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Antonio Gagliardi è stato collaboratore tecnico e tattico della Juventus e della Nazionale italiana, ha partecipato alla spedizione che nell'estate del 2021 ha vinto gli Europei, e ha fatto parte dello staff di Roberto Mancini come CT dell'Arabia Saudita fino a pochi mesi fa. Da sempre interessato all'evoluzione del calcio contemporaneo, per Ultimo Uomo ha scritto un articolo che ha un titolo che si spiega da solo: "Sta finendo l'era del gioco di posizione?". È un dibattito che va avanti da qualche anno ormai tra chi si interessa del calcio a questo livello, e che è stato rinfocolato dall'affermazione del cosiddetto calcio relazionale, con cui spesso viene messo in contrapposizione. Riassumendo in maniera brutale: da una parte un calcio più attento alla struttura e alle posizioni dei giocatori in campo (com'era quello, per fare l'esempio più illustre, del Barcellona di Pep Guardiola); dall'altra uno che lascia più libertà ai giocatori di connettersi tra loro in campo, a seconda delle esigenze contingenti della partita (esempi recenti di squadre allenate seguendo i dettami del calcio relazionale: il Real Madrid di Carlo Ancelotti, la Fluminense di Fernando Diniz, il Malmö di Henrik Rydström). Per uscire da questa dicotomia con le idee più chiare, Dario Pergolizzi, nostro storico collaboratore e allenatore UEFA B, ha deciso di intervistarlo. Buona lettura.
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In questo periodo si parla abbastanza di calcio relazionale. Siamo in una fase di cambiamento, ma in qualche modo il calcio relazionale è diventato ormai un argomento conosciuto. Per buona parte della tua carriera sei stato, sul campo ma anche fuori, un noto studioso e sostenitore del gioco di posizione. Mi vengono in mente il metodo CARP di Viscidi nelle varie Nazionali, il lavoro con Pirlo e con Mancini, tutte esperienze che si possono ricondurre al calcio di posizione in varie forme. Però, in quest’ultimo periodo, leggendo quello che hai scritto, sembra che il tuo pensiero al riguardo sia cambiato. Cosa ha generato questo cambiamento?
Hai sintetizzato bene la mia evoluzione. Come tante persone, sono rimasto incantato dal Barcellona di Guardiola e da lì ho continuato a seguire quel tipo di approccio, cercando di indagarlo nel presente, nel futuro e anche nel passato. Ho fatto studi importanti sull'Olanda e l'Ajax di Cruijff; abbiamo fatto una presentazione, ancora oggi presente nei corsi di Coverciano, sul Calcio Totale, che cerca di vedere il filo che lega quell'Olanda e quell'Ajax al Manchester City di Guardiola, passando per Arrigo Sacchi, Van Gaal e Cruijff allenatore. Tutto quello che possiamo chiamare gioco posizionale mi ha affascinato e mi affascina tutt'ora.
Ero quasi un fondamentalista, convinto che non si potesse vincere in un altro modo. Ho fatto anche degli errori probabilmente a volte cercando, nel mio ruolo, di forzare delle scelte per rispettare la struttura. Per me la struttura era fondamentale. Con Mancini e Pirlo non si giocava per giocate memorizzate, ma in realtà col tempo, riguardandole con un altro occhio, mi sono accorto che alla fine la situazione non era troppo diversa: si trattava di giocate codificate legate alla risposta degli avversari, in qualche modo quindi memorizzate, quasi matematiche. Ero veramente convinto che questo ci desse dei vantaggi per vincere le partite, e probabilmente era così.
Il percorso che poi mi ha portato ad allontanarmi dal calcio posizionale è partito dal campo, dall’esperienza diretta. Col passare del tempo ho visto che avevamo sempre più difficoltà, sia con la Juventus, sia con la Nazionale dopo l'Europeo vinto, sia col Karagümrük in Turchia. Parlo di difficoltà tattiche. Il mio lavoro è sempre stato principalmente quello di analizzare l'avversario e cercare di proporre al mister come metterlo in difficoltà, rapportandomi ovviamente ai diversi allenatori con cui ho collaborato. Con Conte, per esempio, cercavo nell'avversario le modalità con cui avremmo potuto metterlo in difficoltà secondo la sua volontà di attaccare. Con Mancini e Pirlo, invece, cercavo di studiare la struttura difensiva avversaria per proporre una struttura offensiva idonea a quella partita. Con il tempo mi sono accorto che i vantaggi che avevamo nei mesi, negli anni precedenti, erano sempre meno, perché le squadre stavano cambiando il modo di difendere.
Secondo me, quello che ha cambiato il calcio negli ultimi 5/10 anni è stato questo prepotente ritorno a difendere sui riferimenti e non più sul reparto. Non mi riferisco solo al man-to-man del pressing alto, è chiaro che Gasperini gioca così da 15 anni e che già 15 anni fa soffrivi contro di lui se volevi fare un certo tipo di calcio. Ma ora sono sempre di più le squadre che applicano questi concetti e vengono a prenderti forte uomo contro uomo. Già solo questo implicherebbe che tu ti debba evolvere, perché un conto è giocare due volte l'anno contro una squadra che ti fa un man-to-man alto come succedeva un pò di anni fa, un conto è giocarci 10-12 partite per stagione visto i numerosi discepoli di Gasperini.
Ma vado oltre: il punto focale è che non solo queste squadre che ti fanno il pressing alto uomo contro uomo hanno cambiato il modo di difendere, ma anche le squadre che ti aspettano. Anche le squadre che ti aspettano hanno cambiato stile, andando sul riferimento.
Adesso, poi, quasi tutti giocano con un centrocampo a tre, che sia 3-5-2, 4-2-3-1 o 4-3-3. Quindi è sempre un tre contro tre, fatto di duelli tutta la partita, indipendentemente che tu stia pressando o aspettando.
Quindi hai trovato nell’approccio “relazionale” una risposta a questi problemi che ti sembravano sempre più difficili da risolvere nel tuo lavoro quotidiano?
Trovavo sempre più difficoltà, e alla risposta ci sono arrivato dopo mesi. C'è un'immagine del calcio posizionale, di Maurizio Viscidi, che lo descrive veramente bene. Un giorno Viscidi porta una slide a Coverciano e mostra un palazzo che sta per essere abbattuto con una demolizione controllata. Quando vuoi far crollare il palazzo su se stesso senza fare danni, studi dove piazzare gli esplosivi. E sostanzialmente è così anche il calcio posizionale: piazzi dei giocatori chiave all'interno della struttura difensiva avversaria in maniera tale da farla crollare. Se prendiamo il CARP (costruzione, ampiezza, rifinitura, profondità), vuol dire che per una difesa a quattro c'è pericolo a destra, pericolo a sinistra, pericolo davanti, pericolo dietro, e piano piano quella difesa crolla.
Come se fossero delle picconate.
Esatto, infatti vinci le partite anche molte volte nel secondo tempo, perché l’avversario non ce la fa più dopo un po', sia mentalmente che fisicamente. Però con il tempo ci accorgevamo che non c'era più quella cosa lì, non sapevamo più dove piazzare gli “esplosivi”, cioè i giocatori chiave, perché li seguivano a uomo. Non era più come prima, dove io studio la tua struttura difensiva posizionale, perché è una struttura difensiva spaziale. Se tu vuoi difendere degli spazi mi lasci altri spazi che io posso attaccare. Ma se tu non difendi più gli spazi e difendi gli uomini...
Faccio un esempio pratico, con l’Italia abbiamo fatto tutto l'Europeo vinto disponendoci 3-2-5 con la palla. Il quarto di finale contro il Belgio, per altro forse la partita più importante dell'Italia di Mancini perché, dopo tante partite senza sconfitta ci dicevano che quel sistema non avrebbe retto contro squadre più toste: giochiamo col Belgio e dominiamo nettamente. Col Belgio, tuttavia, non giochiamo 3-2-5, ma 3-rombo-3. Sembra un cambio da poco, ma cosa abbiamo fatto? Il Belgio difendeva 5-2-3 puro e i tre li lasciava abbastanza alti; quindi, Mancini ha deciso di portare Insigne non nello spazio di sinistra, ma sotto Immobile, da trequartista centrale. Barella non lo alziamo, lo teniamo da mezzala, e non abbassiamo Verratti, tenendo anche lui da mezzala. Quindi eravamo a tre dietro (Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini), tre a centrocampo (Jorginho con ai lati Barella e Verratti), Insigne trequarti, l'ampiezza data da Chiesa a destra e Spinazzola a sinistra, e Immobile punta.
Perché? Perché il 5-2-3 si incastrava perfettamente col 3-2-5. Se giochi 3-2-5 contro 5-2-3 gli vai “in bocca”: i tre attaccanti sono contro i tuoi tre difensori, i loro due mediani vengono forti contro i tuoi due play, i loro braccetti si allargano contro i tuoi due trequartisti, e sei uomo contro uomo. Puoi anche vincere la partita, ci mancherebbe, però non ti prendi vantaggi strategici. Il vantaggio strategico qual era? Noi giochiamo 3-rombo-3: chi esce sul play dei loro due centrocampisti? Chi continua a prendere le aperture che facevamo da una parte e dall'altra con Barella e Verratti?
L’idea del mister è stata di mettere in mezzo quei due centrocampisti, creare spazio per Insigne che nella posizione di trequarti, dritto con Immobile, diventava difficilissimo da prendere per un braccetto - in quel caso infatti un braccetto deve uscire in diagonale, e non è facile. Oppure deve scalare su Immobile e far uscire il centrale, che per caratteristiche non voleva uscire. E così ci siamo presi dei vantaggi.
Questo era il mio lavoro: cercare di capire che vantaggi posizionali prendersi rispetto alle strutture difensive avversarie, ma è il lavoro ancora adesso di chi applica quel calcio. L'altro giorno guardavo il Como: cambia struttura da partita in partita, a volte alza un terzino e tiene larga un'ala, a volte lascia tutte e due le ali alte e porta i terzini dentro. Perché lo fa? Perché studiando le strutture posizionali avversarie, studiano la struttura posizionale adatta a quella partita. È un lavoro che ancora si fa, ci mancherebbe altro. Ma la mia esperienza personale, limitata alle partite che ho dovuto preparare, mi diceva che questo lavoro era sempre più difficile. Non capivo all'inizio, non avevo la risposta. Era solo: non riesco più a fare quello che facevo e che pensavo di far bene. Proponevo dei posizionamenti e però non trovavamo gli spazi perché il difensore era già addosso al nostro trequartista, per esempio.
Passo alcuni mesi a interrogarmi, a dirmi: "Cavolo, ma sta cosa qua forse non funziona più come prima?". Per quanto ne rimanessi innamorato e convinto che fosse quello il modo per vincere. Poi durante questo periodo di riflessioni ci sono state diverse intuizioni di Mancini che mi hanno aiutato ad evolvere il mio pensiero. Fino ad arrivare all'intervista di Spalletti, quella famosa...
"Gli spazi non sono più tra le linee, gli spazi ora sono tra gli uomini".
E sai quando pensi una cosa e non riesci a dirla, e la dice qualcuno più geniale di te?
Una scintilla!
Io lì sento questa intervista e dico: "Basta, ma cosa sto cercando a fare gli spazi fra le linee? Come dice Spalletti, non ci sono più le linee, devo fare qualcos'altro adesso". E là confrontandomi con Mancini ed il resto dello staff inizio a elaborare qualcosa di diverso. Ho letto i lavori di Jamie Hamilton, fatto delle call con lui, e ho capito che qualcosa stava succedendo, o forse è sempre successo e io non lo vedevo. Penso di dover prendere qualcosa da questo lavoro, perché mi dà dei vantaggi rispetto a come stanno difendendo adesso le squadre. E da là elaboro una teoria, ripeto, non voglio essere arrogante, non penso di aver inventato nulla, solo cercando di guardare e prendendo spunto da tutti, anche dai tuoi articoli. Ho la fortuna di potermi confrontare con grandi professionisti come Mancini, il suo staff, molti colleghi miei amici, la scuola di Coverciano.
In fin dei conti siamo sempre tutti lì a ricevere stimoli, idee, da qualcuno per poi rielaborarli dandone altri a qualcun altro.
Sì, non tutti ragionano così, però chi vuole crescere sì. Guardando anche gli altri sport, per esempio l'NBA, dove c'è stata un'evoluzione clamorosa negli ultimi 20 anni con l'esplosione del tiro da tre e il midrange che sembra morire, poi sembra ritornare... guardando anche gli altri sport capisco che è questa tensione fra le difese e gli attacchi che crea l'evoluzione. Le difese difendevano a uomo. Poi arriva Arrigo Sacchi e dice: "Ma io mi sono rotto le scatole, adesso difendo lo spazio".
C'è un video che è proprio indicativo di quello che sto dicendo: il 4-1 di Carlos Alberto in finale contro di noi nel '70. Tu guardi quel gol, a un certo punto loro giocano palla a centrocampo, la palla va sulla sinistra e la riceve Jairzinho. Tu guarda chi lo sta marcando: lo sta marcando Facchetti, il nostro terzino sinistro. Siccome si giocava a uomo, Facchetti in quel momento è a destra che sta marcando Jairzinho, cioè l’ala destra brasiliana che si è spostata a sinistra (la destra nella difesa italiana). Jairzinho torna dentro per Pelé, Pelé fa la famosa pausa, arriva Carlos Alberto di corsa, tira, fa un bellissimo gol, 4-1. E lì manca totalmente il terzino perché aveva seguito a uomo Jairzinho dall'altra parte.
E allora, secondo me, ragionando su questo tipo di gol, ci sono stati allenatori, cito Arrigo Sacchi, ma ce ne sono stati altri, che hanno iniziato a dire: "Ma io perché devo portare il mio terzino sinistro dall'altra parte del campo e prendere questi gol senza neanche la possibilità di contrastare?". Hanno iniziato così a difendere lo spazio e hanno dominato.
Poi con il tempo qualcuno ha iniziato a dire: "Ok, allora tu difendi gli spazi, bene, io adesso studio il modo per attaccare quegli spazi". Così c'è stato l'inizio del calcio posizionale: Cruijff, Van Gaal, sublimato da Guardiola ma anche altri allenatori come Luis Ernique, Sousa in italia, De Zerbi, Mancini e così via. Tutti poi copiano Guardiola anche nei livelli inferiori, e così troppi allenatori giocano così. E più allenatori giocano così, più gli altri allenatori devono difendere contro quel modello lì e piano piano imparano, perdi le partite, stai lì, ragioni, pensi a come fare. E con l'esplosione dei modelli “a uomo”, diciamo Gasperini, la gente ha iniziato a dire: "ma io non difendo più gli spazi per lasciarti spazi tra le linee, inizio a difendere sugli uomini e marcarti ad uomo i trequartisti”. Ma se le difese cambiano, allora per forza di cose adesso dobbiamo cambiare nuovamente il modo di attaccare.
Sarà così, sarà un continuo ciclico. Quando e se il calcio relazionale, o i principi del calcio relazionale, fra qualche anno saranno veramente di moda e lo faranno quasi tutti, si ritornerà probabilmente a difendere lo spazio.
Conosco qualcuno in Serie A che l'anno scorso mi ha detto: "Sai che eravamo lì per 2-3 giorni a guardare i video del Bologna? Li facevo vedere al mio mister tutti i movimenti, dopo due giorni il mister mi ha detto: 'Oh, non ci sto a capire più nulla. Sai una cosa? Facciamo 4-4-2 e schermiamo, difendiamo gli spazi senza seguire l’uomo e tutte queste rotazioni'". Forse sarà così.
Infatti ora diverse squadre difendono con un blocco medio 4-2-4, ed è diventato anche più comune avere un atteggiamento ibrido anziché uomo su uomo contro alcune squadre, e questo è perché, come dici bene, il calcio è tutto un feedback loop, un ciclo di retroazione. Se io prendo delle scelte offensive in base ai tuoi comportamenti difensivi, e viceversa, è normale che poi ci si influenza a vicenda, e non si può restare fermi. L'idea che mi sono fatto io sul “successo” (tra virgolette successo perché ancora siamo in una fase embrionale) del discorso sul calcio relazionale è che si basa su due motivi principali.
Il primo è che da un lato porti delle risposte diverse riguardo alla gestione del possesso, improntate a una maggiore imprevedibilità, una cosa che può essere utile anche come propulsore per lo sviluppo di giocatori più creativi sul lungo periodo, perché dai più libertà di interpretazione e favorisci lo sviluppo del talento, soprattutto nel settore giovanile. Dall'altro lato, hai una nuova risposta tattica agli atteggiamenti difensivi contemporanei, non solo uomo su uomo, che sono sempre più diffusi, ma anche contro i blocchi (molto) bassi odierni che nascono in risposta al gioco di posizione, contro i quali può essere più utile creare dei sovraccarichi locali, forzare la progressione anche in situazioni di svantaggio apparente, senza stare a cercare l'uomo libero, a muovere la palla in orizzontale finché non appare l'uomo libero nella zona che ti interessava.
Oggi, anche a causa dell'atteggiamento difensivo che il calcio posizionale ha portato a diventare prevalente, cioè riassumendo la pressione alta uomo su uomo, ma anche la difesa estrema con blocchi molto bassi contro gli attacchi posizionali, le partite sono spesso in stallo. Anche le migliori squadre di calcio posizionale sembrano diventate meno efficaci a segnare tanti gol, forse perché devi muovere sempre la palla per muovere questo blocco che poi non ha certo intenzione di liberarti uno spazio interessante, ti lascia sempre liberi gli spazi periferici. Così, ti ritrovi a fare questo possesso da un lato all'altro e non riesci mai a forzare perché non ti interessa.
Poi, però, c'è anche un secondo motivo su cui vorrei farti una domanda: quando cambi approccio e inizi ad allenare una squadra mettendo da parte i punti di riferimento posizionali e abbracciando un'idea più relazionale, hai dei presupposti radicalmente diversi. In questa nuove cornice di pensiero si può trovare più libertà creativa anche per l’allenatore (o almeno per me è stato così, nel mio piccolo), per esempio nel disegnare le attività di allenamento, nell’interpretazione dei comportamenti emergenti dei giocatori, e quindi nella possibilità di interfacciarsi in modo più aperto a cose che magari non avevi previsto, che prima ti avrebbero disturbato perché mettevano in dubbio “il modello”, e adesso invece puoi vederle come delle opportunità per cambiare, per trovare riferimenti nuovi. Anche se potrebbe sembrare un approccio che delega troppo ai giocatori, in realtà l'allenatore è fondamentale. Quindi ti voglio chiedere: secondo te, in questo senso, come pensi che può essere inteso il ruolo dell'allenatore?
Sono d'accordo con tutto quello che hai detto, dallo stimolare la creatività sia in prima squadra che nel settore giovanile al forzare le giocate contro i blocchi bassi. L'altra cosa fondamentale che dicevi è sui comportamenti emergenti e in generale sulle caratteristiche dei giocatori.
Per esempio, io ho fatto un'altra presentazione a Coverciano sull'evoluzione dei ruoli, no? Dagli specialisti nel calcio degli anni '70-'80, in cui facevi solo quello... eri il terzino fluidificante, eri il terzino bloccato... ai calciatori “pedina” negli anni 90-2000 che venivano incastrati nel 4-4-2, forzandoli anche nelle caratteristiche, o addirittura escludendoli, come i numeri 10, no? Perché non erano compatibili. Fino ad arrivare al 3-5-2, in cui alcune mezz’ali non potevano giocare perché non facevano gli inserimenti: “Quella è una mezzala di possesso, non è una mezzala come Lampard”. Li vedevamo come pedine, i giocatori. Siamo arrivati poi ai giocatori “funzionali” negli ultimi 10 anni che in questi sistemi più fluidi, con le rotazioni, sono stati e sono sfruttati secondo le loro caratteristiche ma, in realtà, anche se c'è una maggiore flessibilità, sono comunque in parte forzati, i giocatori, finché si dà priorità alla struttura, al tuo 3-2-5, qualche giocatore lo “forzi”, necessariamente. A meno che non costruisci una squadra da zero, compri i giocatori giusti per riuscire a fare il tuo 3-2-5. Ma anche in quel caso sarebbero in qualche modo vincolati.
Riuscire a renderli più liberi, a vedere i talenti emergenti, le caratteristiche emergenti da sfruttare e non più da reprimere, è un grande passo in avanti verso un ritorno a uno sfruttamento funzionale delle caratteristiche dei giocatori. Il punto qual è? Che molti allenatori pensano che questo tolga importanza al loro ruolo. "Se io non gli devo dire più dove andare, se non gli dico più che giocata deve fare, se adesso mi stai dicendo che non gli devo neanche più dire la posizione che deve tenere, che alleno a fare io?". E invece non solo tu stai allenando e alleni ancora, ma hai fatto anche un passaggio oltre, perché quello che facevi prima era quasi per te stesso, è una mania di controllo che serve soprattutto agli allenatori, più che alle squadre.
Siccome la partita è instabile, è incertezza, avere la presunzione o la speranza che i giocatori stiano nelle posizioni che tu pensi ti dia dei vantaggi ti fa approcciare alla partita con più sicurezza, ma è una sicurezza tua, interna, un modo per rassicurarti. È qui il vero cambiamento: capire che dare questa delega non ti toglie nulla, data l’incertezza totale della partita. Soprattutto in alcuni contesti, può capitare che non le rispettino lo stesso, le posizioni, e tu passi il tempo a incazzarti e a rimandarli verso le posizioni che, secondo te, sono giuste, togliendo cosa? Flow, fiducia, e non seguendo quello che la partita ti sta dicendo.
È chiaro che questo è un passaggio difficile da accettare. Chi ci crescerà con questo nuovo modo di intendere, che poi è un vecchio modo di intendere se vogliamo, avrà meno problemi. Chi allena da un po' di anni, abituato alle sue certezze, deve avere una grande predisposizione per poter fare questo passaggio.
A proposito: stai pensando al grande salto? Nel caso, immaginandoti allenatore, da un punto di vista pratico, avresti già delle idee su come allenare tu una squadra secondo questa visione? Come organizzeresti la tua metodologia, anche rifuggendo dall’idea monolitica di “modello di gioco”, ma tenendo saldi dei principi metodologici.
Magari in futuro, mi piacerebbe, vediamo. Dal punto di vista metodologico, secondo me vanno cambiati molti paradigmi. Partendo dai giochi di posizione e dai rondo, di cui io sono stato e per certi versi sono ancora un grande sostenitore, bisogna passare a “giochi di non posizione”, a rondo più liberi in cui non devi tenere la posizione, ma hai gli stessi concetti.
Il rondo fra l’altro è mantenimento del possesso e riaggressione quando si perde la palla. Questi due macro-principi rimangono gli stessi, però gli stimoli saranno diversi, con una non posizione da rispettare e un non lato dove stare, cose che invece ci sarebbero nel rondo. Soprattutto, bisogna poi passare a partite a tema, con spazi, giocatori, temi modificati in base agli obiettivi. I vantaggi sono molteplici: uno, per far emergere le caratteristiche, i talenti; due, per migliorare le associazioni e le relazioni; terzo per allenare i miei principi, i comportamenti individuali e collettivi che vorrei vedere in partita.
Se un allenatore pensa che questo sia una diminuzione del suo ruolo, è miope. È una sfida complessa e affascinante. È chiaro che è più facile fare l'11 contro 0, ti dico dove devi stare, o anche nella partitella mettere una squadra con il modulo che penso che useranno gli avversari, e mettere i miei dove, secondo me, avrò dei vantaggi. È più facile e appagante, perché l'esercitazione riesce meglio.
Questa è un'altra cosa da indagare. Spesso rimaniamo delusi se l'esercitazione non riesce. Vogliamo che l’esercitazione riesca. Ma diversi studi ci dimostrano come l'apprendimento sia fatto anche se non soprattutto da errori. Perché dunque devo rimanere deluso sugli errori nelle esercitazioni? Sono proprio quelli che probabilmente permetteranno l'apprendimento. Tu, per esempio, hai scritto diversi articoli su questo.
Da genitore lo vedo anche con le mie figlie, una di cinque anni, una di due, e una più grande, di 15. È evidente imparino attraverso l'errore. Invece noi nelle esercitazioni non lo accettiamo generalmente: dopo i primi errori solitamente cambiamo gli spazi, fischiamo, cambiamo l'esercitazione. Bisognerebbe avere più pazienza e fiducia.
Non sto parlando dei miei allenatori, sto parlando in generale. Con Coverciano ho la fortuna di girare, di andare a vedere tantissimi allenatori. Approfondendo il punto di vista metodologico spesso vedo allenatori e collaboratori bravissimi allenare la costruzione dal basso guidando le pressioni avversarie (effettuate in allenamento dalle proprie “riserve”) in maniera precisa.
La squadra “riserve” guidata spesso dai collaboratori si muove come loro credono che si muoveranno gli avversari la domenica. L'allenatore guida la sua squadra e costruiscono, rifiniscono in base agli spazi che pensano ci saranno la domenica.
A me piace un approccio diverso: non guiderei le pressione in maniera così meccanizzata perché non ho la certezza delle pressioni che faranno la domenica. Se io ti alleno a delle pressioni che poi non ci saranno, ti dico che saranno quelle le pressioni, saranno quelli gli spazi che ci saranno, e poi la domenica non ci sono non solo ho perso tempo ma ho anche creato un deficit emotivo e mentale nei giocatori, che poi diranno: “E adesso che facciamo?". Come ho scritto nella mia tesi sul pressing: più preparo e meno sono preparato alla fine. E questo l'ho vissuto sul campo anche se ovviamente non è facile e io stesso non so se l'ho imparato fino in fondo.
Beh, forse è più sensato pensare che non ci sia una vera e propria transizione definitiva, ma piuttosto una contaminazione necessaria, che poi si consolida più verso un aspetto o un altro. Io penso che il gioco di posizione abbia avuto questo grande successo perché quello che c'era prima a livello offensivo era insoddisfacente. C'era magari abbastanza libertà di azione concessa ai giocatori offensivi, però non c’era niente di particolarmente strutturato in maniera organica. Nella maggior parte dei casi, quindi, c’era un gioco insufficiente a livello offensivo, anche nelle grandi squadre. Quello che ha portato il gioco di posizione ci ha portato a vedere giocatori di alto livello che potevano avere il pallone tante volte, potevano provare la giocata più volte. Era una imposizione sul gioco offensivo più quantitativa, che ha portato dei vantaggi evidenti che si sono diffusi immediatamente. Dall'altro lato, però, presi dalla sbornia non abbiamo considerato che stavamo ignorando altre opzioni offensive, e lo abbiamo fatto diventare un paradigma assoluto, unico, egemonico. E questo ha portato a tutte le incongruenze di cui hai parlato.
Per esempio, io che ho fatto della consapevolezza dell’imprevedibilità del gioco e dell'importanza della relazione degli elementi fondamentali nei miei ragionamenti tecnici, fin dai primi anni da allenatore mi sono trovato man mano sempre più in difficoltà ad “applicare” il gioco di posizione rimanendo coerente con questi principi per le ragioni che hai detto tu: per farlo funzionare bene devi codificare parecchio, devi limitare le possibilità di azione, anche se sembrano limiti meno stringenti rispetto a un gioco fatto di schemi e giocate mnemoniche al buio.
Poi sia chiaro, ci sono modi di allenare un calcio posizionale che sono più funzionali all'imprevedibilità del gioco e altri meno. Non è che non si possa abbracciare il gioco di posizione essendo consci della non linearità del gioco, perché ci sono allenatori che lo sanno fare, a tutti i livelli. Lo stesso Juanma Lillo ne ha parlato ampiamente.
Infatti lo vedi applicato in maniera più fluida e meno fluida.
Sì, esatto. Volevo proprio parlarti di contaminazioni. Il gioco di posizione ti dà dei vantaggi a livello di occupazione degli spazi, per trovare le zone che possono far male all'avversario, però ignora altri tipi di azione, per esempio: progredire in inferiorità numerica, forzare una giocata in inferiorità o parità numerica, combinazioni più veloci e irregolari in spazi piccoli, anche con la palla, non per forza rasoterra, ricezioni con posture chiuse, raggiungere zone anche molto lontane dal proprio ruolo nominale così da potersi associare, se ciò diventa funzionale.
Come abbiamo accennato, l’egemonia del gioco di posizione e le relative contromisure difensive danno vita a queste partite abbastanza passive, dal ritmo basso, prevedibili, perché il gioco di posizione ha degli sviluppi che portano la squadra che ha la palla a muoverla finché non trova lo spazio eletto, l’uomo libero, e quella difensiva a concedere questa superiorità numerica ricercata dal gioco di posizione in zone periferiche, meno pericolose.
Nell’approccio relazionale questi aspetti si cerca limitarli attraverso l’imprevedibilità, sia nelle azioni in inferiorità numerica, sia nei movimenti fuori zona, sia con sovraccarichi meno leggibili. Abbiamo così trovato dei punti ciechi, delle cose che non venivano, che non sono molto considerate nel gioco di posizione, che ha altre priorità.
Quindi, se il gioco di posizione dà delle risposte e il gioco di relazione ne dà altre, ora vorremmo arrivare a un punto in cui mettiamo insieme i pregi delle due cose. La priorità è intanto identificare le differenze fondamentali tra i due approcci. Paradossalmente, comprendere l'approccio relazionale mi ha fatto capire anche molto meglio quello di posizione, per assurdo proprio quando stava iniziando a interessarmi di meno. Ci sono delle differenze fondamentali, per cui per metterle insieme devi ballare tra due estremi. Faccio degli esempi.
Nel gioco di posizione io gioco per progredire dove l'avversario non c’è, devo trovare l'uomo libero, se l'avversario scivola sul lato palla io cambio gioco e vado dall'altra parte. Se ci marcano a uomo, cerco di prendere il campo in tutta la sua ampiezza e profondità, aprirmi il più possibile, così ci sono distanze più ampie tra i difendenti, e divento più diretto. Nel gioco di relazione invece giochiamo incontro al pallone, diamo sostegno al portatore; quindi, anche se l'avversario viene sul lato palla, noi rimaniamo lì, non andiamo dall'altra parte, non facciamo il cambio gioco, al massimo torniamo indietro e insistiamo sullo stesso lato. Se ci marcano a uomo, non ci allontaniamo per spostare gli avversari, ma giochiamo attraverso, dentro, i corpi, sfruttando un ampio ventaglio di possibilità tecniche: è proprio opposto l'approccio.
Nel gioco di posizione si passa all'uomo libero (la palla va alla posizione), nel gioco di relazione si va incontro a chi ha la palla. Nel gioco di posizione devi trovare posizioni predeterminate che l'avversario non può difendere in base alla sua struttura, nel gioco di relazione cambi la tua collocazione in modo irregolare, così che l'avversario non ti possa leggere e marcare bene. Nel gioco di posizione, insomma, è la struttura che determina le opzioni, mentre nel gioco di relazione sono le opzioni che determinano la struttura, che poi diventa una cosa secondaria.
In tutte queste differenze, quello che mi piacerebbe fare è mixare gli aspetti positivi di tutte e due le cose. Chiaro: nella pratica non ci sono squadre che sono al 100% posizionali o al 100% relazionali, ma piuttosto tendono in linea di massima verso uno degli estremi, mantenendo volontariamente o meno elementi di uno nell'altro e viceversa. Insomma, la dicotomia pura è solo teorica. Ma considerate però le differenze radicali pratiche di cui abbiamo parlato, quali sono le tue idee per tenere insieme un approccio che contenga risposte da parte di entrambi gli stili?
È un po' l’argomento dell’articolo che ho scritto con Francesco Bordin per il Settore Tecnico. Questa contrapposizione nella realtà non è così netta. Squadre che applicano un calcio posizionale hanno più o meno fluidità, hanno più o meno giocatori associativi o relazionali, e squadre che applicano un calcio più relazionale di sicuro non sono totalmente a-posizionali. Forse il Fluminense di Fernando Diniz è stato l'estremo, no? Ma anche squadre più importanti, due squadre vincenti del calcio relazionale come il Real Madrid di Ancelotti e l'Argentina di Scaloni, non possiamo chiamarle a-posizionali ovviamente.
Questa contrapposizione netta nella realtà non c'è, anche se c'è stato lo scontro City-Fluminense, che dal punto di vista giornalistico può ricordare questo confronto tra estremi, ma i due approcci possono sovrapporsi. La mia idea, una cosa che ho visto fare a poche squadre e che provo a proporre da collaboratore, è questa struttura posizionale composta da 5 o 6 giocatori con all’interno dei giocatori (i restanti 4 o 5) maggiormente relazionali e fluidi. La struttura posizionale serve a dare comunque una stabilità, un ordine alla squadra, per avere dei riferimenti utili in tutte e due le fasi. Lo descriviamo nel dettaglio nell’articolo in questione.
Finché costruisco ho dei riferimenti su cui appoggiarmi, come li ho quando perdo il pallone, no? Per essere pronto sulle transizioni, perché poi una grande sfida di questo approccio è sicuramente la gestione del momento della perdita del pallone. Lo è anche per il calcio posizionale, ma per il calcio relazionale lo diventa ancora di più. De Rossi per esempio poco tempo fa ha detto: «Ci siamo accorti attraverso un dato che siamo fra i peggiori squadre della Serie A nel momento della perdita del pallone, cioè, siamo fra le squadre che subiscono più tiri. È chiaro che, se stiamo cercando di avere una bella fluidità in attacco, questa fluidità la possiamo pagare nel momento della perdita».
Insomma, questo disordine che io cerco, che serve per disordinare gli avversari, diventa poi un mio disordine nel momento in cui ho perso il pallone. Ecco perché noi abbiamo pensato a una struttura che mixa le due cose per avere un minimo di struttura in tutte e due le fasi; dunque, nella fase in cui ho il pallone ho dei riferimenti certi, e nella fase di perdita del pallone ho un minimo di struttura che mi regga le transizioni negative. Questa struttura è composta da dei giocatori che noi abbiamo chiamato perimetrali, perché spesso è una struttura che delimita il perimetro, anche se poi in realtà un giocatore posizionale può stare anche al centro della struttura.
Dunque, una volta stabiliti alcuni giocatori posizionali, non per forza perimetrali, all'interno di questa struttura predeterminata, lasciamo liberi dei giocatori di associarsi vicino alla palla, di abbassarsi, di muoversi, di fare attacchi alla linea, di fare tutta una serie di movimenti e di creare delle relazioni, delle associazioni fra di loro. Questa è un po' l'idea di base che noi abbiamo pensato nell’articolo. Ci sono dunque ancora molti concetti del calcio posizionale, anche se forse la più grande eredità che noi vorremmo tenere, che ci piacerebbe tenere dal calcio posizionale e che invece non c'è in molte squadre con un approccio più relazionale è l'ampiezza opposta. Perché crediamo che l'ampiezza opposta abbia dei vantaggi di cui non vogliamo privarci. Magari non più un'ampiezza opposta per andare a creare il due contro uno matematico, come nel 3-2-5 posizionale soprattutto contro la difesa a 4, ma comunque un riferimento in ampiezza opposta che abbia lo stesso approccio del calcio posizionale.
Parliamo di stabilire cosa nella tua squadra diventa sistematico, strutturale, e cosa invece diventa relazionale, emergente. Una buona soluzione è quella che suggerisci tu: giocatori perimetrali; quindi quelli esterni che sono un po' più posizionali, con le eccezioni del caso, mentre magari all'interno c'è più libertà di movimento e di interpretazione. Però una squadra che mi viene in mente che faceva delle cose simili già diversi anni fa prima che si parlasse di queste cose, in un’ottica posizionale, è stata l'Ajax di Ten Hag. C'è un video famoso di Ten Hag che spiegava come loro andassero a prendere l'ampiezza “relativa”, non di ampiezza massima. C’è tanta roba in quel concetto lì anche dal punto di vista dell’approccio posizionale, perché basta dare al giocatore riferimento del tenersi largo quanto basta, così che tu possa avere sia una funzione in riaggressione che una funzione di “fissaggio” dell'avversario, che nel gioco di posizione è fondamentale. Hai anche un avvicinamento allo sviluppo dell'azione che può consentire delle combinazioni più rapide e corte con compagni nominalmente “lontani” nella struttura. In questo senso forse stiamo parlando di una squadra pionieristica.
Se ci pensi un po' questa cosa del lato debole è quello che ha fatto il Real Madrid l'anno scorso con Valverde e Carvajal, perché il Real Madrid giocava a rombo e “collassava” spesso a sinistra con Vinicius, Bellingham ed anche Rodrygo e non aveva un giocatore fisso in ampiezza opposta, ma attaccava il lato opposto in maniera dinamica con Carvajal e Valverde. Questo è quello che a me piacerebbe raggiungere. Oppure anche, dipende dalle caratteristiche, averlo già lì: se ho un Chiesa tenerlo comunque in ampiezza opposta per andarlo poi a cercare. Questa è un po' l'eredità che mi porto dietro dal calcio posizionale, oltre a tanti altri principi, al terzo uomo, a giocare corto, a salire tutti in insieme. È chiaro che ci sono tante cose che non vanno buttate, ci mancherebbe altro.
Nello stesso articolo poi facevamo anche delle proposte metodologiche, per esempio un “rondo switch”, cioè un quattro contro due da una parte in un campo diviso in due settori, con un giocatore dall'altra, dopo tot passaggi si può andare nel settore opposto, ricostruendo il quattro contro due dall'altra parte, enfatizzando il movimento verso il lato palla.
Abbiamo proposto anche un “rondo struttura” che è esattamente quello di cui abbiamo parlato, cioè dei giocatori perimetrali che sono dei jolly. Dunque, nel caso del 3-5-2, 3-5-1-1 i tre centrali, i due quinti e la punta che sono dei jolly e dentro i quattro giocatori di movimento, il play, le due mezz’ali e il trequarti che giocano quattro contro quattro. Dentro si muovono, si associano e si appoggiano ai giocatori di struttura, che fungono da appoggio, mentre dentro ci si deve muovere, combinare, smarcare e così via. Sono solo alcuni esempi di come si possano mixare i due stili in allenamento.
Credo che se pensiamo a una struttura ibrida tra i due stili in cui “eleggiamo” dei giocatori “posizionali” e dei giocatori “relazionali”, per capire chi possa rivestire quale funzione, non possiamo prescindere da un lavoro di identificazione di dinamiche associative funzionali ed efficaci, e dunque dallo studio delle interazioni emergenti tra i giocatori. In parole povere, alla fine si torna sempre a scegliere i giocatori giusti per sviluppare connessioni che facciano giocare meglio la squadra. In questo caso, seguendo un approccio bottom-up, cioè, creando una struttura di riferimento, per quanto ibrida, partendo comunque dalle interpretazioni dei giocatori. Il massimo sarebbe costruire una squadra che abbia una consapevolezza contemporanea in tutti i propri effettivi sul quando privilegiare la posizione e quando l’azione spontanea. Cioè i due punti di partenza distinti, le due priorità che davvero differenziano gli approcci.
Esatto, però c’è ancora qualcuno che sostiene che non si possa parlare di calcio relazionale perché le relazioni ci sono anche nel calcio posizionale. Ma questo è scontato! Il calcio è fatto di relazioni! Ma quello che conta è il focus. Un conto è partire dalle posizioni e sviluppare relazioni, che è quello che succede nel calcio posizionale, e che in fin dei conti succedeva anche prima, perché anche squadre che non applicano il calcio posizionale possono essere malate di posizionismo, cioè anche squadre che non giocano il 3-2-5 e fanno un 4-4-2 vecchio stampo, è posizionismo quello….
Certo, finché leghi ai ruoli delle funzioni fisse e limiti così interpretazioni e interazioni...
Perfetto, dunque la differenza è: chi allena mettendo il focus sulla posizione per poi magari sviluppare anche delle relazioni (bisogna poi vedere quanto allenate, accentuate o naturali), partendo però di base dalla posizione; e chi invece parte dalle relazioni, dalle caratteristiche e interpretazioni dei giocatori tenendo la posizione in secondo piano.
A Coverciano di solito facciamo vedere proprio la contrapposizione tra il video di Guardiola che dice: «Tutti devono stare in posizione, è la palla che va alla posizione e non il contrario». E quello di Ancelotti che dice: "Ma se Vinicius e Rodrygo, anche se giochiamo col 4-3-1-2, si trovano meglio a stare aperti, ma perché io gli devo dire: stiamo giocando con due punte, dovete stare centrali? Li lascio aprire». Capisci che è un approccio completamente diverso. Non puoi dire che è la stessa cosa.
Infatti un conto è sostenere che non ci siano differenze, che è una cosa falsa, un altro avere dei dubbi sulla terminologia che si utilizza. Ce li ho avuti anch'io, ma poi mi sono arreso, perché alla fine conta capirsi: se la gente ha iniziato a parlare di calcio relazionale in maniera diffusa, allora lo chiamo anche io così, perché non credo sia troppo importante formalizzarsi sul termine, pur comprendendone i limiti.
Se vedi che nel mio primo articolo io scrivo calcio a-posizionale, funzionale e relazionale perché non so come chiamarlo, cioè...
E io invece ho provato a chiamarlo calcio di approssimazione, di avvicinamento, di interazione... però, cioè, basta, finita lì, non è importante fare battaglie lessicali. Certo è più grave non riconoscere le differenze.
Allora, chiamiamolo così perché almeno comunque una breccia c’è stata, non sarà il nome migliore del mondo, amen. Però almeno se n’è iniziato a parlare, anche in Italia.
Sì, certo, è inevitabile. Le idee circolano. In fondo, poi, è lo stesso modo con cui si è affermato e radicato il gioco di posizione dopotutto, no? Qualcuno lo nota, se ne parla, ci si accorge che in un determinato posto, in quel caso la Spagna, è così radicata questa cultura che è proprio venuta fuori una vera e propria scuola metodologica, con tutti i pregi e i difetti che può avere questa cosa, ci si contamina e poi ci si confronta, diventa un processo collettivo. Quando un problema è affrontato da tante persone è inevitabile che si salga a un livello superiore di comprensione.
C'è ormai una conoscenza talmente capillare del gioco di posizione, che poi è travasata anche nelle analisi, che siano articoli o analisi professionali, c'è un livello talmente alto che in confronto quello sul calcio relazionale è ancora poca roba. E così si corre il rischio che, analizzando una squadra che fa un calcio più di relazione che di posizione, ma leggendola con dei presupposti opposti, magari si noteranno alcune criticità di quella squadra, però non si comprenderanno i vantaggi, il criterio, secondo me.
Per esempio, una cosa che ho fatto anch'io per tanti anni, ma che oggi trovo a dir poco fuorviante è l’analisi cieca delle heatmap, delle passmap, più le seconde che le prime... insomma, utilizzare questi dati puramente posizionali conferendogli un valore significativo in assoluto. Non è mica obbligatorio ricercare queste reti di passaggi simmetriche, distribuite in modo euclideo... Se nel tuo modello di gioco vuoi ricercare quella cosa lì, va benissimo, allora possono essere un metro. Però non si può neanche utilizzarle per criticare o porre come un problema chi magari in queste mappe ha una distribuzione irregolare o sovraccaricata da un lato, perché semplicemente ha dei presupposti concettuali differenti e non gli interessa proprio.
Sì, sì, c’è gente che dice: "Eh ma questi non sanno giocare, non sono allenati perché questa squadra attacca solo a sinistra, non va bene...". Un paio di mesi fa riflettevo e pensavo: “Se a fine partita siamo stati simmetrici, non è che ci danno un premio, eh, cioè non è che ci regalano un gol". Io sono simmetrico finché mi porta un vantaggio, ma se non mi porta più nessun vantaggio, torniamo sempre là, l’obiettivo è vincere la partita, quindi…
A tal proposito, una riflessione molto puntuale che ho sentito da Martin Rafelt (co-fondatore del sito di tattica tedesco Spielverlagerung ed ex assistente allenatore dell'Hajduk Spalato B) è: "Tu non vinci le partite perché hai una buona struttura, semmai le vinci a partire da quella”.
Così come giocare solo per azioni spontanee senza un linguaggio comune di base può portare a un caos negativo (e non al disordine creativo), anche giocare troppo legati alla struttura di riferimento può portare a una mancanza di azioni spontanee e problem solving creativo.
Il futuro del calcio probabilmente non sarà completamente posizionale o completamente relazionale, così come non lo è neanche adesso, e in fondo non lo è mai stato (tante delle migliori squadre di sempre hanno avuto evidenti aspetti di entrambe le “scuole”, seppur per ragioni diverse). Però una consapevolezza diffusa e uno spirito critico acceso ci aiutano a vedere problemi diversi, da angoli diversi, trovando soluzioni diverse. Nel gioco di contrapposizione e invasione per eccellenza che è il calcio, queste fasi di riflessione collettiva diventano preziosi momenti di ricerca e comprensione, per abbattere i vecchi dogmi cercando di non finire solo per crearne di nuovi.