C’era un’atmosfera surreale a Carpegna. La neve a bordo strada, la tappa regina della Tirreno-Adriatico, la mostra sul ciclismo organizzata a Palazzo dei Principi in centro al paese. Il grande freddo, il doppio passaggio sulla montagna di Pantani, il vin brulè preparato da chi gestisce il camping del Cippo. È qui che decido di godermi il passaggio della corsa, in uno dei pochi punti in cui la salita spiana e il gruppo fa la conta. Dall’altra parte della strada, un monumento in filo di ferro ritrae la sagoma di Pantani, su sfondo giallo, mentre si alza sui pedali con le mani basse sulle appendici.
È proprio così che decide di attaccare uno dei corridori più tragici del ciclismo contemporaneo: Mikel Landa – il cui stile ha trovato una nicchia di appassionati che lo chiamano, appunto, Landani – prova a fare selezione in discesa e in salita tenta ancora perché non ha nulla da perdere. Cambia ritmo un paio di volte, tiene un’andatura insostenibile per Hindley, Arensman e Pinot. Superato il sesto tornante, quello del fan club di Pantani, Landa viene sorpreso da un contrattacco: è sferrato dal leader della corsa, Tadej Pogacar. In maglia blu potrebbe stare sulla difensiva, invece parte. Se ne va.
Guarda concentrato il computerino che ha sul manubrio, la sua azione è pura efficienza. Solo pochi gesti esprimono umanità: si asciuga dalla condensa che si forma tra naso e bocca, spalancata solo in caso di necessità. Il fiato caldo compare e scompare nella foresta marchigiana. Sulla sua ruota, al momento dell’attacco, c’era Jonas Vingegaard, forse l’unico che è riuscito a metterlo in difficoltà nell’uno-contro-uno (sul Mont Ventoux al Tour 2021): non ha nemmeno provato a seguirlo.
Quando Pogacar se n’è andato, nessuno ha pensato che non potesse arrivare al traguardo. E infatti ha dato almeno un minuto a tutti. Davanti ai microfoni, finita la tappa, ha un brivido di freddo. Prova a nascondersi dentro lo scaldacollo, ringrazia la squadra per averlo scortato fino ai piedi della salita finale, poi ha «deciso di andare su col mio ritmo dopo qualche attacco, ho fatto del mio meglio per restare caldo. Faceva molto freddo». Gli chiedono del perché non avesse montato i freni a disco: «Bene, ci sono altre domande?» risponde con una risata. Poi spiega che i rim brakes «sono un po’ più leggeri, per me 300 grammi sono importanti su salite come quella di oggi».
Dominante
Pogacar sta sbriciolando questa stagione di ciclismo. Ha preso parte a tre corse a tappe (UAE Tour, Tirreno-Adriatico e Giro di Slovenia) e le ha vinte tutte e tre. Nei giorni precedenti alla Milano-Sanremo, ci si chiedeva non tanto se Pogacar attaccherà, ma dove Pogacar vincerà la corsa. Se lasciandosi tutti dietro sul Poggio o sulla Cipressa. Ha corso La Classicissima solo un’altra volta, nel 2020, decimo nella volata del gruppetto dietro Alaphilippe e Van Aert, eppure tutti temevano lui. Di recente il suo compagno di squadra Matteo Trentin lo ha ammesso con una risata: «Penso possa vincere qualunque corsa al momento, Sanremo compresa». Da quanto tempo non si vedeva un corridore in grado di vincere qualunque corsa?
Poco importa se tutti e tre i suoi attacchi sul Poggio sono stati assorbiti (Van Aert, che ha chiuso su due scatti, ha confessato di essersi cotto per non farlo andare via), ancora una volta Pogacar ha risposto affermativamente ad una domanda che ci si poneva su di lui. E cioè: Pogacar può vincere la Sanremo? Certo: fermando il cronometro a 5:41, è stato il più veloce di sempre nell’ascesa del Poggio.
Qualche anno fa ci si chiedeva se, non ancora ventenne, potesse vincere Giro del Friuli e Tour de l’Avenir, due delle corse più importanti per Under 23. Vinte entrambe. Al suo primo Grand Tour, la Vuelta 2019, si metterà in mostra? Sì: tre vittorie di tappa e terzo posto a Madrid. Al suo primo Tour de France, l’anno dopo, sarà in grado di ribaltare la classifica finale all’ultima tappa con una cronometro aliena? Certo, chi se lo scorda quel giorno. Ok, sei forte Pogacar, ma al Tour riesci a ripeterti? Chiaro, e nella stessa stagione vince anche UAE Tour, Giro di Slovenia, Liegi-Bastogne-Liegi, Tirreno-Adriatico, una medaglia olimpica, il Lombardia.
Proprio dopo il traguardo di Bergamo, parlando dell’incapacità dello sloveno di indirizzare la narrazione, Leonardo Piccione scriveva che «rispetto a quelli degli altri grandissimi del ciclismo contemporaneo, l’arco narrativo di Tadej Pogacar appare debole». Non è un fenomeno mediatico, non enfatizza le sue imprese, non lascia spazio a nessuno che possa frenarne l’ascesa (nei primi due capitoli del romanzo, Roglic è stato prima beffato e poi sfortunato, vedremo quest’anno). Un arco narrativo reso intrigante da, paradossalmente, due non-vittorie.
Stravincere e venire sconfitto
Tornando alla stagione corrente, la sua vittoria alle Strade Bianche è da mettere lassù, nell’Olimpo dei migliori attacchi da lontano degli ultimi anni. Nelle corse World Tour di un giorno dal 2010 ad oggi, solo tre volte la mossa decisiva è partita da più lontano: e sono azioni che ricordiamo tutti con nostalgia, come la Roubaix di Boonen nel 2012 o il Fiandre di Gilbert nel 2017. D’altra parte, non è vero che Pogacar ha sempre vinto, che ha sempre spaccato la corsa: lo scorso autunno è stato piuttosto incolore sia all’Europeo di Trento che al Mondiale belga. Solo una settimana dopo non aver finito il Giro dell’Emilia, invece, stravince il Lombardia, in una volata in cui Masnada non avrebbe avuto una chance nemmeno in e-bike.
Sempre Piccione sostiene che «talvolta si può ovviare all’assenza di antagonisti con un surplus di motivazioni da parte del protagonista, impegnato in imprese che assumono per lui un valore quasi escatologico». Qualcosa di inevitabile (l’ultimo Tour de France si è sostanzialmente chiuso dopo una settimana) e spaventoso (350 watt medi per quasi un’ora e mezza nell’attacco decisivo alla Strade Bianche) si manifesta nelle vittorie di Pogacar, ma allo stesso tempo lui è il contrario dell’androide. Ama genuinamente il lavoro che fa, fuori stagione si diverte a giocare a calcio e sciare perché «tanto fermo non ci so stare», sembra un bambino per come si comporta. Nel sopracitato Giro dell’Emilia, accortosi che non era giornata, si è messo ad impennare nel punto più ripido dell’ascesa al San Luca. Giocherellone, più che cannibale.
I ciuffetti che gli escono dal casco, i soprannomi che gli ha dato Riccardo Magrini, “il bimbo” o “Pikachu”, che richiama un mostriciattolo di fantasia adorato dai più piccoli, il profilo basso, il sorriso fanciullesco: anche i pochi aneddoti sulla sua infanzia restituiscono un candore d’altri tempi. Un giorno venne ripreso dalla maestra perché guardava distratto fuori dalla finestra e all’insegnante rispose che stava pensando «alle strade da fare in allenamento oggi pomeriggio».
Pogacar è inattaccabile non solo da un punto di vista dell’indole (in questo ricorda un po’ quel punto della carriera di Lionel Messi in cui nessuno, neanche i più cinici e maligni, riuscivano a trovare qualcosa di negativo da dire su di lui), ma anche sul piano strettamente sportivo. Non è banale arrivare a ventitré anni sostanzialmente immacolato, libero dal peccato: basti pensare a com’è stato crocifisso, in patria e non, il più giovane Remco Evenepoel dopo il Giro 2021. È un momento particolare per osservare Tadej Pogacar perché non è ancora incappato in un fallimento. O forse sì.
Una decina di giorni dopo la Sanremo, Pogacar prende parte al suo primo Giro delle Fiandre. È ovviamente una corsa leggendaria, lunghissima e durissima, che negli ultimi 140 km va su e giù da muri in pavé. L’ultimo debuttante a vincere la Ronde fu René Martens nel 1982, ma ovviamente Pogacar era considerato tra i favoritissimi. E infatti attacca ripetutamente: sul secondo passaggio sull’Oude Kwaremont ai -55 dal traguardo, sul Koppenberg una decina di chilometri dopo, portando con sé Valentin Madouas e Mathieu Van der Poel. I tre si riportano sulla coppia al comando, Fred Wright e Dylan Van Baarle, prima di affrontare per l’ultima volta Oude Kwaremont e Paterberg.
Pogacar affronta davanti entrambi i muri, mena a testa bassa, non si volta se non quando la salita spiana, in cima. Van der Poel è l’unico che gli sta dietro, anzi per diverse centinaia di metri gli sta a mezza ruota, sembra volerlo affiancare, come a dire “bè tutto qua?”. È una sfida tra fenomeni, un testa a testa tra i più attesi. Van der Poel ha un solo, piccolo momento di cedimento, quando sul punto al 20% del Paterberg perde lucidità e rischia di finire in una canalina a bordo strada. Pogacar lo sta tirando come la corda di un violino, ma non riesce a staccarlo.
I due entrano assieme nell’ultimo chilometro. Tutto sembra apparecchiato per una volata epica almeno quanto quella del 2020. Lo è stato, ma nel modo meno atteso. Entrambi si guardano, non vogliono prendere la volata in testa. Tagliano più volte tutta la sede stradale, ai -500 metri staranno facendo sì e no i 20 km/h. Spesso si dice che, in situazioni come queste, i ciclisti si rialzano: Pogacar e Van der Poel smettono proprio di pedalare. Pogacar riesce a mettersi a ruota del rivale, ma Van Baarle e Madouas, scollinati a trenta secondi sul Paterberg, rientrano.
Van Baarle e Madouas sono palesemente meno veloci di Van der Poel e Pogacar, ma sono corpi in più, due figuranti che impediscono a Pogacar di fare la volata che voleva. Gesticolando arrabbiato poco prima del traguardo e prendendosela con Van Baarle poco dopo, Pogacar ha mostrato un lato adulto, permaloso, incazzato, perdente. In una volata a due, Pogacar ha fatto quarto, ironizzano in molti. Eppure, di nuovo, Pogacar ha corso ad un livello spaventoso, dimostrando di poter vincere De Ronde più e più volte in futuro.
Il giorno dopo posta su Instagram una foto dalla foresta di Arenberg, il più delicato passaggio della Parigi-Roubaix. Su Twitter chiede se ci vedremo alla Roubaix. Un’idea, di poter vincere anche questa corsa, dev’essergli passata per la mente.
Ricapitolando: Pogacar a 23 anni ha già vinto Liegi e Lombardia, ha dimostrato di poter vincere Sanremo e Fiandre, punta alla Roubaix. Solo tre corridori (Merckx, De Vlaeminck e Van Looy) hanno vinto tutte e cinque le classiche monumento, nessuno dopo gli anni Settanta. Tra questi, solo Merckx ha vinto il Tour de France, cosa che a Pogacar è già riuscita due volte. Di questo stiamo parlando: accostamenti a Merckx.
La stagione di Pogacar è poi continuata con Freccia Vallone e Giro di Slovenia. Nella prima, sul Muro di Huy, è successa un’altra cosa inaspettata: anziché accendere il jetpack e lasciarsi tutti alle spalle, Pogacar ha ceduto di schianto. Ai -600 metri, Dylan Teuns attacca. Seguono Valverde e Vlasov. Sono i tre componenti del podio finale. Pogacar è proprio a ruota di Vlasov, prova ad alzarsi un paio di volte sui pedali, ma quando si riappoggia sul sellino la sua azione è così pesante che Alaphilippe deve scartarlo da destra. Lo sorpassano uno dopo l’altro corridori con la metà del suo talento, come Vuillermoz e Molard. Tadej Pogacar può piantarsi in salita? Davvero?
Dopo aver chiuso anticipatamente la stagione delle Ardenne a causa di un lutto nella famiglia della fidanzata, Pogacar ricompare al Giro di Slovenia. Mentre tutti i favoriti per la classifica generale del Tour de France si dividono tra Delfinato e Svizzera, Tadej preferisce la corsa di casa per affinare la condizione prima della Grand Départ in Danimarca. Difficile commentare il dominio di Pogacar su questa corsa: alla prima tappa attacca ai -59 dal traguardo correndo poi per farla vincere al suo compagno Majka, alla terza vince, alla quarta non vince perché ha scelto sasso e non forbici, alla quinta ha vinto di nuovo.
Alle prime tre tappe del Tour de France è andato – ovviamente, verrebbe da dire – molto bene. Nella cronometro iniziale è finito sul podio, facendo meglio di specialisti come Ganna o Kung. Pogacar è già terzo in classifica generale (primo tra gli uomini di classifica). Per dare un'idea delle aspettative che ormai ci sono nei suoi confronti basterà citare il fatto che, mentre sfrecciava tra le stradine di Copenaghen, qualcuno ha pensato che potesse replicare l’impresa di Ottavio Bottecchia, che nel 1924 vinse la prima tappa del Tour e rimase leader della corsa fino alla fine.
Com’è arrivato qua
Volendo rintracciare un Mr. Miyagi, Andrej Hauptman, ex professionista sloveno di buon livello, ha tenuto Tadej sotto la sua ala in una squadra di Lubiana Under 23 e tuttora lo allena alla UAE. Hauptman sostiene che Pogacar non abbia dovuto affrontare grandi difficoltà per arrivare al livello attuale: «Mai un problema. Sempre vigile, concentrato, nel posto giusto al momento giusto».
L’ascesa di Pogacar è stata idilliaca e lineare, al contrario, per esempio, di quella di Egan Bernal. Altro giovane baciato da un talento fuori dal comune, Bernal ha sofferto di problemi alla schiena dopo aver vinto il Tour de France; in gennaio, mentre si allenava su una bici da crono a Bogotà, non ha visto un autobus parcheggiato a bordo strada e schiantandosi contro di esso si è procurato venti fratture diverse. I due sono diametralmente opposti anche nel modo in cui vivono lo sport in cui eccellono: un caso studio è il loro rapporto con la figura di Marco Pantani.
Bernal idolatra Pantani. Ha incontrato la madre Tonina, la maglia rosa gli ricorda Pantani, una volta ha detto di non avere «nessuna foto mia in bici a casa ma ne ho una di Marco». Prima della tappa del doppio Carpegna, a Pogacar è stato chiesto di Pantani e lo sloveno ha risposto che sì, lo sa che quella è la montagna del Pirata, di averne visto le gesta su YouTube, ma ne parla con nessun trasporto emotivo, senza che quel nome gli faccia luccicare gli occhi. Dopo aver vinto il Giro, Bernal ha dedicato la vittoria agli appassionati di ciclismo, «a questo sport che ci fa emozionare». Ogni dichiarazione di Pogacar dopo una gara vinta segue invece più o meno questa falsariga: abbiamo fatto tutto bene, contento di averla portata a casa, grazie alla squadra per il lavoro svolto.
Non è uno migliore dell’altro, sono solo due modi diversi di vivere la professione. Come dimostra la crescente spiritosaggine di Roglic davanti ai microfoni, peraltro, le personalità di questi atleti sono tutt’altro che immutabili. A dispetto di un’immagine di Pogacar piatta, quasi noiosa, anti-carismatica, i racconti dei suoi compagni di squadra sono a metà tra il rispettoso, il riverente e l’esterrefatto: Marco Marcato, suo compagno di stanza alla Vuelta 2019 e oggi direttore sportivo in UAE, ricorda che Pogacar parlava poco e mai a vanvera, ma in camera si conversava di tutto, a partire da automobili di grossa cilindrata; Rafal Majka ha così tanta fiducia nel suo capitano che pensa possa vincere le corse «senza fatica».
E un bambino li condurrà
Nel numero 005 di Rouleur Italia, Andy McGrath racconta che le doti di leadership di questo ragazzino cresciuto a Klanec (che in sloveno significa salita, pendio) non sono da sottovalutare. Nella settima tappa del Tour 2020, da Millar a Lavaur, a circa trentacinque chilometri dal traguardo, Pogacar e tutta la UAE mancano il ventaglio buono e all’arrivo perderanno quasi un minuto e mezzo preziosissimo. «Come cazzo è potuto succedere?» tuona il team manager Allan Peiper nel bus della squadra. Uno ad uno i gregari vanno a scusarsi con Pogacar, che prende in mano la situazione: «Non preoccupatevi, domani attacco e mi vado a riprendere qualche secondo».
Detto fatto: il giorno dopo fa il vuoto sul Col de Peyresourde e guadagna una quarantina di secondi sugli altri uomini di classifica. A fine tappa dice che il nostro Tour comincia adesso e chissà cosa prova un gregario a sapere che il lavoro di una giornata è fatto non per caso, ma col fine di mettere nelle migliori condizioni possibili un capitano che piega la realtà al suo volere, attraverso una leadership messianica ma scanzonata. La reazione di Pogacar ad un momento di difficoltà arriva dal suo «approccio giocoso alle corse», secondo Peiper, che gli toglie molta pressione dalle spalle.
Vincere in modi non banali, provarci in modo scriteriato a volte, go big or go home, è un altro pregio che gli viene riconosciuto. Non si può certo dire che Pogacar abbia paura di attaccare da lontano: se dell’azione alla Strade Bianche si è detto, un altro arrembaggio folle fu portato a termine alla Vuelta 2019, quando attaccò a trentanove chilometri dall’arrivo, sul Puerto de Peña Negra. Valverde, Roglic, Quintana, Lopez e tutti gli altri lo lasciarono andare perché dove vuoi che vada questo pazzo: lo hanno rivisto al traguardo.
Pogacar flirta spesso con l’impresa, è un modo di vincere che intraprende più spesso di quanto il decennio precedente di ciclismo ci aveva abituato a definire razionale. Grandi azioni gli riescono perché ci prova tante volte. Come quando attaccò sul Col de Romme, al Tour 2021: diluvio universale, Col de la Colombière come ultima salita, ma si attacca. L’inventiva e il coraggio non gli sarebbero serviti a nulla senza un motore che gli permise 6,4 watt per chilo sulle due salite finali, eppure l’aspetto mentale – solidità e fantasia – è un altro dei superpoteri di Pogacar: «Molti professionisti iniziano a liquefarsi appena arrivano ai vertici, la tensione li manda fuori di testa» afferma Iñigo San Millan, capo dei preparatori della UAE, che quando parla con Pogacar gli sembra di avere davanti «un professionista di quarant’anni che corre da quindici».
Non sempre le sue azioni più ambiziose finiscono in gloria. Alla Tirreno-Adriatico, terza tappa, ha messo la squadra davanti a tirare per andare a riprendere la fuga e giocarsi i tre secondi di abbuono del traguardo volante di Amelia. Dopo il lavoro di Formolo e Majka, si avvantaggia con Marc Soler. Solo Alaphilippe riesce a seguire il duo della UAE. Pogacar fa il pieno di secondi al traguardo volante, poi tira dritto. Mancano più di venticinque chilometri al traguardo di Terni, ma la gamba c’è quindi, ancora una volta, si attacca. Landa e Geoghegan Hart provano a rientrare, solo quest’ultimo ci riesce, l’azione continua fino a una decina di chilometri dal traguardo quando vengono ripresi dal gruppo. Avere fame e menare sui pedali, sempre.
Due dei più recenti cannibali, Froome e in parte lo stesso Roglic, sono risultati indigesti ai più per il loro sembrare quasi finti, campioni creati in laboratorio interessati solo ai watt, a vincere la prossima corsa nel modo più scientifico, a scrivere la storia del ciclismo partendo dal palmares e non dal racconto. È una forma mentis, quella del cannibale, che ha anche Pogacar, ma non gli viene fatta pesare per tre motivi: il primo è quello appena citato, cioè il coraggio di tentare imprese. Non è un caso, peraltro, che il cyborg Froome sia stato riabilitato da tanti solo dopo il suo leggendario attacco sul Colle delle Finestre a ottanta chilometri dal traguardo.
Il secondo: sembra un bambino che vince la gara di biglie con gli amici. In una storia Instagram post-Tirreno, ha fotografato Formolo che imbraccia un forcone da fieno, parodia del tritone che lo sloveno ha alzato al cielo come simbolo del primato della Corsa dei Due Mari. Poco prima di prendere lo strappo di via Santa Caterina, dopo oltre 45 chilometri di fuga solitaria e sterrati, Pogacar ha visto un allenatore della sua squadra giovanile e gli ha battuto il cinque. A ventitré anni ha già fondato una squadra giovanile, il Pogi Team, in cui peraltro corre il campione del mondo juniores di ciclocross: come si può odiare uno così? Infine, è un enfant prodige, un ragazzo venuto dal nulla più bravo di tutti gli altri, proprio come Bernal.
Secondo il direttore sportivo Matxin Fernandez, Pogacar è il ciclista perfetto. Patrick Lefevere della Quick-Step lo ha definito il nuovo Merckx. Dopo la scoppola del Carpegna, Mikel Landa ha detto che Pogacar «nell’uno-contro-uno è imbattibile. Quando parte, è di un altro pianeta». Scherzando, qualcuno ipotizza che in futuro verrà pagato per non partecipare alle corse, come Alfredo Binda al Giro del 1930.
A Pogacar basta pedalare. All’attacco, se possibile.