Per alcune settimane di dicembre un ragazzino ha girato l'Europa ospite delle società che partecipavano a una corsa al predestinato. Ha visitato i centri sportivi, si è allenato con le squadre, ha ricevuto complimenti (per esempio da Karl-Heinz Rummenigge che lo voleva al Bayern: “È un talento eccezionale e un bravo ragazzo, molto maturo per la sua età”). Tutti i migliori club d'Europa gli stavano dietro, tutti volevano fargli firmare il primo contratto da professionista.
Il Barcellona puntava sulla suggestione di giocare con il suo idolo, Leo Messi; il Celtic Glasgow sull'allenatore che l'ha lanciato, Ronny Deila; il Liverpool su una dichiarazione rilasciata dallo stesso ragazzino in cui diceva che la maglia dei Reds era sempre stata il suo sogno.
C'erano poi il Real Madrid, l'Ajax, le due di Manchester, il Southampton con il suo grandioso settore giovanile... Lui non si sbilanciava ma nemmeno respingeva i corteggiatori. Gestiva questa fase cruciale della sua vita con una lucidità piuttosto impressionante. Non si fatica a credere al giornalista che l'ha intervistato in esclusiva per «Sport Bild» a novembre, quando scriveva che la sua stretta di mano è come il suo tocco del pallone: “delicata ma sicura”.
Mondiali di Francia '98, Marsiglia, ottavi di finale, Italia-Norvegia 1-0. È il 27 giugno 1998 e Ødegaard non è ancora nato.
Martin Ødegaard è nato sei mesi dopo l'ultima gara della Norvegia in una fase finale della Coppa del Mondo, il 17 dicembre 1998. Cioè, ha appena compiuto sedici anni.
È il più giovane esordiente nella storia del campionato norvegese (15 anni e 118 giorni, aprile 2014). È il più giovane esordiente nella storia della nazionale norvegese (15 anni e 253 giorni, agosto). Ed è il più giovane esordiente nella storia dei campionati europei (15 anni e 300 giorni, ottobre).
Di recente su Twitter ha caricato un album di Chris Brown, commentando “Old but gold”. Vecchio, dalla sua prospettiva, perché l'album è del 2005.
La mia passione per Ødegaard ha a che fare con l'età, con il peso dei fari addosso quando non puoi essere pronto a sostenerli eppure devi. E ha a che fare con Jari Litmanen, una passione più antica, e con tutti i prodigi del calcio nati in Paesi dove il calcio ha avuto pochi prodigi.
Ho iniziato a seguire il wonderkid scandinavo la scorsa primavera, sconvolto dall'idea che in una massima serie europea giocasse titolare uno con la metà dei miei anni. Il fatto che quel campionato fosse la Tippeligaen deludeva gli amici a cui raccontavo la cosa (“Vabbè, in Norvegia...”) e non mi faceva ricevere le congratulazioni che volevo per lo scouting. Poi, all'improvviso, Martin Ødegaard è diventato il crack sulla bocca di tutti. Il sito del più diffuso quotidiano norvegese, l'«Aftenposten», ha calcolato che nei quattro mesi fra agosto e dicembre sono usciti articoli su Ødegaard in settantotto Paesi (2.837 in Norvegia, 4.174 all'estero).
19 ottobre 2014, Strømsgodset vs Lillestrøm 2-1. La sua prima e unica doppietta, finora.
Da sempre si trova a giocare con ragazzi più grandi di lui. La volta che sta con i pari età finisce per fare undici gol in una partita. A tredici anni viene aggregato, per un'amichevole, alla prima squadra dello Strømsgodset. La condizione di sottoquota mi pare una condanna: escluso per manifesta superiorità rispetto ai coetanei, al tempo stesso non sei mai fra persone allo stesso punto del percorso. Lui comunque sembra divertirsi ed essere contento così, saranno problemi che mi faccio io.
Nell'ultima Tippeligaen, tra aprile e novembre colleziona 23 presenze (1.451 minuti giocati), con cinque gol e sei assist. Al suo debutto, sostituisce Péter Kovács che è del '78 e potrebbe essere suo padre. Da quando inizia a giocare in prima squadra, Ødegaard diventa un titolare di quella che si dimostrerà la quarta forza del campionato. Dopo aver realizzato il primo gol (altro record: più giovane marcatore nella storia della Tippeligaen), corre verso le gradinate e abbraccia dei ragazzini, gli unici più piccoli di lui che possa trovare.
Anche con le rappresentative nazionali fa un percorso spaventosamente veloce: a settembre 2013 esordisce in Under15, neanche un anno dopo (27 agosto 2014) è in campo con la nazionale maggiore.
Com'è essere presi in giro dai propri coetanei, lo sappiamo. Com'è, invece, quando i coetanei ti dicono che sarai il più forte del mondo (4:30, ma è solo la conclusione di un'intera sequenza, ambientata alla festa cittadina di Drammen, che vale la pena)?
“Non usa la sua abilità tecnica a vuoto”, ha spiegato Jérémy Berthod al sito francese So Foot che lo ha intervistato in quanto unico connazionale ad aver incrociato Ødegaard su un campo di gioco (Berthod gioca nel Sarpsborg 08).
Centrocampista offensivo nel 4-2-3-1, mobile fra i tre alle spalle della punta, ama sfruttare la sua velocità sull'esterno e convergere poi verso il centro. Per i piedi che ha, per l'età che ha, per il calcio macchinoso in cui ha giocato finora, Ødegaard è innamorato del suo dribbling, che spesso gli fa saltare l'uomo e creare superiorità. Forse un po' troppo innamorato. Ha una sorprendente visione di gioco, che lo rende pericoloso nell'ultimo passaggio e utile in fase di non possesso. Grazie a questa lettura, gli capita di togliere palloni a giocatori molto più grossi di lui.
Ha un buon tiro da fuori. Il pallone non gli si stacca dai piedi, anche quando viene messo sotto pressione è capace di sgusciar via, magari con una giocata rischiosa. Mancino, un po' troppo. Leggero, un po' troppo. Ovviamente ha tutto il tempo per recuperare muscolatura e confidenza con il destro. Vivace, guizzante, fa un ottimo movimento senza palla. E più di tutto colpisce l'imprevedibilità delle sue giocate, la capacità di trovare soluzioni originali facendole sembrare semplici. Sembra un radar che suddivida lo spazio in una griglia più fitta in confronto a quelle degli altri radar. Taglia parecchie palle in obliquo, invece che su linee orizzontali o verticali; corre spesso a zig-zag, disegnando traiettorie che non danno riferimenti.
Il paragone in patria viene fatto con Roald Jensen detto “Kniksen”, il prestigiatore, mitico centrocampista offensivo del Brann Bergen e degli Hearts di Edimburgo fra gli anni Sessanta e i primi Settanta. Lo ricorda per la tecnica e l'estro, per l'attenzione mediatica, e perché quello esordì in nazionale a diciassette anni. Ma parliamo di un tempo lontano, in cui la federazione norvegese vietava la convocazione di giocatori impiegati in campionati stranieri – Kniksen giocherà solo 31 gare in nazionale.
Una buona sintesi del talento di Ødegaard, in un video fatto per dargli il benvenuto al Bayern. Su Youtube ci sono anche video di benvenuto al Real Madrid e al Liverpool.
La sua città si chiama Drammen, dista quaranta chilometri da Oslo, ed è molto più che un sobborgo. Sessantamila abitanti, porto di notevole importanza, sta su un fiordo accoccolato alla foce del Drammenselva, uno dei più grandi e pescosi fiumi norvegesi. Ci sono varie attività industriali legate soprattutto al legno e alla pesca del salmone, c'è il più antico birrificio della Norvegia, e c'è lo Strømsgodset, la squadra che ha lanciato Martin.
Ødegaard, in norvegese significa “fattoria abbandonata”. A voler forzare, si direbbe che è scritto che Martin debba lasciare la sua terra. Ma il cognome è lo stesso di suo padre, bandiera della squadra della sua città. Suo padre Hans Erik è stato un calciatore anche lui, centrocampista anche lui. Nato a Drammen, anche lui. E anche lui ha iniziato allo Strømsgodset, ma ci è rimasto per undici stagioni, mettendo insieme 241 presenze. Ora è il viceallenatore del Mjøndalen, neopromosso nella massima serie norvegese. Al tempo stesso è il manager di suo figlio (che essendo minore di diciott'anni non può avere procuratore) e gestisce anche un negozio d'abbigliamento a Drammen. Lo zio Thomas è invece il fisioterapista della nazionale.
Il ruolo del padre è evidentemente decisivo in questa prima fase della carriera di Martin. Non può che essere Hans Erik a spostare gli equilibri intorno al figlio, nelle grandi e nelle piccole cose. Martin, appassionato di Football Manager, ha dovuto chiedere l'autorizzazione a lui per essere inserito nel database del gioco nonostante sia un minore di sedici anni. E Hans Erik ha risolto la cosa twittando una foto di sé stesso con una dichiarazione d'assenso.
La loro famiglia è cristiana praticante, lo stesso Martin è molto credente. Su Twitter ritwitta. Per questa devozione è al riparo, secondo Rune Bratseth, dall'idea che il calcio sia l'alfa e l'omega della vita. Capitano della Norvegia e colonna del Werder Brema tra anni Ottanta e Novanta, Bratseth fu scoperto da uno scout del Rosenborg durante un torneo fra le comunità religiose di Trondheim, dove indossava la maglia di una squadra chiamata “Salem United” che rappresentava la locale Chiesa Pentecostale.
La scorsa estate ha smesso di studiare lo spagnolo come seconda lingua, sostituendolo con il tedesco: il giornalista della “Sport Bild” nella sua esclusiva gli chiede il perché, sembra cercarci un'indicazione sulla scelta della nuova squadra, ma lui risponde che lo spagnolo gli risultava difficile e che comunque in tedesco sa giusto presentarsi. Non sembra un grande studente, Ødegaard. D'altra parte a scuola ci va quando non ha allenamento al mattino, altrimenti fa solo due ore.
Osservatori da tutto il mondo, interviste, pressioni. Ma c'è un peso extra sulle spalle del giovane prodigio, in questo caso: le aspettative di un Paese che non ha mai avuto grandi stelle. E mi viene da pensare a Litmanen, che mi ha sempre restituito un senso di isolamento assoluto.
Tra il 1990 e il 2000, “il Re” è stato eletto per nove volte come “Miglior giocatore finlandese dell'anno”, all'unanimità è riconosciuto come la leggenda del calcio finlandese di ogni epoca. Mi sembrava un Gulliver rovesciato, quando lo vedevo correre con la maglia dell'Ajax, del Barcellona, del Liverpool: moro, di media statura, acrobatico e coi piedi benedetti, in una terra di Sami Hyypiä.
La Norvegia non è tradizionalmente una fucina di eccellenza calcistica. Soprattutto in passato, non sono molti i norvegesi che hanno fatto carriere importanti fuori dalla Scandinavia. In Italia la prima vera eccezione è Per Bredesen, che negli anni Cinquanta giocò nove stagioni (Lazio, Udinese, Milan, dove vinse uno scudetto, Bari, Messina), e che i tifosi della Lazio soprannominarono “Varechina” per i capelli biondissimi. Gli anni Novanta segnano una cesura in questo senso: da Ole Gunnar Solskjaer a Erik Thorstvedt, da Henning Berg a Tore André Flo. Ma i giocatori di tecnica superiore, a parte un irregolare principe come Erik Mykland, hanno continuato a essere una rarità.
A proposito di pressione e isolamento, in questo speciale della tv norvegese si dicono cose come: “Abbiamo disperatamente bisogno di un eroe, un virtuoso, un artista” (il giornalista sportivo Davy Wathne a 0:24).
Veniva da trattenere il respiro, di fronte alla decisione che Ødegaard aveva di fronte. Un top club che gli lasci questi riflettori puntati o qualcosa di meno blasonato che lo protegga? Una società che lo faccia crescere nelle giovanili o una che lo inserisca subito in prima squadra? La Spagna, la Germania, l'Inghilterra o l'Olanda, secondo le sue caratteristiche e quelle dei rispettivi campionati?
Veniva da trattenere il respiro. E alla fine ha scelto il Real Madrid.
La mia idea è che sarebbe stato più romantico vederlo nella squadra che tifava, il Liverpool. Sarebbe stato più interessante scoprire come il Barcellona e il Bayern l'avrebbero inserito in prima squadra. Sarebbe stato più intelligente, forse, crescere tra meno pressioni in un settore giovanile come quello del Southampton.
Verosimilmente, comincerà con la squadra B dei Blancos, allenato quindi da Zinedine Zidane. Si farà le ossa, si dovrà adattare alla Spagna e al suo calcio, e per un po' non ne sentiremo parlare. Potrà ricordarsi di avere sedici anni, per un po'. E ricomincerà a studiare lo spagnolo.