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Al pari del rinoceronte nero, del rospo dorato e della semplice tigre, il centravanti è una specie in via d’estinzione. Certo, non tutti i centravanti, ma quelli che più precisamente combaciano con l’idea classica di centravanti. Una persona alta, con le spalle larghe, il numero 9, che ha un rapporto aereo e privilegiato con la porta avversaria. Una sorta di entità mediale, sospesa tra cielo e terra, capace di coniugare la mistica dell’azione corale con la brutalità terrena del gol. In una parola: il bomber.
In un gioco che diventa sempre più complesso il calciatore tende a universalizzarsi. Non c’è più spazio per la velleità specialistica di un giocatore che vive solo come ultimo ingranaggio della catena di montaggio, alienato, privo di preoccupazioni su tutto ciò che lo precede. Il calcio ad alti livelli è già diventato un universo apocalittico inabitabile dagli esseri umani. Come nei romanzi distopici, sopravvivono solo i giocatori con virtù soprannaturali, o meglio: innaturali. Un discorso che vale ancor di più per i centravanti, che occupano una zona di campo che si preferisce attaccare partendo da lontano, attraverso incursori sempre più veloci, tecnici ed elastici.
“Che centrattacco”, in sintesi la nostra idea di centravanti.
Allora nelle squadre di prima fascia si guadagna il diritto a occupare la zona centrale e avanzata dell’attacco solo chi è in grado di fare tante cose diverse: aprire spazi, fare da raccordo con i reparti, pressare in avanti, servire sponde per gli inserimenti dei centrocampisti, difendere il pallone per permettere alla squadra di risistemare le distanze. Saper segnare è considerata una competenza di base, tipo sapere l’inglese.
Eppure segnare tanti gol rimane il modo più semplice che ha un attaccante per mettersi in mostra. Anche se segnare con continuità, e molto, ogni stagione, è raro e spesso serve proprio a distinguere un buon attaccante da un ottimo attaccante.
Quando un attaccante segna più di venti gol per due stagioni consecutive, e ha meno di 23 anni, l’hype che gli si genera attorno è grosso, a volte molto grosso. Arkadiusz Milik è nato nel 1994, è alto poco meno di un metro e novanta, e ha segnato 32 gol in due stagioni, nella squadra che ha lanciato alcuni dei più grandi talenti nell’ultimo secolo. A 22 anni, con 61 gol segnati in carriera, Milik ha già segnato più reti di Higuain (50), Suarez (55) e Ibrahimovic (47) alla sua età. Quest’anno è andato in rete con l’Ajax per 5 partite consecutive, eguagliando un record che apparteneva proprio a Luis Suarez. Un curriculum da cui i club sono stati attirati come api dal miele. Nel giro di appena un anno Milik è stato accostato a: Tottenham, Liverpool, Lazio, Roma, Inter, Siviglia, Valencia, Leicester, Arsenal, Bayern Monaco, Barcellona.
Eppure è ancora difficile capire bene, con precisione, qual è il suo valore. Perché come una rondine non fa primavera, una stagione da venti gol in Olanda non fa un grande attaccante. Milik è ancora nel limbo tra un centravanti completo ed eccezionale, e un semplice “ottimo attaccante”, appena sopra la media, buono per squadre europee di seconda fascia.
Quello che segue è quindi un tentativo, il più obiettivo possibile, di comprendere se Milik debba finire nel primo o nel secondo gruppo. O, più in generale, quanto possiamo sognarlo con la maglia della nostra squadra del cuore nelle notti appiccicose d’estate. Se fa parte della categoria mistica degli attaccanti che tirano le bombe che infiammano le porte; o in quella noiosa e terrena dei “buoni attaccanti”.
Un pezzo alla volta
Con la maglia dell’Ajax Milik ha quell’aria algida che sta particolarmente bene a un centravanti: longilineo, dalla muscolatura nervosa, il collo lungo, il naso grosso e gli occhi scavati. Sembra più vecchio dell’età che ha e la sua durezza, i suoi tratti così spigolosi, rispecchiano la durezza della vita di un giocatore costretto a tenere impegnate le linee difensive. Milik trasmette sicurezza come solo chi sembra avere troppa poca empatia per il mondo per tremare di fronte alla porta avversaria.
Come limite ultimo e solitario dello schieramento offensivo dell’Ajax sembra un pilastro d’austerità, immobile e calmo mentre tutto attorno ragazzini egocentrici provano dribbling e cercano di salire sul palcoscenico principale. Le movenze di Milik sono pulite, secche, razionali. Sono eleganti, ma di un’eleganza minimalista, non particolarmente dolce e fluida, che nasce più che altro dalla pulizia, da una cosa semplice fatta per bene. I tiri di Milik sono piani e limpidi, i suoi dribbling rari ed essenziali. I suoi passaggi razionali e non velleitari. Non c’è niente di divertito in quello che fa Milik. Vederlo giocare non trasmette il piacere dell’eccezionalità, piuttosto di un lavoro fatto bene, di una cosa che va al suo posto. Quando gli chiedono dei trasferimenti dice “voglio essere concentrato sul mio calcio”, come se il calcio fosse una questione di imparare ad automatizzare una serie di gesti: giocare a calcio come imbiancare una parete, come fare i buchi per rilegare una serie di fotocopie.
D’altronde la storia personale di Milik non ha l’intensità di una vera storia di talento e povertà, nonostante sia comunque una storia di un ragazzo che ha usato il calcio per tirarsi fuori da uno dei posti più grigi e inospitali d’Europa.
Milik è nato a Tychy, un angolo industriale di Slesia dove si fabbricano le Fiat Panda, a pochi chilometri dal confine con Slovacchia e Repubblica Ceca. A 6 anni ha perso il padre e ha vissuto un momento di sbandamento: “Ero in un brutto momento. Fumavo sigarette e rubavo piccole cose dai negozi. Fortunamente ‘Moki’ è entrato nella mia vita e mi ha salvato”. ‘Moki’ è l’allenatore della giovanile del Katowice che ha preso il talento di Milik sotto la sua ala protettrice.
A 16 anni ha sostenuto due provini in Inghilterra, con Reading e Tottenham, ma alla fine ha deciso di continuare la propria carriera in Polonia per non avere troppe distrazioni: "Ho fatto dei periodi di prova. È stato bello ma alla fine si sentiva che era ancora presto per me andare all’estero”. Qualche mese dopo, nel 2011, pur avendo offerte dal Legia Varsavia, ha preferito firmare per il Gornik Zagbre, un club decaduto appena promosso in prima divisione. Non spostandosi troppo, ha potuto rimanere con i genitori nella sua casa di Katowice: “Per un ragazzo di 17 anni è importante non dover affrontare troppi problemi di ambientamento”. Quasi tutte le scelte della carriera di Milik contengono la consapevolezza di non avere un talento abbastanza grande da essere auto-evidente, e di dover quindi fare un passo alla volta, senza la fretta di arrivare.
Alcuni indizi che fanno pensare che Milik è solo un buon giocatore
Basta osservarlo bene mentre gioca a calcio, Milik, per accorgersi di quanto sia un giocatore che si è costruito il repertorio un pezzo alla volta, senza poter attingere a un potenziale di talento davvero profondo e naturale. Fa tutto più o meno bene, ma niente con particolare forza, grazia o precisione. In questa limitatezza complessiva sta uno dei suoi difetti più evidenti: Milik non sembra nato per giocare a calcio, somiglia più a qualcuno che ha imparato il mestiere facendo un po’ di praticantato. Che magari è anche portato per farlo, ma che al massimo potrà essere tra i migliori nel gruppo di quelli che non hanno un vero dono naturale.
Intanto proviamo a contestualizzare il gioco di Milik. Nel 4-3-3 di De Boer aveva iniziato a giocare sull’esterno, con Sigthorsson al centro. Dopo qualche partita però il tecnico lo ha spostato in posizione centrale e da quel momento si è sistemato come un totem solitario, a fungere da limite ultimo per i dribbling e gli strappi in accelerazione delle due ali. "Milik è otto volte meglio di Sigthorsson” ha dichiarato Wim Kieft. Attorno a lui gli esterni, in soli due anni, sono cambiati ciclicamente: Kishna, El Ghazi, Fischer, Sulejmani, Sinkgraven, Cerny, Younes. Lui è rimasto più o meno inamovibile. Il suo ruolo nello sviluppo della manovra offensiva non è centrale ma è aumentato nel corso del tempo: in un anno è passato da 15 a 20 passaggi per novanta minuti, da 0,4 a 1,5 key passes.
Il gioco passa quasi sempre per gli esterni, che si allargano fino alla linea laterale per dare ampiezza e fornire delle linee di passaggio pulite. Quando la palla arriva a loro Milik si avvicina per fornire uno scarico, a quel punto si può sviluppare un classico gioco a tre, con Milik che serve Klassen, che serve l’ala che attacca la profondità, con Milik che a sua volta si muove verso l’area di rigore per raccogliere l’eventuale cross.
Altre volte viene direttamente lui incontro per ricevere i passaggi dei difensori e far guadagnare metri alla manovra più velocemente. Il suo gioco di appoggi non è particolarmente dolce e pulito, e raramente va oltre lo scarico facile. E questo è il primo vero, grosso indizio che Milik non appartiene alla categoria dei grandi giocatori. In questo gioco spalle alla porta evidenzia limiti tecnici abbastanza chiari. Il primo controllo è scolastico, mai del tutto naturale e spesso fa perdere i tempi di gioco alla manovra, obbligandolo a uno scarico più elementare di quanto potrebbe. Ma il limite più grosso e preoccupante di Milik, anche questo reso evidente dal suo gioco spalle alla porta, è l’uso esclusivo del piede forte. Un limite comune nell’attuale calcio, ma grave per chi giostra il gioco in posizione centrale, e che spesso è costretto a farlo senza il privilegio di avere la porta davanti a sé.
La percentuale di passaggi riusciti quest’anno, 72%, nonostante difficilmente giochi in modo rischioso, evidenzia le sue difficoltà nel giocare in molte delle situazioni in cui la squadra lo sollecita. Oltre a una dimensione tecnica, a penalizzarlo nel gioco spalle alla porta anche una reattività nei primi metri non esaltante. Quando Milik riceve sui piedi difficilmente il gioco prende una svolta imprevista: non riesce a girarsi rapidamente ma ha quasi sempre bisogno di ricevere già fronte alla porta.
Quando invece suggerisce la profondità in maniera diretta, allargandosi sulla fascia per ricevere oltre la linea, è molto più a suo agio. Milik quindi si troverebbe meglio a giocare in uno schieramento offensivo che non gli richieda molta staticità, e una conseguente grossa mole di lavoro spalle alla porta. Piuttosto potrebbe far bene in sistemi fluidi (più fluidi di quello dell’Ajax, comunque), in cui le distanze con i compagni di reparto sono più ridotte e ha maggiore libertà di spostarsi per ricevere dove sente di poter offendere: venendo indietro sulla linea di trequarti, allargandosi sulla fascia, destra o sinistra, o attaccando la porta partendo da lontano. In un contesto in cui il gioco spalle alla porta è merce sempre più rara e richiesta, Milik non riesce a fare eccezione. In alcuni momenti ha anche una sua efficacia, ha delle buone intuizioni, e il numero di assist e key passes accumulato in due anni di Eredivisie non è trascurabile.
Milik però preferisce comunque ricevere fronte alla porta. Gli piace puntare il diretto marcatore, minacciare continuamente un dribbling, un cross, una rifinitura o un tiro. In questo Milik riflette una scuola calcistica moderna, che fatica a sfornare giocatori bravi nel gioco di prima, che pensano prima di ricevere, che sanno giocare senza palla bene quanto con la palla tra i piedi.
Alcuni indizi che fanno pensare che Milik è qualcosa in più di un buon giocatore
Essendo alto 1,86, e non essendo né lento né totalmente impacciato palla al piede, Milik potrebbe far pensare di appartenere a quella categoria di giocatori-freak che hanno un rapporto impossibile tra potenza e velocità, reattività e tecnica. In realtà basta vedere una sua partita in Nazionale, guardarlo giocare per qualche minuto accanto a Robert Lewandowski, per capire che è quest’ultimo ad appartenere a quel genere di giocatore, non Milik. Lewandowski ha un fisico “da soldato d’elite”, ha scritto Daniele Manusia: ha un’apertura alare delle spalle e una velocità sorprendente che lo fa sembrare un drago che plana sulle difese avversarie. Accanto a lui Milik sembra quasi piccolo, minuto. Non a caso è costretto ad arretrare, a girargli attorno, perché tra i due Lewandowski è il pianeta, Milik un piccolo satellite che gioca a suo supporto.
Guardando le partite della Polonia, di riflesso a Lewandoswki, Milik sembra un giocatore fisicamente “normale”. Ma non è così vero. Forse Milik non è un freak, ma possiede un rapporto tra velocità, potenza, dinamismo e controllo del corpo in ogni caso sopra la media. La sua qualità atletica non è tanto nell’ordine dell’eccezionalità quanto in quello della compattezza. Milik compensa la scarsa rapidità sul breve con un generale dinamismo speso in varie situazioni di gioco: corse laterali, attacco della profondità, conduzione palla al piede. Oltre a un’ottima elevazione, che unita al metro e ottantasei, lo rende un saltatore temibile sia in situazioni di sponda che di conclusione.
Un insieme di caratteristiche che ricorda un altro attaccante di origini polacche, Miro Klose. Rispetto a lui Milik è meno forte di testa, ma possiede quello stesso tipo di dinamismo intelligente sul fronte d’attacco. Quello che dicevamo essere il suo difetto più evidente, ovvero non riuscire a fare niente particolarmente bene, è anche il suo punto di forza. Milik sembra aver già capito quali sono le strade che il suo talento non gli permette di battere, e per questo gli gira attorno: raramente forza la giocata, specie se si tratta di qualcosa che non appartiene al suo bagaglio tecnico. Preferisce l’utilità e l’efficacia, il rischio è sempre calcolato, come se giocasse un calcio percentuale. Milik sembra preferire due cose fatte discretamente bene a una straordinaria che però potrebbe sbagliare. Anche a costo di fare letture errate, perché la soluzione più semplice non è sempre la più corretta.
Nel dribbling l’uso esclusivo del sinistro lo rende prevedibile, e per questo Milik si mette raramente nella situazione di dover puntare il diretto marcatore (fa ridere che il suo idolo di infanzia fosse Cristiano Ronaldo). Quando lo fa però riesce a rendersi utile: è difficile togliergli il pallone e il suo sinistro rappresenta una minaccia, per quanto prevedibile, sempre molto consistente. Anche nella ricerca dell’assist.
Quando è più spostato sulla sinistra l’uso esclusivo del piede mancino rende sempre trasparenti le sue intenzioni, riducendone molto l’efficacia.
Quelle due cose che rendono Milik un giocatore sopra la media
Se il talento di Milik è il risultato, più che di un dono naturale, di una razionalizzazione delle proprie risorse, fisiche e tecniche, questo non significa che non riesca, in alcune situazioni, ad avere un’efficacia sopra la media.
Uno dei pregi migliori di Milik è l’istinto nella ricerca del movimento in area di rigore. Sia in situazioni di transizione, che di attacco posizionale, Milik riesce ad attaccare l’area con i tempi giusti. Capisce bene quando allargarsi sul secondo palo e quando tagliare sul primo palo, e la sua forza fisica in area di rigore è difficile da gestire per le difese. Quando arriva da lontano, sia su un cross basso che alto, Milik esprime una potenza rarefatta da vero centravanti.
Anche in fase di finalizzazione rimane però limitato dallo scarso uso del destro, che lo porta a una ricerca dei punti di impatto col pallone spesso cervellotici. Quando il contesto di gioco lo forza alla conclusione col destro i risultati sono il più delle volte scoraggianti.
In generale però Milik è piuttosto freddo davanti al portiere e la capacità di costruirsi conclusioni col piede forte è ottima. A quel punto difficilmente sbaglia, perché è soprattutto il modo in cui Milik calcia col sinistro a lasciar pensare che potrebbe spiccare anche in contesti di alto livello. Il tiro in porta è l’unica giocata che a volte forza, perché è l’unica su cui è abbastanza sicuro di poter essere più o meno sempre efficace.
Dei 21 gol segnati in questa stagione, 13 sono arrivati dal suo sinistro, 6 di testa e appena 2 col destro. La giocata più classica è il taglio in area da destra verso sinistra a cercare la conclusione col sinistro dal centro dell’area. Milik tira mediamente 3 volte e mezzo ogni 90 minuti, una statistica medio-alta, prende la porta con il 41% dei tiri (non eccezionale) ma ha una percentuale di conversione del 19%, che è piuttosto alta. Per dire: è la stessa di Higuain, ed è superiore a quella di Kane, Diego Costa, Giroud e Morata. Il rapporto tra la percentuale dei tiri in porta e quella di conversione lascia pensare che Milik provi conclusioni spesso rischiose, molto angolate.
Quindi, si può sognare?
A complicare la valutabilità di un centravanti concorre anche il sistema in cui gioca. Forse in percentuale maggiore rispetto ad altri ruoli, un centravanti è esaltato o depresso dal gioco della squadra in cui è inserito, capace di nascondere o evidenziare i suoi pregi e difetti. Se infatti sono pochissimi i giocatori che riescono a generare un contesto attorno a sé, ancor meno sono i centravanti contemporanei che riescono a fare a meno di una squadra che ne alimenti le qualità. La loro influenza sul gioco è quasi sempre condizionata da quanto la squadra riesce a digerire e metabolizzare le loro caratteristiche, traendone vantaggio. L’Ajax di De Boer in questo senso complica ulteriormente la valutabilità del livello di Milik, come è stato per quasi tutti i giovani emersi dal suo settore giovanile negli ultimi anni.
L’Ajax è diventato infatti un serbatoio di giovani tanto prolifico quanto inaffidabile. Il 4-3-3 di De Boer sembra costruito apposta per gonfiare le qualità offensive dei suoi giocatori e i ritmi e l’intensità della Eredivisie non sono allenanti. Per questo alcuni dei migliori talenti usciti dall’Ajax negli ultimi anni, a parte rari casi (Blind), hanno avuto bisogno di un periodo di adattamento considerevole nel nuovo campionato (Eriksen, Alderweireld, De Jong, Vertonghen, van Der Wiel) o hanno addirittura completamente fallito (Kishna, El Hamdaoui, Babel, Sulejmani, Emanuelson). Se in passato il settore giovanile dell’Ajax era garanzia di giovani formati in profondità, dall’intelligenza calcistica superiore alla media, oggi, al contrario, il contesto troppo riposante della Eredivisie finisce per funzionare solo da contraffazione economica.
Milik dà l’impressione di poter andare in difficoltà nel momento in cui i ritmi e la qualità del gioco che lo circondano dovessero alzarsi. A quel punto forse dovrebbe sforzarsi ulteriormente di nascondere i propri difetti e nel frattempo limarli ulteriormente. Soprattutto imparare a usare il piede debole. Non ha l’accelerazione per guidare da solo una transizione, né la reattività nello stretto per risultare determinante contro difese basse. Non ha la tecnica per palleggiare allo stesso livello di centrocampisti ed esterni molto raffinati; né possiede una dominanza atletica che gli permetta di far sbiadire l’insieme di questi difetti. Eppure fa benino tutte queste cose: magari non è in grado di generare un contesto attorno a sé, ma non è nemmeno uno specialista puro, completamente parassitario al sistema in cui è inserito. Milik è oggi un attaccante abbastanza ibrido da essere spendibile in diversi contesti, capace di interpretare diverse situazioni di gioco e di essere prolifico sotto porta.
Una squadra di seconda fascia farebbe bene a puntarci, a meno che non si cerchi un centravanti che, come si dice con un’espressione comune, “ti fa partire da 1 a 0”, quello che appartiene più all’ambito del divino che a quello dell’umano. Milik è molto, molto terreno.