capitano della Slovenia prende come punto di riferimento Romain Grégoire e Quinn Simmons ma li pianta immediatamente sul posto. Il suo attacco è violento, brutale, come siamo abituati a vedere. Dalla sua pedalata sembra che si stia avvicinando l’arrivo, mentre invece mancano ancora 100 chilometri, più di due ore di corsa e altri tre giri del circuito da percorrere.
«Io ed Evenepoel l’abbiamo vista come una mossa stupida», dirà poi Mathieu van der Poel, il campione uscente e grande rivale di Pogacar. «C’erano tante squadre che potevano ancora controllare la corsa». Pogacar però vola via, Bagioli e Simmons saltano per aria dopo aver provato a tenere il suo passo. Remco Evenepoel, Mathieu van der Poel e tutti gli altri grandi favoriti della vigilia restano a guardare, al riparo nella pancia del gruppo. Il distacco iniziale non è tantissimo, la reazione di alcuni elementi singoli aveva di fatto tamponato l’azione di Pogacar. Ma appena questi si spostano, il gruppo si pianta come da copione e Pogacar in progressione aumenta il suo vantaggio.
Sarebbe questo il momento in cui le squadre avversarie dovrebbero riorganizzarsi e imbastire un inseguimento. Invece si va avanti a scatti e controscatti per qualche chilometro prima che il Belgio riesca a rimettere insieme i pezzi. Ma la Nazionale belga è disorganizzata, si muove come un insieme di individui più che come una squadra, non fa ritmo, non fa velocità. La loro azione è fragile e scostante. Anche i Paesi Bassi non si muovono, forse bloccati tatticamente dai dubbi sulle reali possibilità di Mathieu van der Poel di essere davvero competitivo su questo percorso più adatto agli scalatori. Quindi vogliono tenersi da parte i loro uomini più adatti, come Bauke Mollema o Wilco Kelderman. Gli unici a dare una mano sono gli australiani, che cercano di riportare sotto Ben O’Connor. Troppo poco.
È qui che Tadej Pogacar vince la sua scommessa. Perché di questo si tratta in questi casi: una doppia scommessa. Chi attacca scommette che quelli dietro non saranno in grado di organizzarsi, bloccati da tatticismi e dinamiche di gruppo; quelli dietro, che scelgono di non muoversi in prima persona, scommettono che invece le loro squadre - o qualcun altro in gruppo - riusciranno a tenere chiusa la corsa, tenendo il fuggitivo a bagnomaria per un po’ prima di riacciuffarlo. La scommessa - come sempre, del resto - la vince anche stavolta Tadej Pogacar. La sua mossa non è la mossa della disperazione, perché avrebbe potuto vincere anche attaccando più vicino al traguardo, affrontando a viso aperto i suoi avversari. Non è nemmeno il tentativo di un’impresa solitaria da lasciare ai posteri, da raccontare ai nipoti come una Cuneo-Pinerolo.
È invece l’azione lucida e chirurgica di un ciclista che conosce perfettamente le dinamiche del gruppo e sa leggere i momenti meglio degli altri. L’anno scorso aveva vinto l’Amstel Gold Race infilandosi d’istinto in una fuga partita quasi per caso a circa 90 chilometri dal traguardo. In un attimo Pogacar aveva visto che dentro a quel gruppetto c’erano uomini di praticamente tutte le squadre dei suoi principali avversari, anche con nomi di un certo livello. E lui, in un attimo, aveva deciso di agganciarsi a quel gruppetto. Una scommessa, anche in quel caso, che poi lo porterà a vincere quella corsa mentre dietro i suoi avversari si spremevano in un disperato inseguimento tardivo.
A marzo di quest’anno aveva vinto la Strade Bianche con un’azione a 80 chilometri dal traguardo, attaccando in solitaria sul settore del Monte Sante Marie e lasciando tutti i suoi rivali con il dubbio. Che poi è quello che li frega ogni volta: andare a chiudere subito, muoversi in prima persona per cercare di tenergli la ruota e far esplodere la corsa da lontano; oppure starsene in gruppo, schierare la squadra, cercare collaborazione per andare a inseguire con calma? Quel dubbio che Pogacar instilla nei suoi avversari è ciò che crea i momenti di stasi in cui lui va via da solo e gli altri aspettano, fermi, incapaci di reagire.
Quando Pogacar è già andato via da solo, dietro si crea spesso uno stallo in cui nessuno sa davvero cosa fare. Le squadre rimaste con più uomini provano a inseguirlo ma sempre col freno a mano tirato e quasi mai con una grande organizzazione o collaborazione da parte degli altri. In altre occasioni, addirittura, di squadre ancora numerose non ce ne sono proprio e quindi i vari capitani avversari si guardano e si studiano, ognuno col terrore di muoversi in prima persona per non favorire gli altri. E quindi si scattano in faccia, cercando di staccare tutti quanti o di portar via un gruppetto di tre o quattro uomini con cui lavorare insieme e inseguire lo sloveno. Ma è sempre tardi, perché nel frattempo Pogacar da solo può impostare il ritmo che preferisce, regolare e senza strappi. E guadagna, inesorabilmente.
Nel circuito di Zurigo, il Belgio prova a impostare un inseguimento ma in realtà sono pochi uomini che tirano uno per volta, spremendosi fino all’ultimo ma senza dare davvero velocità e ritmo all’azione. Così i primi 25 chilometri della fuga di Pogacar sono in realtà un lungo testa a testa fra Jan Tratnik e i vari Campenaerts e Van Gils in cui il trattore sloveno porta il suo capitano a quasi 50 secondi di vantaggio sul gruppo. Quando Remco Evenepoel si muove in prima persona lo fa però nel punto meno adatto, in cima a uno strappo non molto duro, su un tratto pedalabile prima della zona di rifornimento. Col gruppetto inseguitore compatto, perché Van Gils è da solo al comando da tanti chilometri e non ha più energia per forzare ancora. Così quando Evenepoel parte lo fa solo perché non ha alternative, perché i suoi compagni sono finiti. E gli altri lo sanno, se lo aspettano e gli tengono la ruota abbastanza facilmente. A quel punto è davvero finita, e pare assurdo dirlo visto che mancano ancora 72 chilometri al traguardo.
Il resto della gara segue il canovaccio tattico che abbiamo visto finora: davanti Pogacar va via da solo, dopo aver lasciato per strada anche Pavel Sivakov, l’ultimo superstite della fuga del mattino che aveva collaborato con lo sloveno un po’ per spirito di squadra (i due corrono insieme alla UAE Emirates) un po’ con la speranza di acciuffare una medaglia che invece non arriverà. Dietro, invece, gli avversari rimasti senza compagni continuano a scattarsi in faccia cercando di fare il buco o di portar via un gruppetto. Ci riescono solo a tratti, in un susseguirsi di azioni isolate e mai davvero convinte che non fanno altro che rallentare l’inseguimento.
All’arrivo, Tadej Pogacar esulta quasi con rabbia. Dopo 2 ore e 16 minuti di fuga, 101.5 chilometri di cui 51 in solitaria, lo sloveno può sfogare tutta la sua adrenalina. Ha avuto momenti di appannamento nel finale, ma il vantaggio era tale da non mettere in pericolo la sua vittoria. Un trionfo senza appello, che scomoda paragoni con i grandi campioni del passato. L’ultimo uomo capace di vincere Giro, Tour e Mondiale in una sola stagione fu l’irlandese Stephen Roche nel 1987: «Quello che abbiamo visto oggi», ha detto Roche a L’Equipe, «è semplicemente eccezionale. Una vittoria così porta tanta freschezza, tanta felicità. Il nostro sport ne esce più grande». Lo stesso Eddy Merckx si è espresso sul paragone fra lui e Pogacar che ormai impazza fra gli appassionati di ciclismo: «Abbiamo assistito a un evento incredibile nella storia del ciclismo. È evidente che in questo momento Pogacar è sopra di me. Lo pensavo già da un po’, nel profondo, quando avevo visto cosa aveva fatto all’ultimo Tour de France. Ma stasera non ho più alcun dubbio».
L’incoronazione del più forte ciclista di tutti i tempi segna per Pogacar una svolta fondamentale nella percezione che il mondo ha di lui, oltre che dare maggiore forza al suo lascito per i posteri. Certo, fare paragoni fra i ciclisti di oggi e quelli del passato è come avventurarsi in un campo minato in cui ad ogni passo si rischia di saltare per aria a colpi di correlazioni spurie, paragoni impropri e improbabili fra corse troppo diverse. Ai tempi di Merckx i ciclisti di punta correvano molto di più, su corse diverse con tattiche completamente differenti. Oggi Pogacar può preparare i suoi obiettivi centellinando le energie e gli sforzi, pianificando i suoi allenamenti in funzione delle sue strategie stagionali. Ma dopo questo Mondiali i paragoni erano inevitabili, e infatti alla fine non si è potuto sottrarre nemmeno Merckx, che di solito è sempre tenuto fuori da questi discorsi perché troppo in alto, troppo lontano.
Eppure forse oggi più che sulle somiglianze tra i due mi sembra più interessante concentrarsi sulle differenze. La sensazione, per esempio, che il dominio di Pogacar su questo ciclismo non derivi in tutto e per tutto dalla sua superiorità fisica - per quanto il fisico di Pogacar sia fuori dal normale - bensì dalla sua capacità di leggere le corse, di interpretare la gara in maniera sorprendente, cambiando le logiche, sfruttando i giochi tattici avversari a proprio piacimento. Una capacità che è istintiva più che razionale, come se fosse già dentro di lui. «Non sapevo cosa stavo pensando», ha ripetuto dopo aver vinto la prova in linea dei Mondiali, utilizzando una frase che aveva già usato in passato, quando gli è stato chiesto perché ha deciso di attaccare da così lontano. In questo senso, Pogacar sembra giocare con gli avversari più sul piano mentale che fisico, e in questo la sistematicità con la quale adopera questa strategia degli attacchi da lunga gittata da un lato lo aiuta a costruire un’immagine di sé come superuomo imbattibile, dall’altro rende il suo stile ancora più unico ed efficace.
I suoi attacchi da lontano infatti distruggono sul nascere le speranze degli avversari, ormai rinunciatari, scottati da esperienze altrui di ciclisti “normali” che hanno cercato di seguirlo per poi saltare per aria. Come Quinn Simmons, l’americano che ha cercato di tenergli la ruota prima di esplodere, o il nostro Bagioli, naufragato nelle retrovie dopo aver tenuto testa al primo attacco di Pogacar ai -100.
La straordinarietà di Pogacar non è quindi solo fisica o atletica. A renderlo davvero grande è il suo infilarsi nelle contraddizioni del ciclismo moderno per volgerle a suo vantaggio; l’aver rotto uno schema che ormai avevamo dato per assodato. Mentre Eddy Merckx faceva meglio di tutti ciò che tutti facevano, Pogacar riesce a fare cose che gli altri non sanno immaginare.