Per gli stessi inspiegabili motivi per cui ci commuoviamo, a quarant’anni, per un Christmas Carol intonato con le note giuste, ci sono certe giocate di certi giocatori che ci fanno istintivamente portare le mani ai capelli. È inevitabile, nonostante la quotidiana coltivazione di un senso critico, che in certi casi corrisponde con la maturità, in altri con un semplice distacco professionale, ci suggerisca di non cadere ancora una volta nel tranello del sentimentalismo.
Questo gioco di prestigio di Jean-Kévin Augustin è perfettamente riconducibile a quel tipo di semantica dello stupore immotivato e forse un po’ affrettato:
Che idea possiamo farci, di un giocatore come Jean-Kévin Augustin, isolandolo completamente dal contesto, cristallizzato nell’istante in cui con una veronica leggiadra taglia fuori due avversari, prima di accarezzare per un’ultima volta il pallone con la suola? Di contro: ricostruire il contesto che circonda questa polaroid, può aiutarci a collocarlo in maniera più precisa? Questa collocazione, in qualche modo, riesce a spegnere il nostro entusiasmo?
Il fatto è che osservare Jean-Kévin Augustin, che di qua in avanti chiamerò semplicemente JKA, e la generazione di calciatori cui appartiene, significa impegnarsi in un incontro ravvicinato del sesto tipo con un futuro prossimo in cui si giocherà un calcio iper-rapidissimo e ferocemente frenetico, in cui per noialtri spettatori sarà complicato oltre ogni modo prevedere gli esiti di movimenti così turbinosi.
Nell’azione qua sopra l’RB Leipzig, la squadra in cui JKA è arrivato nell’estate scorsa, sta affrontando il Porto in una gara della fase a gironi della Champions League. Vincerà 3 a 2: la terza rete la segnerà proprio JKA, che in quel momento - siamo a metà ottobre - sta vivendo un vero e proprio stato di grazia (complice l'infortunio del centravanti titolare Timo Werner: dieci giorni più tardi, nell’importantissima sfida contro il Bayern Monaco, JKA non scenderà in campo neppure per un minuto).
Oltre che un calciatore entusiasmante, JKA è anche un personaggio complicato da interpretare, con più sfumature di quante possa sembrare. Quando gli chiedono se si sente più un 4x4 o una vettura sportiva lui, che ha la struttura fisica di un autotreno quattro assi, dice di sentirsi più una spider. Preferisce Mou a Pep e il Real al Barça, ma anche Pauleta a Ibra.
Spesso indossa un sorriso sardonico. Quando segna inscena un’esultanza un po’ da boaster, con le braccia conserte e uno sguardo di sfida, senza considerare il sorriso da stronzo. Nonostante abbia ancora vent’anni, o forse proprio in virtù della sua età, sembra essere estremamente a suo agio con il fascino del villain. Di certo, le sue dimensioni (e quelle del suo ego) sono spropositate se rapportate a quelle dei pari età.
Ora che abbiamo giocato per un po’ al gioco delle congetture, però, vediamo di provare a capire perché JKA sia davvero un po’ di tutto questo. E, ovviamente, l’esatto contrario.
"Le fiamme dell’inferno, visto che questo non è il paradiso" (è il verso di una canzone abbastanza famosa di Passi, che sembra scritto appositamente per fotografare l’infanzia di JKA)
Nato nel XVI Arrondissement, lo stesso in cui si trova il Parc des Princes, Augustin è cresciuto nella banlieue parigina, a Plaisir, nel quartiere Valibout. Il classico scenario da periferia, scenografia perfetta per street-video di rapper borderline: casermoni di cemento che compongono caseggiati angusti, al centro un parchetto con un campo da calcetto, e anche da basket, che sembra un fortino da combattimenti di galli. Intorno parcheggi sterminati, TIR stanchi. «In periferia c’è molto talento», dice JKA intervistato nel 2014, dopo aver vinto il titolo di Titi d’Or, riservato ai giocatori che si sono messi più in mostra nelle giovanili del PSG. «I ragazzi meno fortunati, quelli che non hanno i mezzi, sono chiamati a metterlo a frutto. Nel rap, o nello sport».
Un’ottima idea copertina. Anche come nome di una crew, Génération Assassin, non sarebbe male.
A Plaisir JKA conosce Guillaume, il suo primo allenatore, che lo porterà con sé, qualche anno più tardi, nelle giovanili dell’Athletic Club de Boulougne-Billancourt, l’A.C.B.B., famoso per aver lanciato tra gli altri Ben Arfa, N’Koudou e Saint-Maximin, anche lui classe ‘97, che con JKA forma una delle migliori coppie d’attacco nella storia del club della periferia.
A dodici anni il PSG lo invita a far parte della sua accademia. Tre anni più tardi, quando ne ha soltanto quindici, lo inseriscono nella rosa degli U17 Nazionali: sostituisce Ousmane Dembelé. Di lì in avanti la scalata è rapida: JKA approda ad ogni categoria con qualche anno di anticipo rispetto alla normalità. Un’ascesa inarrestabile fino al 2015, quando viene convocato per la prima volta in prima squadra. Ad aprile esordisce tra i pro, nella semifinale di Coppa di Francia, contro il Saint Etienne. Pochi minuti dopo il suo ingresso in campo fornisce a Zlatan Ibrahimovic l’assist per il 4-1 finale. Anche se è difficile definirlo assist, visto che Zlatan - come al solito - si inventa il gol dal niente partendo da una palla sonnacchiosa che JKA gli affida più per nonnismo che altro al limite dell’area, all’altezza del vertice basso.
Un club normale, dopo averlo fatto esordire e averlo visto sbocciare nel precampionato successivo (5 gol in 5 presenze), lo avrebbe parcheggiato in una società dalle pressioni minori, dove si sarebbe potuto, come si dice, fare le ossa. Ma il PSG non è un club normale: e non lo è, soprattutto, con i prodotti del suo settore giovanile.
Ici c’est Paris. Nel bene e nel male
Anche se nessun precampionato può lontanamente essere paragonato, per intensità dei match e pressioni, alla stagione regolare, va pur detto che uno dei momenti migliori nella breve carriera di JKA è stato il grandissimo precampionato del 2015.
A Toronto, contro il Benfica, segna una delle sue cinque reti dell’estate, sfuggendo alla marcatura dei difensori con un tocco astuto che serve per autolanciarsi, per lasciar esplodere tutto il suo dinamismo. Ci sono, in nuce, prodromi di una dominanza che nell’attacco parigino ha soltanto Zlatan. Laurent Blanc, a L’Equipe, racconta di vedere in lui un attaccante pressoché completo, capace di giocare in più posizioni. «Se giocasse in un piccolo club e non nel PSG», conclude «ci sarebbe la fila per aggiudicarselo».
E invece, JKA si trova ai margini della squadra: disputerà soltanto 430 minuti, molti delle quali subentrando a partita quasi terminata, in un contesto in cui le partite del PSG, intorno all’80’, avevano già praticamente detto tutto quel che c’era da dire.
Quando, la stagione successiva, arriva Unai Emery, e soprattutto Zlatan lascia Parigi per Manchester, per Augustin si spalancano le speranze di entrare in un meccasnismo di rotazione: di fronte, ora, ha soltanto Edison Cavani. Il minutaggio, paradossalmente, finisce per dimezzarsi.
Unai lo accusa di incostanza; Blanc, di suo, lo tacciava di noncuranza. Eppure JKA è sì un calciatore pieno di sé, ma anche estremamente umile nella maniera in cui approccia il campo nei pochi scampoli di partita che gli vengono concessi. Ma se è vero che spesso sembra indolente, specie quando gioca con i suoi coetanei, forse troppo sicuro della propria superiorità, non ha quell’arroganza imberbe da uno contro tutti del primo Mario Balotelli, verso il quale JKA nutre un’ammirazione ingenua che lo porterà a mettere, nel Maggio 2017, dopo una sconfitta del PSG contro il Nizza, un “like” a una foto dalla didascalia «Ici c’est PAS Paris» che scaternerà l’ira dei tifosi parigini. Di fronte all’esclusione, Augustin non si racchiude nel suo bozzolo. Non è il tipo in perenne sfida col mondo: JKA è più il tipo di ragazzo che soffre non tanto dell’esclusione, quanto della freddezza del sistema di cui fa parte. Quando, a settembre, ha litigato con l’allenatore dell’U21 Sylvain Ripoll, l’ha fatto - a suo dire - perché «non gli parlava mai».
Sproporzionato
Anatroccolo in un club di pavoni, JKA si trasforma in un cigno-Godzilla quando l’aia si è miniaturizzata. Per quanto l’Europeo U19 del 2016 verrà ricordato come il momento in cui è esplosa la supernova Mbappé, non dovrebbe passare troppo sotto traccia come il fautore principale del successo dei "Bluets" sia stato proprio Augustin:MVP e cannoniere del torneo con 6 reti in 5 partite. In quel torneo, ogni due palloni che ha sparato contro la porta avversaria si è depositato in fondo al sacco: fisicamente, tecnicamente, per portata carismatica Augustin era semplicemente sproporzionato, troppo più forte degli avversari, troppo fisicamente più formato, troppo di un’altra categoria.
La facilità con cui affonda nella difesa dell’Olanda nella semifinale, la naturalezza con cui afferra un pallone vagante e lo trasforma in un missile terra-terra, ogni dettaglio ci sussurra la superiorità di JKA.
Dopo 5 minuti della finale contro l’Italia, Augustin riceve palla sulla sua trequarti: ha due difensori alle spalle, ma li scarta con una veronica fluida come si fa con le caramelle da dieci centesimi, con sufficienza, superando il portiere più in un incaponimento narcisistico che nella vera utilità di dribblarne un altro.
L’anno dopo, nel Mondiale U20, pur fermandosi agli Ottavi JKA dimostra di essere davvero fuori proporzioni. Lo favorisce, certo, anche il contesto. Nella gara col Vietnam, nel girone, mette in mostra un compendio di velocità, precisione, aggressività e pericolosità che sembrano ingenerosamente fuori dalla portata degli asiatici.
Il rigore alla Panenka, l’atteggiamento eccessivamente sicuro di se stesso, lo swag, sono caratteristiche che Augustin inscena però anche quando l’asticella della competitività si alza. Contro l’Italia, per esempio, anche se la Francia perderà: la maniera in cui sfida Zaccagno è abbastanza eloquente di quanto JKA sia consapevole della sua dimensione, dello stato della lievitazione raggiunto. Dev’essere anche per questo che ha deciso, nell’estate dei suoi vent’anni, di lasciare la squadra per cui ha sempre tifato, e scegliere di mettersi alla prova in un campionato, la Bundesliga, così lontano dalla sua cultura calcistica eppure così confacente alle sue caratteristiche.
Il Reb Bull Lipsia gli ha messo... insomma avete capito
L’RB Lipsia è una squadra giovanissima. Tutti i suoi calciatori migliori non hanno più dei 25 anni di Forsberg: Naby Keita 22, Upamecano 18. Il futuro centravanti della Nazionale tedesca, Timo Werner, ha solo un anno di più di JKA. Giovane, affamato e voglioso di mettersi in mostra: l’identikit del calciatore perfetto nel modello Lipsia combacia esattamente al profilo di Augustin.
Ad oggi JKA ha già assemblato il doppio del minutaggio racimolato in due stagioni con il PSG. Il tecnico, Ralph Hasenhüttl, gli concede fiducia ma non gli fa saltare la fila in un reparto in cui, come detto, oltre ad Augustin c'è Timo Werner e un altro nazionale, il danese Yusuf Poulsen. Ha undici presenze in Bundesliga, di cui l’esatta metà impegnato come supersub (da metà ottobre in poi, quando Werner è tornato a pieno regime) incaricato di spezzare le partite in corsa con la sua rapidità: perché JKA è quel tipo di attaccante capace di muovere gli equilibri con i movimenti, senza essere particolarmente pericoloso. Anche se tira 2.6 volte ogni 90', prende la porta solo 1.2 volte; e dribbla 4.6 (sempre ogni 90') a partita riuscendoci 2.6 volte. Non è ancora l’attaccante che, come si dice, è in grado di reparto da sé. Soprattutto nella transizioni offensive, però, Augustin trasmette un senso di pericolosità non da tutti: è uno di quelli in grado di far succedere cose.
Nella seconda giornata, contro il Friburgo, ha messo in mostra tutto il campionario delle sue giocate: potente e dinamico come una locomotiva sferragliante, JKA ha mostrato anche tutti suoi difetti, come la difficoltà di controllo - che spesso dipende dalla velocità eccessiva che imprime alla sua corsa. Secondo Hasenhüttl è «un giocatore completo, [...] il suo stile di gioco si è molto adattato al nostro: c’è molta verticalità, e lui è capace di prendersi lo spazio in profondità, mettere sempre alla prova la sua velocità. Non si arrende mai, non si mette mai in modalità “pausa”».
JKA si considera «un creatore di gioco» più che un centravanti. Quando gli chiedono di indicare il giocatore cui si ispira, però, cita Luís Suárez. Con l’uruguaiano condivide l’impressione, destata fin dalla giovane età, di giocare già come un veterano. Augustin sa già controllare perfettamente la sua esplosività muscolare e tra una sessione d’allenamento e l’altra lavora in sala pesi. «È la caratteristica principale del mio stile di gioco», dice. Bisognerà pur coltivarla.
Quell’esplosività gli permette di giocare negli spazi stretti con una reattività difficile da imbrigliare: è il propellente a giocate come quella contro il Porto. Grazie all’esplosività arriva per primo su palloni che ha sporcato con tocchi insicuri, oppure imprime strappi violenti alla transizione offensiva, quasi rivendicando in maniera bullistica il suo carisma, il suo strapotere atletico. Con il corpo difende passaggi, usandolo maestosamente come velo, per poi autoinnescarsi. Quando viene chiamato a scegliere su quale piano impostare la sfida all’avversario, atletico o tecnico, intuitivamente punta sempre sulla prima modalità. Che sposta, inevitabilmente, gli equilibri della seconda.
Sa di dover migliorare e per farlo si impegna con una dedizione che il personaggio non lascerebbe presagire: nella prima stagione da professionista ha preso di suo sponte una sola settimana di vacanza, e ha passato l’altra con Hakim Hamouche, un preparatore atletico privato. A casa, dopo gli allenamenti, prova e riprova le azioni di gioco. «Quello che ho fatto in America», dice riferendosi alle 5 reti in 5 partite «l’avevo già provato mille volte da solo».
Fare le scelte giuste
Nel 2014, prima che facesse il salto in prima squadra, Augustin confessò di ispirarsi al percorso di Bahebeck, l’attaccante cresciuto nelle giovanili parigine transitato senza troppo clamore anche per Pescara. È qualcosa di paradossale, a rileggerlo oggi che sappiamo le difficoltà che sta avendo Bahebeck, dopo il prestito a Pescara dello scorso anno e adesso a Utrecht: non proprio il primo esempio di successo che possa venire in mente a un giovane calciatore; ma dall'altra parte è eloquente di come il PSG abbia saputo, o non saputo, valorizzare i suoi canteranos. Bahebeck, Ongenda, la stessa tardiva esplosione di Rabiot: è difficile sfondare subito sotto la Tour Eiffel. Coman, per mettersi in mostra, è dovuto addirittura fuggire da Parigi.
Appena arrivato a Lipsia, Augustin ha scritto su Twitter: «Avevo preso atto di un cambio d’ambiente necessario per progredire». A Lipsia, più dell’ingaggio, ha trovato un progetto di gioco attraente, grandi risorse materiali, un «capitale umano di grande qualità».
La maturità di un calciatore, in campo e fuori, si vede nella giustezza delle scelte. Quelle che finora ha compiuto Augustin, così come il suo decision-making in campo, raccontano di un ragazzo esagitato, forse persino forsennato, che ha scelto la Bundesliga per uscire dal proprio bozzolo di comfort, ed è stato come se per certi versi si fosse lanciato in discesa verso il fondo del dirupo, sperando che il parapendio regga l’impatto con la corrente ascensionale.
Chissà che non si riveli, nel futuro, la scelta più assennata che JKA potesse fare.