Negli ultimi sei mesi la mia infatuazione per Jürgen Damm ha assunto quella dimensione patologica tipica che prende il nome, nella vulgata, di sindrome della crocerossina.
Ci siamo arrampicati insieme, io intento a prendere appunti sul suo gioco per stendere questo pezzo, lui continuando a ignorarmi, sul picco più alto delle montagne russe, coinciso con la finale di Copa Libertadores: se di deflagrazione si stava per parlare, il primo con i tappi alle orecchie e gli occhiali protettivi, pronto a godersi lo spettacolo pirotecnico della sua infiorescenza, ero io.
Ma ora che, negli ultimi tempi, le sue performance si stanno schiacciando verso una monodimensionalità che nel calcio olistico può sembrare preoccupante, avrei voglia di salvarlo, di caricarmi sulle spalle tutte le responsabilità della sua incapacità di essere un giocatore completo.
Il che non significa che non continui a essere, nelle caratteristiche che più lo connotano, devastante: è di questo suo aspetto Juggernaut che mi sono innamorato, prima che la fiammella cominciasse lentamente ad assopirsi. Il mio psicanalista direbbe che le radici di questo nostro amore malato affondano nella mia voglia di semplificazione. Non è da escludere che possa avere ragione.
Come in una centrifuga
Jürgen Damm è quel ragazzino con la maglia verde e i calzettoni rossi che in questo spezzone di gara del campionato messicano brucia l’erba sulla fascia. O se preferite, il calciatore che sfida i cartelloni pubblicitari luminosi con uno scatto uguale e contrario:
C’è un’assonanza tra le parole "Damm" e "dáme", «dammi» in spagnolo, che trascende la dimensione triviale e si fa tautologia: Damm è l’uomo-assist par excellence, o almeno lo era fortissimamente quando vestiva la maglia del Pachuca.
Come per Troy McClure ne I Simpson, probabilmente vi ricorderete di Jürgen Damm per quella classifica, uscita un po’ di tempo fa e in realtà molto superficiale, sensazionalistica e non del tutto surrogabile da un fact checking plausibile, sui calciatori più veloci del mondo: il messicano appena ventunenne si era intrufolato al secondo posto tra Bale, velocista principe con i suoi 36.9 km/h, e gente come Antonio Valencia, Aaron Lennon e CR7 (il fatto che Salah facesse perlopiù panchina nel Chelsea non mi sembra comunque un buon motivo per escluderlo sub judice).
Di questo quintetto ho visto giocare dal vivo tutti tranne Damm, rimanendo esterrefatto dalla loro capacità di imprimere alla corsa un surplus energetico, turbodinamico, che in mancanza di riferimenti culturali più alti mi viene da paragonare soltanto allo sbocconcellamento di un Fungo Scatto di Mario Kart.
Il rumore della bora, o qualcosa di simile.
Ho fantasticato a lungo sulla dimensione mitica che avrebbe potuto assumere una tale rapidità insufflata nelle gambe secche di un ventenne messicano alto un metro e ottantacinque con un nome teutonico, con la riga a destra, le orecchie leggermente a sventola che parla del suo dono con un’ingenuità così immacolata da mandarti fuori fuoco la percezione, e apparire quasi spocchiosa: «La verità è che non ho nessun segreto. La velocità non si acquisisce, non è qualcosa che puoi allenare: è congenita, ce l’hai o no, e io non faccio niente di speciale».
Nulla di speciale tranne rallentare dopo esserti lasciato dietro un buco nero e attendere quei tre secondi che arrivi il compagno rimasto indietro nella lettura dell’azione, si intende.
Così come, quando ci innamoriamo di una ragazza, ci appare nei pensieri sempre con quel vestitino a fiori e il mare alle sue spalle, immagine sempiterna che ci è rimasta stampata nelle retine, allo stesso modo non riesco a scindere il profilo di Damm dalla linea laterale del campo sullo sfondo: in ogni foto che lo ritrae in azione la striscia di gesso in polvere è immancabile. Quello è il suo habitat naturale, la sua dimensione, il suo luogo nel mondo.
L’heatmap classica di Jürgen Damm: è come se per lui il campo da calcio fosse ristretto alla fascia destra, una specie di piscina olimpionica nella quale cercare il record di vasche/minuto.
Diretta conseguenza della sua posizione in campo, ovviamente, è l’evoluzione delle sue caratteristiche: se alle giraffe è venuto il collo lungo per raggiungere i rami più alti, darwinianamente Damm ha sviluppato uno stile di gioco adeguato alla specie dei velocisti. Non importa che venga impiegato da centrocampista offensivo destro in un 4-2-3-1 o da ala pura nel più classico dei 4-4-1-1 de El Tuca Ferretti: il suo gioco è permeato, e solo se analizzato in maniera superficiale volutamente, da un solipsismo spinto che poggia sui pilastri dell’Individualità e dell’Ultimo Passaggio. Ciò non significa, non del tutto, che Damm non giochi per la squadra.
Un tutorial, rudimentale ma non per questo meno efficace, che spiega esaustivamente il ruolo particolare che Ferretti ha ritagliato per gli esterni d’attacco nel suo schema di gioco.
Jürgen Damm, nel 4-4-1-1 dei Tigres, ha il suo riflesso speculare, direi un alter ego sulla fascia opposta, in Javier Aquino. Sebbene i due per molti versi non si somiglino affatto (Aquino ha il baricentro basso e centrifuga le gambe nella maniera classica degli esterni minuti, Damm ha lunghe leve e sembra sospinto da un refolo d’aliseo), il loro ruolo nel meccanismo di gioco di Ferretti è identico. La tattica principalmente adottata dai Tigres si basa su un possesso di palla sostenuto, e sulla basculazione della sfera da un lato all’altro del campo.
Il momento propizio che questo tipo di gioco sembra perseguire è quello in cui si spalanca lo spazio sulla fascia e i due esterni possono incunearvisi. Damm e Aquino sono l’anticamera, da quando sono approdati nel club di Monterrey, della conclusione di ogni azione, specie da quando al centro dell’attacco troneggia Gignac: dai piedi dei due laterali partono i cross che cercano la finalizzazione del centravanti francese.
Nella semifinale di Copa Libertadores vinta per 3-1 contro l’Internacional de Porto Alegre, gli affondi di Damm hanno propiziato non solo le reti di Gignac e la "paloma" di Arévalo, ma in un certo qual modo anche la momentanea rete del 2-0.
Il raddoppio contro l’Internacional, anche se di fatto è un’autorete, è quasi completamente merito di Damm: l’allungo verso l’area avversaria incute un tale timore nel difensore che questo, nel tentativo di spazzare, finisce per infilare la propria porta.
Il ruolo di Damm, così come quello di Aquino, non so quanto consapevolmente, ma di certo conseguente al loro posizionamento in campo, è anche quello di catalizzatori di pericolosità: quando sono in possesso di palla i difensori avversari si aggrumano intorno a loro, lasciando molta ariosità alla manovra, enormi spazi bianchi nel tentativo di riempire i quali, spesso, si creano i presupposti per la superiorità numerica sulla fascia opposta.
E non è tutto: a questa aggressività compartecipano anche i terzini o i laterali bassi, che puntano gli interni di centrocampo proprio con l’intento neppure troppo velato di spalancare autostrade sulle fasce.
Se Jürgen sapesse rendersi protagonista di giocate come questa qua sopra con più frequenza, diciamo anche solo una volta ogni due settimane, probabilmente il gotha del calcio mondiale sarebbe già ai suoi piedi. Se invece è ancora soltanto nel taccuino dei miei Preferiti è perché Damm, in realtà, sembra avere quasi un’idiosincrasia per il tiro: solo il 25% delle sue conclusioni—mai da fuori area, e sempre dal versante destro—centrano la porta. A Damm è come se mancassero (o si rifiuta solo di darne sfoggio? E se sì: me lo fa apposta?) certi fondamentali: negli ultimi mesi dalla sua teca sono scomparsi il lancio lungo, e pure il passaggio filtrante, verticale.
La verticalità è una dimensione che rivendica egoisticamente per sé: affronta il duello con un mood quasi à la Zorro, superomista. Spesso riesce ad arrivare sul fondo, danzare sulla linea e servire assist per i compagni che arrivano a rimorchio: nel giochino delle associazioni di pensiero mi ricorda il Vincent Candela dell’anno dello scudetto. Ma la sua, a volte, è una fissazione che sfocia nell’autolesionismo. In un’intervista gli hanno chiesto cosa migliorerebbe del suo gioco. Non ha avuto esitazioni: «Vorrei che i miei ultimi tocchi potessero essere più adeguati».
Conseguenza principale dell’incaponimento sull’affondo: poca lucidità in fase conclusiva. Qua Damm sbaglia il gol che—forse iperbolicamente, forse no—avrebbe potuto portare la Libertadores per la prima volta in Messico.
Nell’ultimo mese l’ho osservato ogni volta che ne ho avuto occasione, e ogni partita è stata un colpo al cuore: di fronte a sé è come se si fosse innalzato un muro di gomma sul quale rimbalza, una barriera elettromagnetica che lo indebolisce e lo rende vulnerabile. Tutto ciò che prima gli riusciva in surplace ora lo espone a potenziali figuracce praticamente in ogni azione. In ognuno dei match che ho visto ha perso almeno 10 dei tackle intrapresi. La squadra ha cominciato a cercarlo meno, a puntare più su Aquino: il numero di azioni che lo hanno visto coinvolto, a distanza di tre settimane, dalla sfida al Pachuca a quella contro l’Atlas, si è drasticamente dimezzato (da 105 a 68).
E come sempre avviene in chi è affetto dalla sindrome della crocerossina, il mio amore incondizionato si è acuito in maniera proporzionale al suo annegare, singultoso ma inesorabile.
Poca fame?
Jürgen è nato a Tuxpan, la città dalla quale nel 1956 è salpata la Granma di Fidel Castro diretta verso la Revolución cubana. Con la sua famiglia si è trasferito a Toronto, in Canada, poi di nuovo in Messico, a Guadalajara. È lì che è scoppiato il suo amore per il calcio: il suo idolo era Adolfo Bofo Bautista.
Com’era quella teoria degli opposti che si attraggono? Cioè, Bautista è praticamente il tipo di calciatore più distante da Damm che sia possibile immaginare. (Ma se fossi stato un ragazzetto di Guadalajara credo che me ne sarei innamorato anch’io, dopo questa follia qua).
Ha iniziato a giocare a pallone tardi, in verità, già diciassettenne. Prima non aveva mai pensato seriamente a una carriera da calciatore: il padre, figlio di un immigrato tedesco, lo aveva spinto a puntare tutte le fiches sullo studio. Poi, quasi per gioco, ha fatto un provino con l’Atlas.
«Non avevo la fame che hanno i ragazzini che non hanno niente. La mia famiglia è sempre stata benestante», ha confessato. «Anche se un po’ lo soffrivo, non avere questa fame».
Nonostante i primi approcci disillusi, in realtà Damm ci crede fortissimo: all’Atlas non sembrano molto interessati alle sue evoluzioni, quindi sceglie di trasferirsi all’Estudiantes Tecos.
Nelle foto dell’epoca non sembra per niente uno studente in Erasmus: direi che ha più il piglio di un giovane marine in addestramento prima della missione.
Le fortune di Damm, in definitiva, sono arrivate con l’inglobamento dell’Estudiantes Tecos nel Grupo Pachuca, la multiproprietà calcistica dell’imprenditore Jesús Martínez Patiño che, in compartecipazione con la Carso del magnate Carlos Slim, detiene oggi le quote di maggioranza di CF Léon, Pachuca, Tecos e Real Oviedo in Spagna. Jürgen si è così trovato a essere ricollocato al Pachuca, la squadra di punta del gruppo, campione della Champions CONCACAF per tre anni su quattro dal 2007 al 2010.
Il sistema di multiproprietà che vige nel calcio messicano, per certi versi, può risultare anche virtuoso: Damm, che era uno dei giovani prospetti più interessanti del gruppo, ha avuto l’opportunità di formarsi in parte anche in Europa, dove ha svolto provini e stage sia all’Oviedo che al Manchester United, società con la quale Marco Garcés, all’epoca direttore tecnico del Pachuca, aveva una specie di filo diretto. «Durante il provino ho sbagliato un passaggio per Rooney», ricorda. «Sono stato male per giorni».
Una gabbia dorata
Dopo due stagioni nel Pachuca, discontinue ma illuminate da sprazzi di potenzialità di un nitore abbacinante, nel giugno di quest’anno Jürgen è stato acquistato dai Tigres di Monterrey, ambiziosa società di proprietà della Cemex con la Libertadores nel mirino: quello avvenuto nel Draft di Cancún è stato il trasferimento più caro della storia del calcio messicano.
Si è speculato molto sulla scelta del giovane Jürgen: perché ha accettato di rimanere in patria, dove al di là delle plausibili ambizioni continentali dei Tigres non sembra avere margini di miglioramento poi così ampi, anziché tentare un trasferimento in Europa? Lo avevano cercato molti club in Spagna e Germania, e anche la Roma, in Italia. Ferretti, poi, non è proprio il tipo di allenatore che concede grandi opportunità ai giovani.
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In base alle regole del Draft messicano, ai giocatori spetta una percentuale pari al 10% dell’ammontare dei trasferimenti: a Damm, per intenderci, i Tigres avrebbero dovuto staccare un assegno di un milione di dollari. Forse è per questo che ha optato per i Tigres.
O forse semplicemente perché El Tuca gli ha sempre dimostrato grande fiducia, schierandolo da titolare in tutte e quattro le partite di Libertadores, forse le più importanti che i Tigres avessero mai giocato nella loro storia, che rimanevano per cercare di arrivare fino in fondo al certamen continentale.
Con il sogno de El Tri
Prima che El Piojo Herrera lo convocasse per l’amichevole contro l’Ecuador del marzo scorso, Jürgen non aveva mai vestito la maglia di nessuna delle Nazionali minori del Messico: per certi versi è un fatto abbastanza sorprendente, per altri la dice lunga sull’approccio sperimental-dadaista che era tipico del vulcanico selezionatore de El Tri.
C’è un aneddoto curioso sul suo debutto: quando Herrera, a otto minuti dal termine, gli ha chiesto di scaldarsi per fare il suo ingresso in campo, Damm ha realizzato di aver dimenticato nello spogliatoio la sua maglia di gioco: Jonathan dos Santos, il fratello di Giovani, gli ha prestato la sua.
Finora la carriera di Damm in Nazionale non è stata fortunatissima: inserito da Herrera nella pre-lista per la Copa América e la Copa Oro è stato costretto a saltare entrambe le competizioni per i postumi di una brutta infezione da salmonella. Ho riguardato più volte il video in cui, dopo aver accolto l’intervistatore indossando un paio di ciabattone di Homer Simpson e averlo guidato per il suo appartamento, dove un plaid col suo volto stampato su troneggia sul divano in una celebrazione del culto della personalità che non mi sarei aspettato da lui, cucina una ricetta che gli ha insegnato la nonna: calamari, lime, pomodoro, burro. Sembra così cosciente del fatto che il pesce sia meglio mangiarlo cucinato.
La ricetta dei Camarones Jürgen.
La verità è che Jürgen è stato molto sfortunato a trovarsi catapultato nel giro de El Tri in un momento storico in cui, nel suo ruolo, il Messico ha una quota-talenti quasi in esubero: scalzare Héctor Herrera e lo stesso Jonathan dos Santos dalla fascia destra è una sfida già di per sé complicata, resa ancora più ostica dal fatto di non poter più puntare sulla sponsorizzazione né di Herrera, che per primo aveva creduto in lui, licenziato in tronco dopo la Copa América, né del Tuca Ferretti, sollevato dal suo incarico ad interim dopo la vittoriosa sfida contro gli Stati Uniti che ha regalato al Messico il pass per la Confederations Cup del 2017 (e che comunque lo aveva lasciato fuori dal big match).
«Io sono tranquillo», ha dichiarato Jürgen dopo l’ennesima esclusione. «I profe me lo hanno detto, sono giovane. Se fossi sceso in campo sarei stato il più giovane. Non abbandono il sogno di poterci essere, un giorno, per me è un’ambizione molto grande. Ma i tempi di Dio sono perfetti, e io devo solo continuare a lavorare. Seguirò i loro consigli, c’è solo da lavorare, tra poco è già tempo delle gare di qualificazione, c’è un nuovo allenatore (il colombiano Osorio, NdA) e devo lavorare per guadagnarmi la sua fiducia».
Lacrime eterne?
Jürgen Damm, figlio meticcio del Messico del ventunesimo secolo, nelle ultime settimane si è accorto di non essere amato dai suoi tifosi: ha detto, grosso modo, di giocare solo per la squadra e per il suo allenatore, e di fregarsene di quello che pensano i tifosi, perché secondo lui «di calcio non capiscono niente». Pochi giorni dopo i Tigres lo hanno costretto a scusarsi pubblicamente.
Una delle leggende messicane più conosciute al mondo è quella de La Llorona. Parla di una donna indigena, innamorata—senza essere ricambiata—di un conquistador con il quale mette al mondo due figli meticci: quando si accorge dell’impossibilità della loro relazione, li affoga in un fiume. Da quel giorno è costretta a vagare per l’eternità nel rimpianto e nella costernazione, destinata a piangerli in eterno.
La storia recente di Damm, il rapporto incrinato con i tifosi, con me che pensavo fosse amore, l’impossibilità di una relazione duratura con El Tri, i temi del rimpianto e della costernazione mi si sono pericolosamente mescolati in testa. Il mio psicanalista direbbe che le radici di pensieri del genere affondano nella mia voglia di complicazione. Non è da escludere che possa avere ragione.