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L'ennesimo crack lanciato dal Royal Sporting Club Anderlecht, l'ennesimo talento che il Belgio può scegliere per la sua trequarti, ha una serietà quasi antipatica su una faccia da ragazzino. È nato il 14 maggio 1994. Il suo cammino è dritto, la sua classe non si arena nella leziosità che spesso inghiotte i giovani e i numeri dieci di qualunque età. Dennis Praet è la concretezza in armonia con una tecnica smisurata. È Quando balla fra le linee avversarie, quando gioca una palla di prima o indovina il taglio giusto, lo fa con la semplicità di una macchina razionale ed efficace.
Ho conosciuto Praet seguendo l'Anderlecht, un laboratorio dove i ragazzini giocano titolari, uno straordinario punto d'osservazione per conoscere in anticipo chi brillerà nei migliori campionati europei. Da qui sono usciti, di recente, giocatori come Kompany, Biglia o Lukaku.
Non sono un appassionato di numeri 10, anche in età di facili entusiasmi preferivo i ruoli di ordine e di sacrificio. Immagino sia perché di rado ho visto l'estro accompagnarsi alla praticità, mi sono soffermato sulla croce più che sulla delizia. Il genio mi lascia un po' freddo, la sregolatezza mi respinge. Attraverso la sobrietà, la morigeratezza nei colpi a effetto, Praet mi fa riconciliare in parte con quel numero.
Oltre all'anagrafe, la sua esilità fisica (65 chili su 174 centimetri) gli potrebbe guadagnare un pretesto per mettersi in luce coi fuochi d'artificio. Invece no, è solo quando occorre che fa colpi di tacco, dribbling nello stretto, eccetera. Dopo aver segnato, non mette in scena un'esultanza preparata, fa cose tipo abbracciare i compagni e sorridere.
Di gol non ne fa molti. È destro ma ha un mancino tutt'altro che pigro. Punta sulla precisione molto più che sulla forza, di solito mira all'angolo, e calcia sempre portando avanti il corpo in modo da tenere basso il pallone. Ha un buon tiro da fuori (come dimostra il suo primo timbro in Champions, lo scorso 16 settembre, nel rilassante stadio del Galatasaray), mentre prova ancora troppo poco dall'interno dell'area. Sui calci piazzati a favore, se ne resta al limite dell'area: fisicamente poco utile nella mischia, gli si chiede di tentare una conclusione se capita una ribattuta o di coprire una ripartenza avversaria. Nel 4-2-3-1 di mister Besnik Hasi, gioca da trequartista centrale dietro alla punta, ma è libero di svariare e volentieri si spinge sull'esterno, soprattutto a sinistra, da dove fa partire cross morbidi e precisi.
In campo è un altruista: non s'impunta a cercare la giocata personale, cede il pallone non appena è necessario. Ha statistiche altissime nella precisione dei passaggi (quest'anno in Champions, giocando due volte contro l'Arsenal e una volta contro Dortmund e Galatasaray, i passaggi riusciti sono l'88,1 %). L'allenatore delle giovanili dell'Anderlecht, René Peeters, dice che sa giocare di prima anche dove gli altri hanno bisogno di almeno due tocchi.
Ha un'eleganza spontanea nei movimenti, leggero com'è, quasi assecondasse il vento. Il tocco del pallone superbo e l'asciuttezza della figura lo rendono uno di quei giocatori che sembrano essere lì per perdere il pallone e invece lo tengono. Agile, più che veloce, ha un'accelerazione che potrebbe sfruttare molto più di quanto non faccia: per inserirsi in area senza palla, ad esempio, o per giocare di più sulla linea del fuorigioco. Questa sua agilità, non mi sembra forzato ricondurla al fatto che il padre Herman e la madre Fabienne siano ex giocatori di pallavolo.
In fase di non possesso aiuta molto la squadra, abbassandosi come un interno di centrocampo. Qui lo aiuta la sua caratteristica che probabilmente mi impressiona di più: il senso della posizione, e in generale la visione di gioco, la capacità di leggere le situazioni un momento prima degli altri. Il suo ex compagno Tom De Sutter lo ha paragonato a Iniesta. Certo, nei contrasti la sua delicatezza fisica lo penalizza; e allora prova a risolvere la cosa con le scivolate, in modo da non arrivare a fare spalla contro spalla.
Il posto dov'è nato, Leuven, è una città universitaria di centomila abitanti nel cuore delle Fiandre. Praet dimostra ben presto l'applicazione dell'atleta: da bambino viene annoverato fra i dieci migliori tennisti Under12 del Belgio. Il tennis, sì, come un altro mix di eleganza e piedi buoni, Yoann Gourcuff. Comunque sia preferisce il calcio, ricambiato.
A scoprirlo, nel 2001, è Paul Van Der Schueren – responsabile del Koninklijke Stade Leuven (diventato OH Leuven dopo la fusione del 2002), la squadra della sua città. Van Der Schueren racconterà: “Era come se avesse un campo visivo più ampio degli altri”. Si vede subito che merita di passare a una squadra più attrezzata. Il suo scopritore è talmente certo che la gloria abbia dato appuntamento a Dennis (un bambino di sette anni), da conservare i suoi scarpini e le sue magliette bianco-verdi.
In effetti la squadra più attrezzata, il KRC Genk, arriva subito. Dagli otto ai sedici anni è lì che cresce, con il numero dieci sulla schiena. A quattordici anni, come gli altri compagni, risponde a un questionario che gli sottopone la società, e in un passaggio scrive: “Posso sembrare molto arrabbiato quando vengo sostituito. È che voglio giocare ogni minuto”. Con lui c'è anche un altro wonderkid, Divock Origi, e soprattutto – più grande di tre anni – c'è Kevin De Bruyne: Praet non lo prende granché a modello, probabilmente gli risulta troppo appariscente, preferisce centrocampisti più concreti ed equilibrati come Josip Skoko e Thomas Chatelle. A Genk conquista l'attenzione di un buon numero di club europei, e alcuni lo invitano a visitare i propri centri sportivi. Quello del Lille lo colpisce per l'estrema organizzazione. In quello dell'Arsenal gli fanno giocare una partitella con le giovanili, ha un leggero infortunio, lo portano nel centro medico ed è emozionatissimo quando ci incontra Robin Van Persie. Alla fine, comunque, rifiuta i corteggiamenti che lo porterebbero lontano e gli complicherebbero il percorso di studi. È serio, l'ho detto, lucido fino alla freddezza. In un'intervista al padre esce fuori che Dennis in camera non avesse neanche il poster di un calciatore.
Gli piacciono gli spaghetti “alla bolognese”, sta leggendo 50 sfumature di Grigio e vorrebbe incontrare Megan Fox. Poi Praet dice di preferire Messi, "più calmo", a Cristiano Ronaldo e alle sue “fanfrelouches”: i suoi fronzoli.
Insomma nel maggio 2010 decide di firmare per l'Anderlecht, distante trenta chilometri da Leuven. Nel 2011 vince il premio come miglior giocatore della prestigiosa Aegon Future Cup. A diciassette anni condivide un appartamento, vicino al Constant Vanden Stock Stadium, insieme a tre giovani compagni; ogni mattina la colazione gliela prepara la madre di Oleg Iachtchouk, che è rimasta a Bruxelles mentre l'ex calciatore bianco-malva conclude la carriera a Bruges (oggi è il responsabile Under-14 dell'Anderlecht). Nel 2012 prende il diplôme d'humanités col massimo dei voti. È anche l'anno in cui viene incluso da “Don Balón” fra i migliori prospetti nati dal 1991 in poi. Ogni tanto, nei mesi successivi al diploma, raggiunge gli amici fra i banchi universitari della sua Leuven, spiegando: “Voglio conoscere la sensazione di essere studente”.
A ottobre 2014, contro l'Arsenal nel girone di Champions League, l'ho visto rassicurare Tielemans (classe '97) che aveva sbagliato un lancio come un veterano rassicura un ragazzino. Con questo voglio dire della sua maturità, non di eventuali doti da leader che in effetti non dimostra – il suo grande lavoro si accompagna alle poche parole anche in campo. Una maturità che non si permette cedimenti. E diventa saggezza quando per esempio gli fa raccontare che i suoi veri amici sono quelli d'infanzia, che non c'entrano con il mondo del calcio, che per lui è importante mantenere uno strato impermeabile.
In un'intervista dell'agosto 2012 spiegava di non bere alcolici, di aver assaggiato la birra una volta, e di preferire di gran lunga il succo di mela effervescente. Dei vent'anni non ha nemmeno l'irruenza, a quanto dicono le quattro ammonizioni prese in oltre cento gare ufficiali. Il punto è che riceverebbe pure indulgenza, se volesse dimostrare la sua età. Ma non se lo concede. Probabilmente la chiave è pensare a quel numero di partite che già ha disputato. Quanto hai davvero vent'anni, se hai messo insieme 111 presenze con la squadra più importante del tuo Paese, se hai fatto 13 gol e 25 assist, vincendo tre campionati belgi e altrettante Belgische Super Cup?
Minuto 1:10 Praet segna un rigore di tacco. Anche in una situazione goliardica (Vanden Borre prova un doppio tacco finendo faccia a terra) il suo talento è al servizio dell'angolo e della potenza giusta per mettere la palla dentro.
All'Anderlecht, nella stagione 2011-12 comincia con le prime panchine e i primi minuti di rodaggio. Fa il suo esordio ufficiale con la prima squadra in Coppa belga: è il 21 settembre 2011, ha diciassette anni e quattro mesi. Nella stagione successiva è un titolare, e nessuno gli toglie più il posto. Nella stagione ancora seguente (2013-14), sulla maglia bianco-malva il numero dieci ce l'ha lui. Lo scorso luglio, in vista dell'inizio del campionato 2014-15, dichiara: “Ik moet ontploffen”, devo esplodere.
Chiede molto a sé stesso, sempre. Sempre in quell'intervista dell'agosto 2012 diceva che non gli interessavano le discoteche, e lo motivava col fatto di non essere un grande ballerino; che poi abbia imparato o meno, è così che ha continuato a ragionare. La sua esilità è un problema, al limite dell'ossessione: confrontando interviste di diversi periodi della sua carriera, si nota come ripeta continuamente che lavora per aumentare il volume muscolare. Questa sua leggerezza fisica è certo un limite, nel calcio moderno: aumentare la massa lo renderebbe più completo. Però mi chiedo: la manterrebbe, quella grazia dei movimenti?
Parallelamente all'ascesa nell'Anderlecht, si fa l'intera trafila delle giovanili nazionali. Arriva in Under21 e gli danno il numero dieci. Ovviamente, quando gli chiedono se a quel numero ci tenga, Praet risponde che per lui non ha importanza. Gli sembra un sentimentalismo, una frivolezza, se ho imparato a conoscerlo.
Da poco ha lanciato una propria linea d'abbigliamento. Parallelamente la Nike prova a farne un modello, approfittando del cortocircuito fra il giovane calciatore di successo e il suo aspetto angelico. Ma resto convinto che il vero Dennis Praet sia quello che la scorsa estate, postando su Twitter le foto di una vacanza in Sudafrica, menzionava anche l'elefante Caspar.
Praet ha un contratto con l'Anderlecht fino al 2017. E ha tutta l'Europa dietro. Il 12 novembre è arrivato l'esordio in Nazionale maggiore, nonostante una concorrenza spaventosa (da Hazard a Chadli, da Januzaj a De Bruyne – tutti più grandi di lui). Concluderà la stagione in Belgio, ma sarà l'ultima. Oggi il suo valore di mercato oscilla intorno agli 8 milioni di euro; il trasferimento dal Genk all'Anderlecht era costato 20mila euro. Forse la Premier League non è il campionato più adatto al suo gioco, ma riesce difficile pensare che in Inghilterra si lascino scappare l'ennesimo crack dell'Anderlecht, l'ennesimo talento della trequarti belga.
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