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Cartoline dalle prime giornate
20 ago 2018
Storia della prima giornata in Serie A.
(articolo)
24 min
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Franco Battiato le ha definite “zone depresse”. Le domeniche pomeriggio d’estate, per l’appassionato medio di calcio, hanno il sapore di una lenta, seppur non particolarmente duratura, prigionia. Il detenuto-tifoso cerchia in rosso la data dell’uscita dalla cella. Ci si avvicina sfogliando svogliatamente una Gazzetta, sognando il colpo che possa far fare il salto di qualità alla sua squadra, parlando con i suoi compagni di sventura dei propositi per la nuova stagione. Per i più accaniti ci sono le amichevoli, affrontate con la sete di chi vede un goccio d’acqua nel deserto, o le elucubrazioni sul Fantacalcio che verrà. Poi arriva quel giorno. È la prima di campionato, è il ritorno alla vita. Abbiamo raccolto una manciata di istantanee dagli ultimi 35 campionati di Serie A. Tra sorprese e debutti folgoranti, disavventure varie e allenatori che perdono la testa.

1983-84: la prima di Zico

O Zico o Austria, scrivevano i tifosi dell’Udinese nelle ore roventi dell’estate 1983, quando l’affare che doveva portare il Galinho in Friuli sembrava prossimo a saltare per i veti della Figc. Ma alla fine la spunta l’Udinese, e al calcio d’inizio della nuova Serie A gli occhi sono tutti puntati sul brasiliano. Non ci si aspetta lo scudetto, che pare essere affare riservato alla Roma campione d’Italia e alla Juventus, ma il talento da stropicciarsi gli occhi del nuovo fuoriclasse dei bianconeri attira le attenzioni. Ha trent’anni, e in molti credono che il trattamento delle difese italiane possa turbarlo nella testa più che nelle gambe. Il ricordo della marcatura asfissiante di Gentile è ancora vivido. A Udine, in compenso, l’entusiasmo è tale da indurre una coppia a dare Zico come secondo nome al figlio appena nato.

«Comincia il campionato nel segno di Zico», titola La Stampa alla vigilia di Genoa-Udinese, battesimo del fuoco per il brasiliano. I rossoblù ci arrivano dopo un piccolo terremoto: Claudio Onofri, oggi apprezzata seconda voce, ha una furiosa lite con il presidente Fossati e viene messo fuori squadra. Il tecnico Gigi Simoni non ha a disposizione neanche il brasiliano Eloi. Il pronostico è tutto per l’Udinese, che magari non è squadra da scudetto ma di qualità ne ha parecchia. Dopo il vantaggio segnato da Massimo Mauro, Zico realizza il gol del momentaneo 0-2 con una danza sul pallone che manda in tilt il suo marcatore prima del sinistro vincente.

Virdis è implacabile e porta i friulani sullo 0-4, all’89’ tocca ancora al brasiliano. È una punizione che non sposta nulla nella vittoria bianconera e nella sconfitta rossoblù, ma che è il tocco finale al biglietto da visita del fuoriclasse. Applaudono anche i tifosi del Genoa, tramortiti dalla classe di Zico. «Non posso negare di aver gradito l’applauso del pubblico genoano: volevano che battessi quella punizione. In un certo senso, il gol è stata la ricompensa».

1986-87, 1987-88: Milano gambe aperte

C’è un’immagine che meglio di tante altre descrive la provincia cronica che ha attraversato la carriera di Massimo Barbuti. È una foto di lui aggrappato alla recinzione di un Tardini ancora lontano dal restyling di inizio anni ’90, dopo una corsa a perdifiato dalla porta alla curva. Attaccato per le mani e per i piedi alla rete, sopra lo striscione dei Crusaders, festeggia una punizione capolavoro appena segnata nel derby emiliano con il Bologna. Non è ancora il Parma dei Tanzi, è una squadra che sgomita in Serie C1 e in quella stagione 1983-84, anche grazie ai suoi 17 gol, si garantisce la promozione in B. I ducali scivolano poi nuovamente in C1, ma Barbuti rimane in cadetteria, chiamato dall’Ascoli di Vujadin Boskov. Per i regolamenti dell’epoca, lo zio Vuja può figurare soltanto come direttore tecnico, ma Costantino Rozzi lo ha scelto per tornare in A, affiancandogli Aldo Sensibile, dopo averlo chiamato in corsa qualche mese prima per centrare una salvezza disperata e mancata. Barbuti in B segna quattordici volte, il Picchio è di nuovo al piano superiore. E per il ballo del debutto, gli tocca una grande che si è rifatta il look.

È il 14 settembre 1986 e Silvio Berlusconi arriva a San Siro tra due ali di folla. Vuole vedere il primo Milan pensato dalla sua grandeur. Il patron ha confermato Liedholm alla guida tecnica e gli stranieri Wilkins e Hateley, dando prova di forza nel mercato interno: Roberto Donadoni è la stella più splendente, con lui sono arrivati anche Giovanni Galli, Dario Bonetti, Daniele Massaro e Giuseppe Galderisi. «Mi aspetto una bella partita e i giocatori col cuore che si veda», afferma scendendo dalla macchina, con il sorriso magico dei suoi giorni migliori. Lo intervista un califfo dell’eleganza come Franco Costa, abituato ai faccia a faccia con Agnelli e Boniperti. «Come si fa a non essere emozionati? È come il primo appuntamento d’amore», gli confessa il Cavaliere.

Il Milan, a sorpresa, stecca. L’Ascoli, che in panchina non ha più Boskov ma il solo Sensibile, è guidato in campo da Liam Brady. Gli anni che scorrono non hanno intaccato lo splendore del suo mancino. Sventagliata verso il vertice destro dell’area, dove corre Massimo Barbuti. Baresi accenna l’intervento ma non affonda, ritiene l’azione poco pericolosa. Lo sarebbe, se non fosse per il coniglio che esce dal cilindro dell’attaccante dell’Ascoli. Non ha una curva amica sotto la quale correre, né una recinzione a cui aggrapparsi. Poco importa. Giovanni Galli vede l’arcobaleno dipinto da Barbuti andare a finire nella pentola di monete d’oro posta alle sue spalle, dentro la porta, e mostra uno stupore autentico, allargando le braccia. «Non credo di aver sbagliato, questo qua ha trovato un grande tiro, merito a chi fa gol. Mi si sta caricando sempre di colpe, anche quando sono da una parte e il pallone dall’altra. Magari si sbaglia una palla in mezzo al campo e si va a cercare Galli», si lamenta il portiere rossonero, pizzicato da qualche critica di troppo dopo il nefasto Mondiale messicano. Barbuti, così come i suoi compagni, si mette in tasca il premio partita: otto milioni di lire a dir poco inattesi.

Passa un anno, e San Siro conosce un altro ribaltone alla prima di campionato. L’Inter è attrezzata per la lotta al titolo, al suo cospetto c’è una neopromossa. Il Pescara è salito in Serie A lasciando gli addetti ai lavori sotto shock. Una squadra costruita per la Serie C1, ripescata in Serie B soltanto grazie alla radiazione del Palermo per fallimento, è riuscita a ribaltare tutti i pronostici, ritrovando la massima categoria dopo sette anni di assenza. Ce l’ha fatta grazie a uno dei tanti profeti italici della zona, forse il più affascinante. Chissà, in riva all’Adriatico, quante ne ha fatte innamorare, Giovanni Galeone. Con la sua aria scapigliata, l’abbronzatura perenne, lo sguardo profondo e una sigaretta sempre pronta a comparire.

A Pescara ha ritrovato il mare, elemento irrinunciabile della sua vita. Ha raccolto una squadra che, per parola del direttore generale Manni, era partita con il motto “Pane e sangue”. «Mister, non venga a lamentarsi che le manca un terzino, una punta o un libero. Qui manca quasi tutto, lo sappiamo, c’è solo da arrangiarsi». Galeone risponde come un visionario. «Durante il ritiro eravamo in 13, con due portieri. Ho chiesto di fissare il premio promozione, e qualcuno deve aver pensato che ero pazzo. Gli ho detto che non ero lì per gestire una ritirata, altrimenti avrei tolto il disturbo».

In una lunga chiacchierata con Gianni Mura, poco prima della promozione in A, rivela il segreto del suo Pescara: «Non c’è un solo giocatore coglione. Forse uno al massimo, ma innocuo». Rassegna le dimissioni con la frequenza con cui una persona normale fa lo shampoo, ma i suoi eccessi rientrano sempre nei ranghi. A Pescara lo amano, e non solo per la promozione. È nato a Napoli e cresciuto a Trieste, ma è uno di loro. Vede la A, a lungo inseguita, ma ha i piedi piantati per terra. «Mia moglie insegna lettere e uno stipendio è assicurato, ho una casa in Sardegna, non sono ancora riuscito a dilapidare i risparmi di mio padre. C’è tanta gente che sta peggio di me e comunque sono le cose che non ci conoscono a far paura, io il calcio lo conosco bene». All’esordio in A, il Pescara si presenta dopo aver ceduto il capocannoniere della stagione precedente (21 gol senza rigori), Stefano Rebonato. L’estate ha comunque portato volti nuovi di livello, i due stranieri hanno un rapporto privilegiato con la sfera di cuoio. Il direttore d’orchestra è Leo Junior, il numero 10 è Blaz Sliskovic. Su lancio del brasiliano, Galvani porta avanti il Pescara in casa dell’Inter. Pare il classico fuoco di paglia, perché i nerazzurri reagiscono in maniera veemente. A salvare gli abruzzesi ci pensa il portiere Giuseppe Gatta, classe 1967.

Dodici mesi prima era la riserva della formazione Primavera, e aveva chiesto alla società la cessione in prestito alla Pennese, in Interregionale, per farsi le ossa. Permesso negato da Galeone, che aveva ben altri progetti in testa. Sliskovic raddoppia dal dischetto, dopo una discesa da consumato slalomista di Rocco Pagano. «Quando una squadra è imprevedibile come la mia, può giocare benissimo contro Inter e Juventus e soffrire contro le medio-basse», dice Galeone con aria tranquilla. E quando Amedeo Goria lo punge su un suo presunto lassismo nei confronti delle regole e degli abusi di vino e birra da parte dei suoi giocatori, si fa serio: «Non è vero, e non ho bevitori o grossi fumatori in squadra. A parte Baka».

Baka, ovviamente, è Sliskovic. Segnerà otto gol in quella magnifica stagione culminata con la salvezza, prima di tornare in Francia. Nel 1992, più imbolsito e stanco ma non per questo meno incline al fascino del tabacco, avrebbe riaccettato la corte del Pescara, allenato ancora una volta da Galeone. Perché Baka, come il Gale, anche se nato da un’altra parte, era uno di loro.

1996-97: George e Marcelo

George inizia a tessere la sua tela quando Marcelo deve mettere soltanto la firma alla fine del quadro. Sono quanto di più diverso possa esserci, ma stanno entrambi facendo la storia. Eppure non si trovano nemmeno sullo stesso campo. Il capolavoro di George inizia con uno stop in area di rigore. La sua, non quella avversaria. La partita doveva essere di quelle semplici, da gestire, tra una squadra di fuoriclasse e una neopromossa. E invece, a 5’ dalla fine, tutto sommato è ancora aperta, sul 2-1.

La giornata perfetta di Marcelo ha preso il via molto prima. Già all’ottavo minuto, gelando una Fiorentina ancora presa a smaltire i postumi della sbornia di Supercoppa. Bel colpo di testa su cross da sinistra, nulla da fare per Toldo. Al cospetto di un fuoriclasse come Batistuta, Marcelo si infiamma. Lo allena Francesco Guidolin, che ha passato una carriera a combattere con l’etichetta del difensivista. Sarà, ma quel giorno spuntano maglie biancorosse da tutte le parti. La rasoiata del raddoppio, al ventinovesimo, è l’ultimo atto di una splendida azione corale. C’è anche spazio per una stincata che vale il momentaneo 1-3, sembra un gol di Paolo Rossi.

Bisogna tornare da George, che dopo quello stop nella sua area di rigore ha deciso di partire. Non è un calciatore in progressione, è una pantera restituita alla libertà dopo mesi di prigionia. La sua prima stagione italiana è stata folgorante, un gigante in mezzo ai bambini. È diventato anche l’icona di uno spot memorabile, dosando gentilmente la falcata tra cameriere e donne sedute ai tavoli che lo immaginano nudo. «Tutto bene?», dice tranquillo alla fine, con il suo accento irresistibile.

Quando ribalta con una torsione i primi due difensori del Verona che gli si parano davanti, con l’aiuto di un rimpallo, non ha il tempo necessario per fermarsi e fare altrettanto. Ne salta anche un altro con la giocata simbolo del suo repertorio: pallone toccato ad aggirare l’avversario e corsa selvaggia a recuperare la sfera passando dalla parte opposta. Nello stesso modo, un anno prima, aveva preso d’infilata la difesa della Lazio a 3’ dalla fine, segnando un gol pesantissimo nella corsa scudetto del Milan. Adesso non resta che la porta, e in fin dei conti centrarla è l’impresa più facile, dopo oltre ottanta metri di corsa senza poter mai prendere fiato. Il diagonale trova il fondo della rete e fa impazzire San Siro.

A 330 chilometri di distanza, a Marcelo manca la firma sul quadro, un rigore per chiudere il poker e andarsene felice con un posto nella storia della Serie A. George Weah, Marcelo Otero, 8 settembre 1996.

1997-98: all’improvviso, Recoba

«Brescia in vantaggio, grandissimo gol di Hubner». La voce di Livio Forma entra garbatamente nelle orecchie di chi, nei vari stadi d’Italia, è preso a osservare la partita della propria squadra del cuore. A San Siro, il Brescia è appena passato in vantaggio contro l’Inter. A Roma c’è chi guarda l’esordio di Mancini in biancoceleste, a Udine c’è il botta e risposta tra Amoroso e Batistuta che fa scoprire al grande pubblico la vena di follia di Alberto Malesani, a Torino la Juve supera non senza qualche fatica il Lecce. Ma l’Inter in svantaggio lascia tutti di stucco.

Al Meazza è il giorno del Fenomeno. Ronaldo è sbarcato a Milano e si è preso la numero 10, c’è un popolo assiepato sugli spalti soltanto per vedere i suoi impressionanti strappi palla al piede. Ma l’Inter è sotto, a diciassette minuti dalla fine, colpita da una girata ipnotica di Dario Hubner, all’esordio in Serie A proprio come Ronaldo, solo nove anni più vecchio e con all’attivo molte sigarette in più. Non si aspetta di diventare un futuro manifesto nostalgico, né tantomeno di dare il titolo a una canzone di Calcutta. Ha soltanto segnato un gol bellissimo nel giorno riservato a uno più forte di lui, più forte di tanti altri, più forte di quasi tutti quelli passati su questo pianeta. Eppure, non è il suo giorno, e neanche quello di Hubner.

I tifosi dell’Inter iniziano a guardare con malinconia alla prima stagionale ma, come insegna De Gregori, c’è sempre qualcuno che canta e la tristezza la fa passare. Da qualche minuto, in campo c’è un ragazzo con un caschetto improbabile, due incisivi che paiono scimmiottare Teo Teocoli e la sua imitazione di Fonseca, un sinistro che è un’arma di distruzione di massa.

A Udine segna Poggi qualche istante prima del suo gol del pareggio, e la voce di Livio Forma torna a irrompere nelle cuffie. Si deve scusare con il collega, perché quel «meraviglioso gol di Recoba» lo ha portato a sovrapporsi. «Mi sono lasciato trascinare dall’entusiasmo», dice appena ripresa la linea. Alvaro Recoba da Montevideo, ventuno anni molto randagi, ha smontato la porta di Cervone con un missile terra-aria che ha terminato la propria corsa sotto l’incrocio dei pali.

Lo ha scagliato da fermo, dopo un minimo tocco di aggiustamento. Il primo ad abbracciarlo è Javier Zanetti, mentre Ronaldo raccoglie il pallone per portarlo in fretta a centrocampo, che si può ancora vincere. E si vince, perché quel sinistro, dopo essere stato ferro, diventa piuma, pur mantenendo una discreta dose di potenza. Punizione a giro, Cervone si fa sorprendere sul suo palo da una traiettoria velenosa che proietta Recoba nel cuore di Massimo Moratti. Ci resterà fin troppo, perché i ricordi sono sempre duri a morire.

2000-01: il Marcello furioso

«Se fossi il presidente, manderei subito via l’allenatore. Prenderei i giocatori, li attaccherei tutti al muro e li prenderei a calci nel culo, perché non esiste giocare in questa maniera». Non è un giornalista-tifoso di una tv locale a parlare, né un facinoroso in un bar. Siamo nel 2000 e i social network sono ancora lontani, quindi non si può neanche incolpare di tutto Zuckerberg.

A prendere la parola, nella sala stampa del Granillo di Reggio Calabria, è Marcello Lippi. Uno sfogo inaspettato, se si pensa che Reggina-Inter è soltanto la prima di campionato. Ma c’è una spiegazione per tutto. La rabbia del viareggino arriva da lontano, forse da lontanissimo. I suoi, cinque mesi prima, hanno strappato il pass per i preliminari di Champions League grazie all’exploit del suo più acerrimo nemico. Nello spareggio con il Parma, Roberto Baggio si è preso sulle spalle un’Inter sfilacciata e l’ha portata a giocarsi l’Europa che conta.

Lippi ha masticato amaro, negandosi alla stampa nell’immediato dopo gara. «Grande partita», aveva urlato ai giornalisti prima di andarsene, arrabbiato come solo lui sa essere. Per Baggio, quei minuti nella pancia del Bentegodi, rappresentavano una liberazione. «Sono un professionista serio, e l’ho dimostrato quest’anno, nonostante tutti i problemi che ho avuto con l’allenatore. Sono stato umiliato troppe volte, se resta lui io me ne vado, lascio l’Inter».

Un matrimonio sbagliato, quello tra Baggio e Lippi. Ma mai come quello tra Lippi e l’Inter, che prosegue anche nella lunghissima estate del 2000. Il campionato inizia addirittura a ottobre, per non sovrapporsi alle Olimpiadi di Sydney. Quando scatta la Serie A, il vaso interista è già colmo di delusioni. Non tanto per la sconfitta in Supercoppa Italiana contro la Lazio, quanto per la bruciante eliminazione patita nei preliminari di Champions. Clamoroso ko in Svezia con l’Helsingborg, un 1-0 tutto sommato riparabile. A San Siro, in un bollente 23 agosto, l’Inter non era andata oltre lo 0-0, con la delusione acuita dal rigore sbagliato da Recoba al novantesimo. Lippi è in ebollizione, litiga con un giornalista svedese che gli parla di catastrofe - «Pensi alla sua squadra e alle cose belle che ha fatto» - e rivendica la sua volontà di andare avanti, proteggendo la squadra: «I ragazzi hanno dato il massimo. Il mio futuro? Non dovete chiedere a me, ma alla società. C’è grande delusione ma anche il carattere per ripartire».

Ma a Reggio si sfalda tutto, nonostante il vantaggio firmato da Recoba su assist di Hakan Sukur. Possanzini pareggia a fine primo tempo e festeggia a colpi di petto con Franco Colomba, in avvio di ripresa Marazzina firma il più classico dei gol dell’ex, sparando sotto la traversa col mancino.

L’Inter non sa reagire, le giocate sciatte di Vampeta restituiscono l’immagine di una squadra allo sbando. Lippi è già disperato durante la partita, e al triplice fischio perde la calma. Mette in fila frasi sconnesse tra loro, in cui rivendica di avere dalla sua il gruppo, e gli unici quindici secondi che scorrono senza intoppi sono quelli sui “calci in culo”. Due giorni più tardi, la rescissione consensuale. Nel 2017, Lippi ha ripercorso il suo periodo buio interista, per certi versi assimilabile ai celebri 44 giorni di Brian Clough alla guida dell’odiato Leeds: «All'Inter non ero ben visto perché difendevo la mia juventinità, questo per loro non andava bene. Ad Appiano non feci molto bene, nessuno accettava il mio modo di giocare. Che soddisfazione vincere lo Scudetto con i bianconeri quanto tutti pensavano che lo vincesse l'Inter».

2007-08: Baldini-Di Carlo, forse faceva molto caldo

Mimmo Di Carlo è pronto per la sua prima da allenatore in Serie A. Il massimo palcoscenico calcistico l’ha già vissuto da calciatore, con il Vicenza dei miracoli: era il ragionatore in campo per conto di Guidolin, e dopo anni di gavetta al Mantova si trova alla guida di un Parma che ha appena mantenuto la categoria per i capelli, grazie a sei mesi fantascientifici di un imberbe Giuseppe Rossi e alla sterzata impressa da Claudio Ranieri, arrivato al Tardini con la squadra in pessime acque.

I ducali partono con ambizioni relative, prima non prenderle, poi si vedrà. Senza gli squalificati Dessena e Gasbarroni – circondato da un hype sproporzionato, forse a causa di Football Manager – e non potendo più contare su Pepito, appena accasatosi al Villarreal, il tridente del Parma è triste come la lista delle pizzerie aperte la sera di Ferragosto: Reginaldo e il faticatore Pisanu sulle corsie, Igorone Budan in mezzo, reduce da tredici gol nella stagione precedente.

Pare ben più attrezzato il Catania, che pure a fine anno aveva concluso addirittura un punto sotto al Parma: risultato comunque di livello per chi tornava ad assaggiare la Serie A dopo 22 anni. Il nuovo tecnico degli etnei è il verace Silvio Baldini, chiamato a risollevare la propria carriera dopo tre esoneri in fila: Palermo in B – fin qui non c’è notizia, classica mossa di Zamparini che silura il tecnico terzo in classifica – e quindi proprio Parma in A, con la squadra lasciata al penultimo posto a dicembre e poi salvata da Carmignani nel doppio spareggio con il Bologna, e Lecce, con un ingresso in corsa al posto di Gregucci prima del nuovo esonero a gennaio 2006. È una classica gara di inizio stagione, con le difese un po’ troppo allegre – quattro gol nel solo primo tempo – e le squadre in fase di rodaggio. Apre Morimoto, ribalta il Parma con Pisanu e Marco Rossi, fissa il 2-2 Baiocco.

Al 38’ della ripresa, l’arbitro Stefanini caccia Baldini. Il tecnico si attarda, cerca di dare le ultime indicazioni ai suoi prima di lasciare il campo e Di Carlo, spazientito, gli urla qualcosa. Seguono sei secondi di commedia all’italiana. Tripla sbracciata Di Carlo-Baldini-Di Carlo, l’allenatore del Parma sembra voler dare uno schiaffo alla mano alzata del collega ma va liscio di una ventina di centimetri. Un affronto per Baldini, che sfrutta la disattenzione altrui.

Scarpata improvvisa nelle terga del malcapitato Mimmo, che quasi non se ne capacita. Segue la classica dinamica da rissa poco credibile: Di Carlo che viene tenuto a forza anche se non ha la minima intenzione di andare a rispondere, Baldini che abbozza un rilancio prima di essere condotto a più miti pensieri negli spogliatoi, non senza il tradizionale stop and go, un doppio passetto a risalire i gradini per sparare il vaffa della staffa. Le ore successive sono un putiferio, interviene addirittura Pippo Baudo, vecchio cuore etneo, in una lettera indirizzata al quotidiano La Sicilia: «Lei non solo è partito col piede sbagliato, ma ha usato questo piede, indipendentemente dall'insulto che forse avrà ricevuto, in maniera indecorosa e villana, per nulla sportiva. Per il bene della città e della squadra si tolga dai piedi».

Il presidente della Figc, Giancarlo Abete, condanna l’episodio: «Legare l'immagine della prima giornata di campionato a un episodio di questo genere non fa bene al calcio». Baldini ha ancora il sangue alla testa: «Chiedo scusa a tutti ma non a Di Carlo, che è stato scorretto». Poi, al Processo di Biscardi, davanti a uno scatenato ospite speciale come Pippo Baudo (ancora lui), cede: «Chiedo scusa a Di Carlo e gli stringo idealmente la mano». Parole non particolarmente sentite. Baldini prende cinque giornate di squalifica, l’epilogo della stagione è lo stesso per entrambi: esonerati.

A distanza di sette anni, con la forza dei nervi distesi e la pacatezza che tutti gli riconoscono, Baldini sarebbe poi tornato sull’episodio: «Dal momento successivo a quel gesto non sono più riuscito a trasmettere alle mie squadre quello che volevo. Ma forse a Di Carlo il calcio dovevo darlo in testa e non sul sedere visto la persona che è».

2011-12: l’alba di una nuova era

In alcune stagioni, la prima di campionato può essere in realtà la seconda. Lo sciopero indetto dall’Associazione Italiana Calciatori fa slittare al 21 dicembre 2011 l’apertura designata della Serie A, e così si parte l’11 settembre direttamente con il secondo turno. È una giornata scoppiettante, aperta da un colpo di testa arrogante di Djibril Cissé che ha oscurato tutto quello che aveva da offrire il 2-2 tra i campioni d’Italia del Milan e la Lazio, compreso il sublime esordio italiano di Miroslav Klose e l’ennesima firma di Zlatan Ibrahimovic, e chiusa dal rocambolesco 4-3 di Palermo-Inter, con Maurizio Zamparini che gongola convinto di aver scoperto l’allenatore con cui legarsi a vita: è Devis Mangia, che fa saltare i piani difensivi di Gian Piero Gasperini in una delle gare più avvincenti dell’ultima decade di Serie A.

In mezzo, il debutto in campionato (con sconfitta) di Luis Enrique in Roma-Cagliari, una partita che condensa emozioni a raffica in novanta minuti (e qualcosa in più). José Angel si fa credere un terzino decente prima di farsi espellere e passare alla storia per le sue foto nel simulatore di Formula 1 allestito in casa, Daniele Conti non rinuncia al solito golletto dell’ex, la meteora El Kabir manda per stracci i fantallenatori di mezza Italia segnando un gol bellissimo e poi sparendo in una botola per mesi, Federico Buffa bagna la sua unica apparizione a Sky Calcio Show con una domanda di cinquanta secondi in spagnolo a Luis Enrique, pentendosene a poche ore di distanza e dando l’addio al circo post partita dopo la staffilata di un Angelo Mangiante da sempre vicino ai sentimenti del popolo: «Ti capisce bene anche in italiano».

In tutto questo, a Torino è iniziata una nuova era, e in pochi sembrano essersene accorti. Il 4-1 con cui la Juventus liquida il Parma, nella prima partita di Serie A giocata allo Stadium, contiene al suo interno buona parte di quello che Antonio Conte userà per il suo dominio triennale. C’è un Andrea Pirlo in stato di grazia, che mostra immediatamente la sua connessione mentale con un gregario di lusso come Stephan Lichtsteiner, galvanizzato dalle giocate geniali del regista di Flero. Ci sono le giocate sulle corsie, alimentate da un modulo lontano dal 3-5-2 – Conte parte con un 4-4-2 che sa molto di 4-2-4, sperimentato con grandi risultati a Bari e Siena in Serie B - e da uomini di lotta e di governo come Pepe e Giaccherini. C’è una difesa solida, anche se non solidissima: la BBC non esiste ancora, con Bonucci in panchina, ma Barzagli e Chiellini iniziano ad annusarsi per bene. Infine ci sono Vidal, entrato a gara in corso per far vedere tutto il suo valore, e Marchisio, splendido interprete delle due fasi prima della sequela di infortuni. Forse era già tutto lì, ma il marginale contorno fu talmente carico di eventi che tolse l’attenzione dal vero elemento rivoluzionario di quella stagione. Più di Cissé, più di Mangia, più di Luis Enrique. Bastava guardare.

2012-13: Osvaldo e l’illusione

Il 20 novembre 2011, in Roma-Lecce, Pablo Daniel Osvaldo segna un gol splendido. È la mezz’ora del secondo tempo, Gago riceve ai 20 metri, alza la testa e riesce a pescare il suo compagno alle spalle dell’ultimo difensore, in una rara giocata di pura ispirazione in una stagione con più ombre che luci. Osvaldo raccoglie il corpo e trafigge il portiere con un’acrobazia tarata al millimetro, gesto tecnico e atletico impeccabile. Esulta fingendosi stupito da tanta bellezza, sta per accucciarsi per la mitraglia quando nota la bandierina alzata del guardalinee. La delusione lo pervade, si copre il volto con la maglia e cammina imprecando a viso coperto per una decina di secondi, accettando malamente la decisione. Il gol era regolare.

Cinque giorni più tardi, dopo una sconfitta con l’Udinese, ha una dura discussione con Erik Lamela. Osvaldo non ha gradito un eccesso di egoismo del suo connazionale e non lo nasconde. Osservando l’atteggiamento tipico dei due in campo, non c’è alcun dubbio su chi possa avere la peggio. «Sono più grande di te, e qui non siamo al River. Quando ti parlo mi devi rispondere», attacca il centravanti. «Chiudi la bocca e falla finita, non sei mica Maradona», replica l’altro, poco prima di ricevere un pugno in faccia che tronca la discussione e fa esplodere ufficialmente il caso. Sospensione di dieci giorni e multa, è una Roma che non si fa problemi a lavare i panni sporchi in piazza, come capita a De Rossi, escluso prima di Atalanta-Roma per un ritardo a una riunione tecnica pre-gara.

I giallorossi, nella stagione 2012-13, ripartono dal volto noto, anche se decisamente più rugoso rispetto a 13 anni prima, di Zdenek Zeman. È tornato in auge con il Pescara e quando riceve la chiamata della Roma non esita a lasciare l’Abruzzo. E alla prima di campionato, contro il Catania, in campo si rivede la stessa giocata di quel Roma-Lecce. Forse codificata, forse no, comunque splendida. De Rossi di prima intenzione per Osvaldo, che parte anche stavolta in posizione regolare e fulmina Andujar. Nessun guardalinee a fermarlo, può festeggiare in santa pace.

Sembra l’inizio di una grande stagione per la Roma e per l’attaccante, destinato a sbocciare in tutto il suo talento sotto la gestione del boemo, storicamente partner perfetto per le ambizioni dei numeri 9. È un’illusione, l’ennesima di una carriera all’insegna delle promesse mantenute soltanto in parte. Già la sfida con il Catania non porta i tre punti, anzi, serve un capolavoro del Conejo Nico Lopez per fissare il 2-2.

L’annata di Osvaldo, ondivaga come quella della Roma, finisce nel peggiore dei modi. Aurelio Andreazzoli, subentrato a Zeman dopo la notte nefasta con il Cagliari che aveva consegnato alla leggenda Mauro Goicoechea, gli concede soltanto 15 minuti in campo al posto di Balzaretti nella finale di Coppa Italia persa contro la Lazio. A fine gara, dopo aver disertato la premiazione, si sfoga su Twitter: «Facevi più bella figura se ammettevi di essere un incapace. Vai a festeggiare con quelli della Lazio».

Il nome di Andreazzoli non c’è, ma è come se ci fosse. «Non è nuovo a queste scene sotto le telecamere, poi nel privato ha comportamenti un po’ piagnucolosi. È un problema suo, non mio», ribatte l’allenatore. In Nazionale regna il codice etico e Prandelli esclude Osvaldo dalla lista dei convocati per la Confederations Cup. A cinque anni e mezzo di distanza, in questo weekend, Aurelio Andreazzoli è tornato ad allenare in Serie A, stavolta dall’inizio, alla guida dell’Empoli. Pablo Daniel Osvaldo, classe 1986, ha detto basta con il calcio a 30 anni. Nel 2016 ha detto no al Chievo e sì alla musica, diventando il frontman dei Barrio Viejo. Non sorprende che le prime parole del primo singolo del gruppo siano state Desorden, hay mucho desorden.

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