A pensarci bene, non si può immaginare una prima volta migliore. Otto partite, otto vittorie. Il cammino più complesso di tutti, per pedigree delle squadre affrontate e andamento delle partite disputate. Un solo trasferimento, da Okinawa a Manila, non ingestibile ma comunque fastidioso se si pensa che le squadre affrontate nelle ultime due partite godevano di maggior riposo e del vantaggio di non aver dovuto viaggiare tra la fase a gironi e quella a eliminazione diretta.
La resistenza mostrata nel far fronte all’infortunio di uno dei giocatori più importanti, assente per metà torneo. La capacità di trovare un modo per vincere nella peggior serata del giocatore più importante, l’MVP del torneo, autore di una prestazione nei quarti di finale contro la Lettonia troppo brutta per essere vera. Fare tutto questo, poi, senza davvero essere abituati alla vittoria, con un bronzo europeo conquistato un anno prima ma una tradizione storica avara di grandi successi.
La Germania ha vinto il suo primo Mondiale di basket in modo incontrovertibile e incontestabile. È stata la squadra migliore delle 32 partecipanti alla competizione iridata, e l’unica a concludere il proprio cammino senza macchia e senza sconfitta, mentre tutte le altre hanno perso almeno due partite. I 12 ragazzi di Gordon Herbert, invece, non hanno mai incontrato una battuta d’arresto. Arrivavano a questo Mondiale come una candidata a giocare un gran torneo e hanno ampiamente superato tali aspettative.
I tedeschi sono stati “più squadra” e l’imbattibilità conservata nel corso delle tre settimane mondiali è logica conseguenza. Un primo oro Mondiale - e secondo assoluto, per il basket tedesco, dopo l’Europeo vinto nel 1993 - che premia un progetto, un contesto che negli anni ha saputo creare valore con pazienza, continuità e senza l’assillo del dovere perseguire il risultato ad ogni costo. Il premio più bello per una generazione i cui anni migliori potrebbero ancora essere davanti a sé.
Nowitzki ha camminato così che Schröder potesse correre
«Dirk è stato il nostro passato, Dennis è il nostro presente». Tanto del percorso che ha portato la Germania a vincere il suo primo oro mondiale sta in questa frase, pronunciata dall’allenatore Gordon Herbert nella conferenza stampa post Finale. Fuori dallo storico oro del 1993, il percorso tedesco nel basket per Nazioni nasce in parallelo con lo sviluppo ai massimi livelli di Dirk Nowitzki, protagonista indelebile di due medaglie (bronzo Mondiale 2002 e argento Europeo 2005). Prima del nativo di Würzburg, i tedeschi si erano qualificati sul campo soltanto a due edizioni dei Giochi (1984 e 1992) e due dei Mondiali (1986 e 1994) senza andare mai oltre il 7° posto. Nowitzki ha tracciato una strada, raccolta poi da un paio di generazioni di giocatori che hanno creato le premesse per il trionfo di Manila.
La finale in tre minuti.
Quello di Dennis Schröder con la Nazionale tedesca è stato un percorso non privo di curve e momenti accidentati. Dopo l’effettivo passaggio di consegne con Nowitzki durante l’Europeo 2015, il nuovo play dei Toronto Raptors ha prima guidato la squadra in due tornei proficui dal punto di vista individuale - Europeo 2017 e Mondiale 2019 - ma avari di soddisfazioni di squadra. Cavilli burocratici e tempistiche ristrette hanno poi impedito all’ex Celtics e Lakers di aggiungersi alla squadra capace di vincere il Preolimpico di Spalato e di raggiungere, quindi, il Torneo Olimpico di Tokyo.
L’Europeo casalingo del 2022 sembrava l’occasione per mettere a posto i conti col destino, di nuovo in casa dopo l’esperienza di Berlino 2015. A interrompere i sogni di gloria, a 29 anni dal trionfo di Monaco di Baviera, ci aveva pensato la Spagna di Sergio Scariolo. Per Schröder e i tedeschi, però, l’appuntamento col destino vincente era soltanto rinviato. «È incredibile chiudere 8-0 e vincere l’oro», ha detto Schröder dopo la finale. «Questa squadra si è goduta ogni singolo momento, ogni partita, ogni allenamento. Abbiamo giocato al massimo livello in ogni occasione. Dieci anni fa avevamo Dirk, ma la gente non sapeva i nomi degli altri giocatori. Oggi, nelle Filippine e in Giappone, tutti conoscevano la nostra squadra».
L’MVP del torneo ha poi rivelato i dettagli di un incontro, a inizio Mondiale, in cui ha capito che questo era definitivamente il loro anno: «A Okinawa abbiamo fatto un meeting, divisi in quattro gruppi da quattro. L'allenatore ci ha chiesto cosa volevamo raggiungere, e tutti hanno risposto “‘una medaglia”. Poi l’ha chiesto a me, e ho risposto “l’oro”. L’ho detto perché questa squadra gioca davvero insieme, è speciale. Tutti contribuiscono, difendono, attaccano. È incredibile».
Insieme a Schröder, nella copertina del trionfo tedesco c’è sicuramente coach Gordon Herbert. Chiamato a guidare la Nazionale nell’estate 2021, culmine di una lunga carriera che l’ha visto prima giocare le Olimpiadi 1984 con il Canada e poi guidare squadre in Finlandia, Germania, Georgia, Grecia, Russia - e una parentesi nello staff dei Toronto Raptors - Herbert ha sfruttato nel migliore dei modi l’occasione di una vita, forgiata anche sul rapporto stretto con la stella della squadra. «Dopo la nomina sono andato da lui a Braunschweig: abbiamo parlato per circa 3-4 ore, è stato l’inizio di tutto» ha detto dopo la partita.
«Non saremmo qui senza di lui. Sa misurare le parole, ci tiene sempre sul pezzo», ha detto Mo Wagner di Herbert dopo la Finale, provato emotivamente e accasciato dopo il successo dei suoi.
«Ho capito il suo amore per questo Paese, il suo attaccamento alla squadra e ai compagni. Parte davvero tutto da lì. Non molte persone ricordano che perdemmo la prima partita di qualificazione in Estonia, da lì siamo andati 10-1 e l’abbiamo fatto con diversi giocatori che oggi non sono qui. Siamo stati prima squadra e poi un gruppo di talenti individuali».
L’affiatamento del gruppo tedesco lo si è ammirato anche nell’esecuzione del piano partita durante la finale con la Serbia. Dopo un primo tempo ad alto punteggio - si è andati all’intervallo sul 47 pari - in cui i lunghi tedeschi erano già riusciti a limitare l’impatto di Nikola Milutinov (sacrificando, dal punto di vista offensivo, Theis e Thiemann), il punto di svolta è arrivato in un brillante terzo quarto in cui la squadra di Herbert ha, di fatto, chiuso la saracinesca in difesa. Dal 6/13 da 3 concesso alla Serbia si è passati a un eloquente 0/8 nei 10 minuti che hanno deciso la finale. Un Bogdan Bogdanović in gran ritmo nel primo tempo (15 punti con 5/8 dal campo) ha di fatto smesso di segnare dopo il primo possesso offensivo della ripresa. Per oltre 7 minuti la Serbia ha trovato punti solo dai tiri liberi, sommando palle perse ed errori d’esecuzione. Il capolavoro tedesco del terzo quarto è stato un vero lavoro di squadra, dalla difesa in marcatura singola dello stesso Schröder su Bogdanović allo splendido lavoro del lungo di Milano, Johannes Voigtmann, sotto canestro contro Milutinov. L’esempio dei due ha poi ispirato un lavoro corale che ha reso efficace la grande maggioranza degli aiuti difensivi - merita una menzione, in tal senso, Isaac Bonga - con rotazioni che hanno lasciato poche alternative all’avversaria.
Quando si è poi trattato di completare l’opera dall’altra parte del campo, Herbert non ha dovuto contare solo su uno Schröder ammirato in finale nella sua migliore versione. Nell’atto conclusivo del Mondiale, ad esempio, si è visto tutto il talento individuale di Franz Wagner, capace di non patire minimamente le quattro partite (tutte nella fase a gironi) saltate per un infortunio alla caviglia accusato durante l’esordio contro il Giappone. «È surreale vincere la medaglia d’oro con mio fratello», ha detto il talento degli Orlando Magic in zona mista dopo la partita. «Ci sono stati tanti momenti, in tante partite, in cui la nostra avversaria ha fatto un parziale o ci ha messo in difficoltà. Non abbiamo mai mollato la presa, siamo sempre rimasti insieme e abbiamo continuato a giocare. Ha fatto la differenza».
C’è anche la firma di Franz Wagner sulla finale del Mall of Asia.
Il rilancio della Serbia
Il ritorno serbo sulla ribalta internazionale, dopo sei anni contraddistinti da delusioni brucianti, si è fermato a un passo dal trionfo. Quello di Manila è il quinto argento tra Olimpiadi, Mondiali ed Europei conquistato dopo l’ultimo trionfo internazionale, l’oro Mondiale del 2002 che rappresenta l’ultima affermazione di sempre della Jugoslavia. A rendere più dolce che amara l’esperienza di questo quinto secondo posto è sicuramente il fatto che la lista degli assenti è più lunga di quella dei presenti.
All’elenco di chi non c’è stato - per scelta, per mancata convocazione o per impossibilità a partecipare - al Mondiale si è aggiunto, dopo due minuti dalla palla a due, un elemento chiave del roster di Pešić come Ognjen Dobrić. Durante i trionfi con Repubblica Dominicana, Lituania e Canada che avevano portato la Serbia in finale, il nuovo giocatore della Virtus Bologna era stato un perfetto two-way player capace di incidere in più modi sulle fortune della squadra, tra l’affidabilità difensiva e la varietà di soluzioni offensive.
Accusato il colpo dell’infortunio di Dobrić, nei primi 20 minuti la Serbia è riuscita a restare in scia perché sorretta da capitan Bogdanović e dal contributo offensivo di Marinković e Nikola Jović, capaci di sopperire al poco avuto sotto canestro da un Milutinov neutralizzato. A riaprire e rendere vivace il finale, invece, è stato un secondo tempo favoloso (15 punti dei suoi 20 a fine partita sono arrivati nel quarto periodo) dell’ex Varese, Aleksa Avramović. Mastino difensivo - l’unico momento di smarrimento della finale di Schröder è arrivato per merito suo - e allo stesso tempo trascinatore offensivo, con tre triple e un 3/3 ai liberi che hanno dato alla Serbia il pallone per pareggiare nell’ultimo minuto.
Due anni di apprendistato all’accademia Obradović hanno dato i frutti.
«La partita è stata decisa da fisicità e dettagli», ha detto Avramović in zona mista. «Abbiamo mancato un’occasione, ma abbiamo avuto tanti problemi tra Simanić, Dobrić e Milutinov che non stava bene. Non è facile perdere, ma sono orgoglioso e domani lo sarò ancora di più di questa squadra. La nostra testa è alta e guarda già alle Olimpiadi, dove vogliamo fare ancora meglio di così». L’ottimo lavoro di Avramović su Schröder nel finale non può essere messo in ombra dal canestro che ha deciso la sfida, che ha visto un’ottima lettura del play tedesco nell’entrare aggressivo a canestro. La crescita del giocatore serbo è stata esponenziale durante questo torneo e la prova di maturità sarà rappresentata da una stagione in Eurolega dove l’ambizione del suo Partizan è elevata.
La prima volta del Canada
La giornata finale del Mall of Asia si era aperta con la disputa di un match ampiamente atteso a inizio torneo, ma in un contesto diverso da quello in cui si è effettivamente disputato. Stati Uniti-Canada, infatti è stata sì una finale, ma in palio c’era soltanto una medaglia di bronzo. Storica, per la squadra guidata per la prima volta da un allenatore emergente e interessante come Jordi Fernández: mai prima di questo torneo, infatti, i canadesi avevano raggiunto le semifinali di un Mondiale.
Il modo migliore per chiudere il primo anno “vero” di un progetto ambizioso e di grande talento, che punta a inserire il Canada tra le big del basket mondiale. A fianco del grande torneo giocato da Shai Gilgeous-Alexander, meritatamente nel quintetto ideale della FIBA World Cup insieme a Schröder, Bogdanović, Anthony Edwards e il capocannoniere Luka Dončić, è stato da applausi anche il percorso di Dillon Brooks. Uscito con le ossa rotte dalla stagione NBA e soprattutto dalla serie tra Grizzlies e Lakers, il nuovo giocatore degli Houston Rockets ha coronato un eccellente Mondiale con una delle migliori prestazioni individuali del torneo nella partita contro Team USA.
Il revenge game dell’ex Memphis.
39 punti, 12/18 al tiro di cui un irreale 7/8 da 3, 4 rimbalzi e 5 assist oltre a una grande difesa valsa il premio di miglior difensore del torneo, dopo i numerosi fischi ricevuti da un pubblico filippino tradizionalmente appassionato alle vicende dei Los Angeles Lakers. «Sono cresciuto con tanta autostima. Ma essere un villain, un cattivo, è un personaggio che ho solo in campo come Kobe ha creato il Black Mamba. Sono una persona che ama tutti, figli, famiglia, compagni di squadra e tutto il mondo», ha detto Brooks dopo la partita, sottolineando anche l’amore e l’orgoglio nel vestire la maglia del Canada.
Orgoglio per il proprio lavoro anche per chi è arrivato dalla Spagna per prendere le redini di questa generazione di talento destinata ad un grande avvenire, a cominciare dalle Olimpiadi di Parigi. «Sono nato e cresciuto a Badalona, una delle migliori città di basket al mondo. Sono cresciuto imparando da Sergio Scariolo, che ringrazio per avere creduto in me», ha detto Jordi Fernández prima di parlare della connessione con David Blatt, consulente della Nazionale canadese e a seguito della spedizione iridata nonostante la lotta contro la sclerosi multipla che lo costringe, la maggior parte del tempo, su una sedia a rotelle.
«È come se fosse il mio angelo custode», dice Fernández di Blatt. «Ho lavorato con lui a Cleveland e mi sono trovato bene sin da subito, ma avevo già ammirato il suo lavoro in Europa. È uno dei migliori di sempre e ho grande rispetto per come affronta la vita e la malattia, per quello che ha fatto per me. Non ha mai una brutta giornata, è sempre pronto ad aiutare tutti in ogni allenamento e in ogni occasione. Significa tutto per me», chiude l’assistente di Mike Brown ai Sacramento Kings prima di rivolgere lo sguardo al futuro. «È l’inizio di qualcosa che durerà sul lungo periodo. Non abbiamo fatto tutto perfettamente, ma è meglio imparare dopo una vittoria. Abbiamo dimostrato che possiamo fare grandi cose».
Il reality check degli Stati Uniti
Sin dalla creazione delle competizioni FIBA, gli Stati Uniti hanno rivolto più lo sguardo alle Olimpiadi che ai Mondiali come cartina tornasole di ambizioni e rendimento. È la prima volta dal trittico 1963-1967-1970, però, che Team USA chiude due edizioni consecutive della FIBA World Cup senza andare a medaglia, dal momento che il 7° posto di Cina 2019 è stato seguito dal 4° del 2023. Una spedizione chiusa con 9 giocatori disponibili e tre - Banchero, Ingram e Jackson Kr. - costretti ai box da un virus respiratorio che ha condizionato le prestazioni anche di altri membri del roster, come confermato da Steve Kerr dopo la sconfitta con il Canada.
Il coach dei Golden State Warriors non è solo il quinto - dopo Karl, Brown, Krzyzewski e Popovich - a mancare la medaglia d’oro nel suo primo torneo FIBA con una squadra di giocatori NBA, ma anche il terzo di questa lista a non conquistare nemmeno una medaglia. Un fattore di questo esito finale, come implicitamente ammesso dallo stesso Kerr in conferenza stampa, è l’assenza di continuità reale tra cicli di competizioni FIBA: Team USA si è presentata nelle Filippine con un roster di 12 esordienti nelle competizioni professionistiche per Nazionali.
«Per noi è difficile avere continuità perché c’è un ricambio molto elevato» ha detto Kerr. «Ciò che abbiamo sempre provato a fare, a capire e a imparare è quello di cui c’è bisogno per vincere una partita in una competizione FIBA. Abbiamo studiato le ragioni per cui in passato abbiamo vinto e abbiamo perso, cercando di costruire come sempre la migliore squadra possibile sui due lati del campo. C’eravamo messi in un’ottima posizione, arrivando in semifinale, ma non siamo riusciti ad avere continuità difensiva contro Germania e Canada».
La spedizione filippina degli Stati Uniti va quindi in archivio con 240 punti subiti nelle ultime due partite - cifre che sale a 350 contando l’ultima sfida dei gironi con la Lituania - e le troppe vulnerabilità difensive mostrate da una squadra che il suo potenziale, in quella metà campo, l’ha davvero dimostrato soltanto a tratti e in sporadiche occasioni. Prima di lanciarsi nel Fanta Roster in chiave Parigi 2024, dove credibilmente sarà elevata la voglia di mettersi alle spalle questo quarto posto per centrare il quinto oro olimpico consecutivo, è importante sottolineare come gli Stati Uniti abbiano perso perché non sono stati la squadra migliore.
Germania e Canada hanno vinto due partite in cui Team USA ha dimostrato di non essere più forte dell’avversaria e in cui non ha nemmeno tirato con percentuali decisamente peggiori. Steve Kerr ha più volte ammesso che, per il programma del basket per Nazionali americano, «non è più il 1992». In un panorama NBA costellato da numerosi giocatori internazionali, gli USA non possono dare per scontato nessun risultato e non in termini di schierare la “squadra A” o “B”, ma di cercare un processo improntato su continuità, abitudine al contesto e affiatamento. Tutto questo pur partendo da premesse diverse rispetto a Nazionali, come quelle europee, forgiate negli anni anche da percorsi comuni in ambito giovanile. In vista di Parigi, il capo di USA Basketball Grant Hill e lo stesso Kerr dovranno fare un lavoro decisamente migliore.
Il commiato di Gigi Datome e dell’Italia
«È stata una delle estati più belle della mia vita». Ciò che era nato con un titolo di MVP delle Finali Scudetto, arrivato al termine di una prova decisiva in Gara-7 contro la Virtus Bologna, per Gigi Datome si è chiuso in un stranamente fresco - rispetto alle medie stagionali - pomeriggio di Manila e, per la precisione, a 3:26 dal termine della Finale per il 7° posto tra Italia e Slovenia. È il momento in cui la partita si ferma per l’ultima uscita dal campo di uno dei migliori giocatori nella storia del basket italiano.
Tutta l’emozione del capitano azzurro all’ultimo inno nazionale della carriera da giocatore.
Il curriculum di Gigi Datome è completo, abbondante di trofei individuali e di squadra con la ciliegina di una breve esperienza NBA in cui ha saputo comunque ritagliarsi il suo spazio, con merito e tenacia. Un giocatore straordinario, prima di un professionista esemplare capace di ispirare appassionati e tifosi con la poliedricità dei suoi interessi extra basket e con il suo piglio al contempo deciso e sereno, da vero capitano. Un ruolo, quello di leader del gruppo azzurro, passato di mano all’amico e compagno di mille battaglie Nicolò Melli, il più emozionato nel parlare di Datome dopo Italia-Slovenia.
«Sono molto contento di avere incontrato Gigi nella mia vita e nella mia carriera» ha detto in zona mista dopo la partita. «Non so cosa lasci a tutto il basket italiano ma so cosa lascia a me: quell’amore che ha avuto, e avrà per sempre, per questa maglia. Una profondità, una visceralità rara. Qualcosa che mi ha trasmesso, che sento dentro e che cercherò di tramandare dal prossimo anno. Sono contento di vederlo finire alla grande, da protagonista con club e Nazionale, da amato da tutti. E sono orgoglioso della nostra amicizia, perché va oltre il campo».
L’ultima Italia di capitan Datome chiude con il miglior risultato possibile - un ottavo posto Mondiale - se si tiene conto delle scarse percentuali di tiro che hanno contraddistinto la spedizione azzurra. Tutte le altre sette squadre giunte alla settimana finale hanno tirato meglio dei 12 di Pozzecco, il cui 29.5% da 3 è stato peggiorato soltanto da Georgia, Montenegro, Iran, Capo Verde e Angola. Considerata le caratteristiche anomale degli azzurri, essere riusciti a confermarsi nell’élite del basket mondiale non è un esito da sottovalutare. L’Italia ha fatto bene, mostrandosi altamente competitiva in sette delle otto partite giocate, perché la sua identità tattica è coerente e prescinde dalle percentuali di tiro, condizionante solo nell’esito finale. Una squadra vera, quella azzurra, che ha bisogno ancora di qualcosa per quel proverbiale centesimo che serve per arrivare al dollaro. Ma che, dopo anni di proclami affrettati e aspettative puntualmente deluse, merita di avere un orizzonte più ottimistico e positivo.