“La matematica, tra le altre cose, insegna l'accanimento contro le conseguenze, e il rigore nel seguire la via che abbiamo arbitrariamente scelto”.
Inserendo tattica al posto di matematica, questa considerazione di Paul Valéry racchiude il senso profondo degli Europei 2016. Anche in un calcio, quello delle Nazionali, considerato da sempre il regno delle individualità, sempre più schiacciato dagli impegni dei club, in cui gli allenamenti servono solo per stabilire dei princìpi di gioco minimi, il peso del singolo sta cominciando a scemare, o forse sono aumentate le nostre aspettative.
Sta di fatto che questo torneo ha rappresentato un esame per gli allenatori: l’esigenza tattica è stata più alta del solito, e in molti hanno fallito. Alla fine, a contare è stato un insieme di fattori, tra cui il tabellone, con le due finaliste mai davvero convincenti per proposta calcistica: eppure anche in finale si è vista l’importanza di un allenatore in grado di gestire le mosse sulla scacchiera, di saperla controllare sia nell’istante preciso che nell’arco dei 120 minuti.
Dall’ultimo al primo, ecco il power ranking degli allenatori di Euro 2016.
24. Marc Wilmots (Belgio)
Se volete una ricetta per gestire male il talento, Wilmots ce l’ha. Con la migliore generazione nella storia calcistica del Belgio è riuscito a regalarci una squadra sempre in difficoltà, incapace di difendere in profondità, in costante difficoltà sulle fasce e nella circolazione del pallone: praticamente a suo agio solo a campo aperto (cioè quasi mai). Si era già capito tutto quando aveva diramato la lista dei convocati: solo 4 centrocampisti e 4-2-3-1 obbligato. Poi Wilmots ha proseguito nella sua incapacità, non riuscendo a interpretare le varie fasi di gioco e affidandosi al solito deprimente cambio: Fellaini in campo per azionare il meccanismo lancio lungo – seconda palla. Ma farlo entrare contro il Galles, che si chiudeva perfettamente in zona centrale, al posto di un’ala come Carrasco, è stato un colpo geniale che ha determinato l’eliminazione. Wilmots è stato anche Senatore in Belgio e in fondo si può dire che è il Massimo Mauro belga: meglio con un microfono che in panchina.
23. Roy Hodgson (Inghilterra)
L’ennesimo grande torneo buttato dalla finestra per l’Inghilterra, che per purificarsi si era affidata a uno dei pochissimi allenatori inglesi con una significativa esperienza all’estero (Svezia, Svizzera, Italia, Finlandia, Emirati Arabi). Roy Hodgson aveva deciso di puntare sul blocco Tottenham (ben 5 titolari), sfruttando le capacità di Pochettino nel far crescere i giovani: ma poi anche un gruppo del genere va inserito in un contesto, e quello della Nazionale inglese era come una montagna di gelatina. I giovani si sono dissolti, il caos ha trionfato e il gol dell’unica vittoria (contro il Galles) sembra da manuale del rugby. L’uso di Rooney da mezzala-regista grida ancora vendetta, con le sue salide lavolpiane disperate e i suoi passaggi orizzontali già derisi da Mourinho. All’Inghilterra non mancava nulla a livello offensivo (qualità tra le linee, velocità, profondità, gol) ed è sembrato mancare tutto.
La sconfitta contro l’Islanda chiude il cerchio della grande illusione inglese di sapere tutto sul calcio: gli è rimasta solo la speranza di un Guardiola capace di diffondere il verbo.
22. Leonid Slutski (Russia)
Un disastro annunciato, come guidare contromano in autostrada: Slutski, perché l’hai fatto? Falcidiata dagli infortuni, la Russia aveva una sola possibilità: ringiovanire la rosa per usare l’Europeo come palestra di crescita per i Mondiali casalinghi del 2018. Invece, l’allenatore del CSKA Mosca si è affidato ai soliti noti, e senza neppure lo straccio di un’idea di gioco, al di là di qualche combinazione in fascia e degli interminabili lanci lunghi per Dzyuba, oltre a quelli nel vuoto di Ignashevich. La squadra peggiore, da un punto di vista di produzione calcistica, di tutto il torneo: e ce ne voleva.
21. Mykhaylo Fomenko (Ucraina)
L’Ucraina è la delusione passata più inosservata di questi Europei: ultima nel girone, unica squadra che è riuscita a perdere contro l’Irlanda del Nord. Con una coppia di ali tra le migliori del torneo, Konoplyanka-Yarmolenko, non ha segnato neppure un gol; aggiungete anche il giovane trequartista Zinchenko, appena voluto da Guardiola al City, per capire la dispersione di qualità. Come le piante in balcone durante le vacanze, Fomenko è riuscito ad appassire il talento ucraino.
20. Marcel Koller (Austria)
Poteva essere un grande outsider degli Europei, se ne va invece da grande enigma, arrivando ultima in un girone in cui bastavano tre pareggi: l’Austria è sembrata anonima, una pallida fotocopia rispetto alla squadra che aveva dominato il girone di qualificazione (adesso sappiamo che era sostanzialmente per demeriti altrui: le concorrenti erano Russia e Svezia).
Koller abbandona il torneo con la chicca di Alaba falso nove contro l’Islanda: i continui spostamenti del talento del Bayern riflettono la confusione dell’Austria. D’ora in poi il test di Rorschach sarà sostituito dal test di Koller: “che cosa ci vedi in questo Alaba”?
19. Erik Hamrén (Svezia)
La Svezia non si è proprio presentata agli Europei: maggior numero di lanci lunghi (una media folle di 76 a partita), secondo minor numero di tiri verso lo specchio, minor numero di tiri in porta (solo 4 in 3 partite), l’unico gol segnato è un autogol, Ibra nullificato e incapace di tirare verso la porta (solo 1 tiro nello specchio) a causa del continuo abbassamento a centrocampo. Hamren non ha saputo valorizzare neppure il blocco dell’Under 21, che due anni fa vinse l’Europeo in finale contro il Portogallo (che da quella squadra ha preso ben 3 titolari). Dopo 6 anni di risultati modesti, è ora di un cambio alla guida della Svezia.
18. Pavel Vrba (Repubblica Ceca)
Non aveva tanto materiale da gestire, tanto che Rosicky è ancora il punto di riferimento per la creazione offensiva, e a tale basso input è corrisposto un altrettanto scarso output. Senza la follia degli ultras croati e l’infortunio di Modric, la Repubblica Ceca le avrebbe perse tutte. Almeno, nel pareggio per 2-2 contro i croati, a Vrba va riconosciuto il merito di aver cambiato l’inerzia con l’ingresso contemporaneo di Skoda e Sural: insomma non è stata tutta colpa dell’allenatore.
17. Fatih Terim (Turchia)
Il solito Terim: grandissimo motivatore, buon assemblatore, modesto tattico. Da un centrocampo di grande qualità (Turan, Calhanoglu e Özyakup) la Turchia è riuscita a ottenere poco e niente: posizioni confuse, spesso ad accavallarsi nella zona del pallone come nelle partite dei bambini. Per avviare a questo problema, si è passati anche ai lanci lunghi per Tosun: e contro la Croazia dei giganteschi centrali non è stata una grande mossa. Terim si è lasciato triturare dalla Spagna come se non avesse mai visto una partita delle Furie Rosse negli ultimi 8 anni. In un torneo così equilibrato, quel talento poteva essere usato meglio: per non arrivare agli ottavi bisognava impegnarsi molto.
16. Anghel Iordanescu (Romania)
Densità nella zona della palla per riconquistare il possesso (o sporcare l’azione avversaria), ricerca costante del lancio lungo per attaccare le seconde palle, cambi di gioco sul lato debole, ripetizione nauseante di questi meccanismi: agli ottavi sono arrivate squadre con minore preparazione tattica. Iordanescu è un buon selezionatore, molto esperto e abile nello studiare l’avversario: gli sono mancati i giocatori.
15. Jan Kozak (Slovacchia)
Il 4-1-4-1 della Slovacchia aveva tanta fisicità ma poca tecnica: la costante difesa della metà campo in zona centrale ha permesso a Kozak di mantenere almeno dei discreti equilibri difensivi, ma la proposta di gioco è stata modesta. Senza le grandi prestazioni di Hamsik, probabilmente non ci saremmo neppure accorti della Slovacchia.
14. Vicente Del Bosque (Spagna)
Il torneo della Spagna è la classica birra di troppo di cui gli amici ti avevano già avvertito: Del Bosque è rimasto intrappolato nell’idea che il ciclo spagnolo non fosse finito e che il rinnovamento dovesse essere gentile, non rivoluzionario. Dopo un inizio sfavillante, in cui i meccanismi del calcio associativo sembravano nuovamente risplendere nella Roja, le transizioni croate hanno minato le certezze. Poi nella sfida contro l’Italia, Del Bosque ha reso evidente la differenza tra un grande selezionatore come lui e un grande allenatore come Conte: l’Italia ha incartato la proposta spagnola come un cartoccio con un bel fritto di pesce. Ironia della sorte ha voluto che l’Italia superasse la Spagna addirittura nell’esecuzione del gioco posizionale: è sempre difficile capire quand’è il momento di lasciare, Del Bosque ha sbagliato di due anni.
13. Bernd Storck (Ungheria)
Una partenza a razzo con il 2-0 all’Austria, poi il lento declino: una squadra che ha dato l’illusione di saper coprire bene e ripartire in velocità, ma che ha finito per cedere ai suoi problemi strutturali difensivi (ben 8 gol subiti, la peggior difesa fino agli ottavi), concedendo persino facili contropiedi al Belgio di Hazard. Un classico finto outsider, scioltosi al primo caldo francese.
12. Vladimir Petkovic (Svizzera)
La Svizzera abbandona gli Europei da imbattuta ma anche da inosservata: una squadra né carne né pesce, con problemi in inizio azione (un doble pivote troppo piatto) e anche sulla trequarti avversaria. Pektovic ha creato una squadra flessibile, sempre in grado di adattarsi all’avversario, forse troppo: neutralizzata la spinta sulle fasce, la squadra si è spenta, anche a causa del ruolo di Dzemaili dietro la punta, non particolarmente riuscito.
11. Gianni De Biasi (Albania)
De Biasi ci ha provato, con la sua compattezza verticale e la difesa strenua delle zone centrali, e aveva pure trovato un centravanti decente con Armando Sadiku, ma è stato tradito prima dai giocatori chiave (papera di Berisha ed espulsione di Cana contro la Svizzera), poi dal tempo (il gol di Griezmann al 90’). Alla fine ha comunque ottenuto una storica vittoria contro la Romania, che non è stata sufficiente a essere ripescata tra le migliori terze: i giocatori però facevano melina sull’1-0, pur di tornare a casa con una vittoria. Più di così oggettivamente non si poteva fare.
10. Martin O’Neill (Eire)
Un bonus per aver studiato benissimo l’Italia (anche se infarcita di riserve): anche l’Irlanda ha seguito la tradizione del kick and run, affidandosi a un centravanti forte fisicamente e a onesti mestieranti per le seconde palle. Anche la Francia sembrava ormai incartata, ma poi Deschamps ha capito la necessità di cambiare modulo: ma la proposta speculativa di O’Neill non era inferiore a quella di squadre come Galles e Portogallo.
9. Didier Deschamps (Francia)
Il cammino della Francia è stato agevole e nel corso del torneo Deschamps ha avuto la possibilità di aggiustare al meglio la sua squadra senza rischiare troppo. Dall’enorme difficoltà nell’inizio azione e nella circolazione della palla a centrocampo, il tecnico francese ha saputo almeno trarre qualche indicazione corretta. La partita chiave è stata quella con l’Irlanda: fuori Kantè a fine primo tempo, dentro Coman e passaggio al 4-2-3-1 con Pogba a fluidificare la costruzione bassa. Col senno di poi, una scelta che ha limitato troppo il talento della Juve e soprattutto le opzioni della Francia sulla trequarti avversaria. Anche l’ingresso di Sissoko ha dato forza ed equilibrio, soprattutto nella difficile partita contro la Germania, in cui forse la Francia ha dimostrato di essere una squadra che gioca molto meglio senza pallone. Ma ovviamente il Portogallo gli ha affidato tutto l’onere della costruzione: e la gestione tattica della finale rimarrà per sempre come una macchia nella carriera di Deschamps, rinunciando alla pressione alta, intasando la zona centrale invece di puntare sull’ampiezza.
8. Adam Nawalka (Polonia)
Una squadra compatta, con un mostro come Krychowiak davanti alla difesa, già molto ordinata e forte fisicamente; uno sviluppo del gioco soprattutto sulle fasce, in particolare per la coppia Piszczek-Kuba sulla destra; ma poca voglia di creare, tanta paura di sbagliare, e imprecisione in zona realizzativa. Nawalka ha fatto il compitino, cercando una manovra alla Fernando Santos: prima di tutto non perdere. E alla fine la Polonia ha abbandonato il torneo con 3 pareggi consecutivi, dimostrando pochi difetti ma anche una strana paura di vincere: Nawalka è uno degli scacchisti di questo torneo che dopo ore di mosse si è ritrovato incartato dal Portogallo. Peccato perché aveva molta qualità, forza fisica e gol: chi non risica non rosica.
7. Michael O’Neill (Irlanda del Nord)
La squadra con la minor percentuale di passaggi riusciti, il 62,7% e il minor numero di tiri verso la porta, in media 5,5 per 90 minuti, è arrivata agli ottavi dimostrando una qualità media molto bassa, ma anche idee chiarissime. Marcatura a centrocampo orientata all’uomo, con i terzini in grado di alzarsi e abbassarsi fino a formare un 5-3-2 asimmetrico; copertura perfetta degli spazi di mezzo; utilizzo dell’attaccante Ward come deflettore dell’inizio azione avversario, con la sua posizione volta a spingere l’impostazione sulla fascia (per provare a recuperare il pallone con la superiorità numerica) o a indirizzarla verso un centro intasatissimo. Contro l’Irlanda del Nord si poteva vincere solo 1-0, e così è stato; la vittoria contro l’Ucraina rimane storica, così come il raggiungimento degli ottavi. Bonus-malus per essere riuscito a non far giocare neppure un minuto a Will Grigg, rendendolo il primo idolo-non giocatore della storia degli Europei.
6. Lars Lagerback - Heimir Hallgrímsson (Islanda)
La squadra con meno possesso, il 36,1%, e che ha capito meglio di tutte che in questo Europeo il pallone scottava da impazzire: meglio consegnarlo all’avversario. Con un 4-4-2 semplice ma immutabile, sia negli uomini che nei principi, Lagerback ha raggiunto i quarti di finale, un obiettivo francamente inarrivabile sulla carta. Il lancio lungo per la torre Sightorsson è stato ripetuto fino all’ossessione, come le prove alla batteria in Whiplash; l’attacco delle seconde palle ricordava la miglior Atalanta di Colantuono. La cura maniacale dei dettagli, come gli schemi da rimessa laterale di Gunnarsson, ci ricordano l’importanza dello studio su ogni situazione di gioco. Peccato per la sbracatura contro la Francia.
5. Ante Cacic (Croazia)
La Croazia ha gestito l’Europeo puntando forte su alcune caratteristiche della squadra: la capacità di dominio del centrocampo, con Modric e Badelj a gestire l’inizio azione; la forza fisica della linea difensiva, invitando spesso l’avversario a inutili cross a centro area; la capacità di Mandzukic (o Kalinic) di attaccare la profondità o svuotare l’area per gli inserimenti di Perisic. Tutti meccanismi che hanno ben funzionato, almeno fino al gol di Quaresma a pochi minuti dai rigori. Proprio quel momento rappresenta le sliding doors degli Europei: pochi secondi prima, Perisic aveva colpito il palo, negando un probabile percorso liscio fino alla finale. Memorabili le transizioni offensive contro la Spagna: peccato che in un Europeo così bloccato le sgroppate di Perisic (e Pjaca, quando è entrato) si siano viste così poco. Unico neo: la posizione troppo avanzata di Rakitic, spesso isolato dal gioco. Ma per farli giocare tutti, qualcosa doveva pur inventarsi.
4. Joachim Löw (Germania)
La Germania era la squadra favorita per la vittoria finale e una volta superati i quarti sembrava un destino ineluttabile: e invece ha fallito clamorosamente. I tedeschi però rimangono gli unici, insieme all’Italia, ad aver espresso una proposta di gioco completa agli Europei: e cioè non solo come fare bene una cosa, ma provare ad armonizzare tutte le fasi di gioco in una sola. Il gegenpressing ha funzionato bene spesso, ma non sempre; il dominio del pallone è rimasto a volte fine a se stesso, nonostante la perfetta occupazione del campo. E neppure si può dire che Löw sia stato poco incisivo: dopo le prime partite, ha capito che la squadra aveva bisogno di profondità, e quindi dentro Gomez; e ha aggiunto un altro creatore di gioco sulla fascia, Kimmich, per rendere simmetrico l’inizio azione e attaccare in grande ampiezza. Però la Germania ha giocato solo 3 partite contro avversari di elite in questo torneo, e ha ottenuto due pareggi (Polonia e Italia) e una sconfitta (Francia): rimane una grande sensazione di incompiutezza, di una vittoria sprecata, e di interventi tattici tardivi.
3. Chris Coleman (Galles)
La miglior versione del kick and run britannico, condita da grande attenzione ai dettagli, piani gara equilibrati e ben studiati, stelle al completo servizio del bene comune. La ricetta di Coleman ha portato il Galles ad un passo dalla finale, senza strafare, senza entusiasmare, ma con grande efficacia. I centrali difensivi hanno coperto in modo splendido la profondità, oltre a permettere una buona circolazione bassa del pallone; nel 5-2-2-1 gallese il quadrilatero di centrocampo ha sia permesso di schermare tutti i corridoi di passaggio che di creare zone di densità sul pallone, in grado di garantire associazioni tra i propri migliori talenti. In particolare, oltre a un Bale necessariamente sacrificato all’attacco della seconda palla, alle transizioni e ai tiri da fuori, ma sempre nel vivo del gioco, anche in ripiego, è stato Ramsey a determinare le modalità offensive del Galles, servendo i tagli di Robson-Kanu o rallentando i ritmi. Coleman ha presentato una squadra vera, in grado di reggere il confronto con tutti gli avversari, e caduta solo davanti al serpente incantatore portoghese.
2. Fernando Santos (Portogallo)
Nella morra cinese di questi Europei, Fernando Santos ha il grande merito di aver scelto sempre la mossa giusta, fino a sollevare il trofeo nella finale di Parigi. Il Portogallo è la squadra che ha concesso meno passaggi agli avversari nella zona centrale di attacco, quella da cui si segna con maggior probabilità: basta questo a raccontare la natura speculativa dei portoghesi. Eppure il percorso dei campioni non è stato così monodimensionale: dopo aver dominato un girone a livello di possesso palla, tiri verso la porta ed expected goals, rischiando di farsi eliminare a causa della scarsa efficacia offensiva, Fernando Santos ha saputo interpretare lo Zeitgeist di questo torneo, cambiando approccio nella fase a eliminazione diretta.
Come un serpente, il Portogallo ha ogni volta stretto la morsa sul proprio avversario, lentamente: e così l’onere di controllare il pallone è stato lasciato all’avversario, affinché sbagliasse di più. A Santos va dato il merito di aver saputo cambiare sempre: dai giocatori (tra la prima e l’ultima partita ci sono ben 5 titolari differenti), affidandosi anche a giovani come Renato Sanches e Guerreiro; ai moduli, roteando vorticosamente dal 4-3-3 al 4-2-2-2, per poi passare al rombo e infine al 4-1-3-2, rasentando in alcuni momenti una destrutturazione totale, che avrebbe potuto portare tutto l’impianto verso il collasso.
Potrebbe sembrare un’impresa casuale, ma Santos l’aveva detto prima degli Europei: il Portogallo puntava alla vittoria. Anche questo ha contribuito a creare un clima di unione e fiducia, che può aver influito; ma soprattutto è stata decisiva la sua capacità di leggere le partite, dal cambio di sistema contro la Croazia all’incredibile ingresso di Eder, una sostituzione inusuale (una punta centrale al posto di un centrocampista) per una squadra sempre preoccupata degli equilibri. Non si vince per caso: Fernando Santos è stato semplicemente il miglior scacchista del torneo, quello più lucido, anche dopo migliaia di mosse.
1. Antonio Conte (Italia)
L’Italia è stata eliminata ai quarti di finale e come ha detto Barzagli difficilmente sarà ricordata: ma rimane la squadra che ha offerto il miglior percorso tattico degli Europei, sia per proposta che per studio degli avversari.
La ricerca della profondità era costantemente assicurata dalle combinazioni automatiche dei due attaccanti, insieme agli inserimenti delle mezzali, in particolare Giaccherini: i lanci di Bonucci come un apostrofo tra le parole “t’attacco”. L’inizio azione scivolava che era un piacere, con il rombo basso e la ricerca costante dell’uomo libero; e anche quando bloccato, riusciva sempre a evitare il lancio nel nulla. L’attacco in ampiezza con il 3-1-6 ha mandato in tilt, in ordine: la miglior squadra europea per il ranking Fifa (Belgio), i campioni d’Europa in carica (Spagna), e costretto i campioni del mondo tedeschi a scegliere uno schieramento a specchio.
Nella partita cruciale del torneo, l’Italia ha dovuto fare a meno del perno centrale (De Rossi e Motta), smarrendo quel pizzico di verticalità che avrebbe potuto fare la differenza. L’idea di trasformare una Nazionale in un club, dal coefficiente di difficoltà pari a 10, ha portato i suoi benefici: nessun’altra squadra rifletteva così convintamente le caratteristiche di gioco del proprio allenatore.