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Giorgia Bernardini

Il primo anno di Caitlin Clark è più complicato del previsto

Tutte le difficoltà che sta avendo, dentro e fuori dal campo.

Da due anni ormai non si fa che parlare di Caitlin Clark. Tutto è stato detto, tutti hanno avuto qualcosa da dire. I media hanno scritto e detto tutto il possibile, dalla storia dei suoi genitori, che nella migliore tradizione americana sono stati ovviamente anche loro atleti di alto profilo a livello sportivo collegiale, ai suoi interessi, che scarpe usa, cosa legge. Tra tante cose, la più interessante l’ha detta forse Diana Taurasi, la vecchia saggia della WNBA. Quando durante le Final Four del basket collegiale, in occasione di un’intervista su ESPN, il giornalista Scott van Pelt le ha chiesto un parere sul futuro delle prossime matricole in WNBA, dall’alto della sua diciannovesima stagione nella lega, la guardia delle Phoenix Mercury ha decretato: «Il bagno di realtà sta per arrivare. Sembri una giocatrice sovrumana se giochi contro le diciottenni, ma stai per andare a giocare contro delle donne adulte che sono professioniste già da un po’ di tempo».

 

Taurasi non si stava rivolgendo direttamente a Clark, era un discorso più generale tenuto in un momento – le finali del campionato di college – in cui erano erano presenti molte giocatrici pronte per essere selezionate al Draft che si sarebbe svolto qualche settimana dopo. Ma è come se avesse voluto riportare sulla terra i voli pindarici che si stavano facendo sul basket femminile al college e su Clark: certo, sono ben accetti i numeri da record di spettatori, che mai come quest’anno sono stati alti, e la presenza di una fuoriclasse in potenza, ma alla fine è sempre al basket giocato che bisogna tornare. Ci vuole clemenza, ha aggiunto, perché raggiungere la grandezza necessita di un periodo di transizione. 

 

L’universo sportivo sarebbe un posto decisamente migliore se tutti parlassero con questa autorevolezza, soprattutto se conquistata sul campo. Proprio per la sua grandezza, o per la prospettiva di tale grandezza, invece, Clark sta avendo sul pubblico lo stesso effetto che ha una seduta di terapia di gruppo: a turno qualcuno prende parola, dichiara pubblicamente quali sono i suoi sentimenti sul tema del giorno aspettandosi il plauso e l’incoraggiamento corale di tutti gli altri partecipanti, e avanti così fino a che l’ultimo non ha detto la sua. 

 

Come sta andando il primo anno di Clark in WNBA

La buona notizia è che l’interessa intorno a Caitlin Clark non è affatto scemato, anzi. Ogni giornata di WNBA si trasforma rapidamente in una notizia: un fallo cattivo subito da Clark, la mancata convocazione in Nazionale, un nuovo incredibile canestro, un nuovo record di presenze al palazzetto. Praticamente ogni cosa che riguarda Clark è diventata notizia. Questa è una novità per lo sport femminile: nessuna ha mai mosso questa mole di interesse e tanto meno in maniera così continuativa. La cattiva notizia è che le opinioni intorno a Clark si stanno polarizzando, riducendosi inevitabilmente a due fazioni: chi sta con e chi sta contro di lei. 

 

Il talento, invece, rimane indiscutibile.

 

Persino la prima volta che abbiamo sentito nominare il suo nome siamo stati costretti a prendere una posizione netta e definita. Era la tarda primavera del 2023: a pochi secondi dal termine della finale di basket NCAA fra Iowa, la squadra di Clark, e LSU, Angel Reese ha mostrato la mano aperta e poi si è indicata l’anulare, facendo chiaramente riferimento al fatto che da lì a qualche minuto vi sarebbe stato apposto l’anello della vittoria. Niente di così inusuale: chi segue lo sport sa che i gesti para-sportivi sono tanto importanti per la prestazione tanto quanto lo è il gioco stesso. E invece il pubblico ha trasformato la sana competizione fa due atlete che si stavano sfidando in campo in una tragedia. Reese con quel gesto “aveva esagerato”, hanno iniziato a scrivere i giornali, perché “voleva umiliare Clark”. La questione si è ingrandita talmente tanto da aver preso i contorni di una questione di razza, e qualcuno aveva accusato nemmeno troppo sottilmente Reese di essere una donna, nera, arrabbiata e senza eleganza che si era permessa di mortificare dentro al campo la figura cristologica della storia del basket femminile.

 

Clark è stata la prima a cercare di abbassare i toni, in conferenza stampa aveva detto che ci stava tutto: sono due giocatrici competitive che volevano vincere, e Reese non aveva fatto niente di male. Già in quell’occasione si era notata questa polarizzazione: di qua chi stava con Clark, il talento puro, la figlia dell’America middle class bianca; di là invece chi stava con la giocatrice nera che sbatte le ciglia ricostruite e che supplisce al talento (notevole, ma non così cristallino come quello di Clark) con la voglia di fare soldi e successo per un riscatto di classe.

 

Torno su questo evento a distanza di mesi perché non mi sembra per niente ininfluente rispetto al modo che si ha oggi di parlare di Clark. Una parte del pubblico e dei media la adora incondizionatamente, al punto da non riuscire più a separare le proprie aspettative da quello che questa atleta in termini di gioco è capace di offrire adesso. È innegabile: il talento di Clark è fenomenale. Ha un modo di stare in campo che promette molto. Ma per definizione una promessa è un impegno a fare qualcosa, e quindi non ancora la sua avvenuta realizzazione.

 

Nel giorno in cui scrivo le Indiana Fever, la franchigia in cui milita Clark, hanno un record di quattro vittorie e dieci sconfitte. Sarebbe assurdo aspettarsi un risultato diverso da un roster la cui qualità è nettamente al di sotto di squadre come Las Vegas, New York, oppure di Minnesota (dove gioca Zandalasini) che dopo tre anni di magra è tornata a essere una delle franchigie da battere. Ma dentro alla sua prima vittoria in WNBA c’è tutto quello che serve per riflettere su come sta andando l’inizio di stagione di Clark. 

 

La partita fra Los Angeles Sparks e Indiana Fever è iniziata da 53 secondi. Kelsey Mitchell è in procinto di effettuare una rimessa laterale per Indiana. Clark sale dalla linea da tre, ma ha due avversarie addosso che la raddoppiano in una morsa. Strizzata lì in mezzo, Clark abbassa le braccia lungo il corpo con un gesto di frustrazione mentre guarda la palla planare sopra la sua testa, con il gioco che si sposta lontano da lei, rimasta tagliata fuori. Il trattamento fisico riservato a Clark, i raddoppi sulla rimessa, le marcature a toglierle il fiato, i body check che visti da fuori sembrano duri, sono il trattamento ovvio nei confronti di una prima scelta al Draft con questo talento. Sarebbe assurdo se non si cercasse di tenere a bada una giocatrice come Clark con tutti i mezzi possibili. E la partita prosegue su questi toni. 

 

La vittoria in casa delle Sparks nella sfida alla seconda scelta assoluta al Draft, Cameron Brink, poi infortunatasi gravemente al ginocchio.

 

È uno scontro punto a punto in cui a tenere quasi sempre la testa avanti sono le californiane, mentre Clark e compagne inseguono. Spesso a mancare alla squadra di Indiana è un gioco organico: sembra più un accostamento di giocatrici forti che fanno il loro quando viene chiamato il loro turno.

 

E quando la palla chiama Clark anche lei risponde. La prima tripla decisiva arriva a 2:26 dalla fine dell’ultimo quarto e serve a portare in pareggio le due squadre. Un paio di minuti dopo, a 45 secondi dalla fine, è sempre lei a ricevere la palla qualche metro al di sopra della linea da tre. La sua avversaria la marca strettissima e Clark cerca di ricavarsi uno spazio per il tiro da tre andando in palleggio verso il centro. La marcatura è molto stretta fino al momento in cui con un cambio di mano dietro la schiena Clark riesce a sottrarsi alla pressione, fare uno step back, arrestarsi per mandare a vuoto un recupero e far seguire un movimento di tiro rapidissimo e perfetto nell’esecuzione. È come se il suo tiro da fuori area seguisse un binario invisibile, la parabola perfetta non appena esce dalle dita, così da manuale che già a metà strada fra lei e il canestro pensi: è dentro. E infatti lo è. Si volta verso il pubblico, lascia cadere le braccia lungo il corpo e finalmente urla. Più cinque a 40 secondi dalla fine. La prima vittoria è assicurata. 

 

Alla fine della partita il commentatore sottolinea che finalmente è arrivata la prima vittoria di Clark in WNBA; un’affermazione che infastidisce me, figuriamoci le sue compagne di squadra. E forse questo è uno dei problemi maggiori che si sta trovando a affrontare Clark dal suo esordio nel mondo professionistico: il fatto che tutti parlino del basket professionistico americano femminile come se fosse res sua, una sua proprietà che le spetta di diritto, a discapito di tutte quelle che c’erano prima e che hanno spinto il gioco a un livello molto più alto di qualsiasi altro basket che si gioca in qualsiasi altra parte del mondo. La funzione di avvento di Cristo che è stata data a Clark all’arrivo in WNBA fa indirettamente scivolare le altre a un livello inferiore, come se fino al 2024 si fossero fatte le prove generali di una pallacanestro che non era ancora compiuta. Anche se le recenti convocazioni del Dream Team statunitense dimostrano che le cose non stanno affatto così. 

 

La mancata convocazione di Clark per Parigi

Clark infatti non è stata convocata dal Team USA in vista delle Olimpiadi. Sembra inspiegabile eppure, lista delle giocatrici alla mano, è davvero complicato mettere in discussione la selezione fatta dalla manager Cheryl Reeve. La scelta si spiega in parte alla luce di tenere dentro Taurasi  – che ha 42 anni e parteciperà alla sesta Olimpiade consecutiva concorrendo per un quasi certo sesto oro olimpico – scelta per la quale sono state lasciate fuori altre guardie al momento anche al di sopra del livello di Clark. Su tutte Arike Ogunbowale, guardia delle Dallas Wings che da tre anni a questa parte si sta portando sulle spalle una squadra giovanissima e piena di talento. Ogunbowale non solo ha una fisicità prorompente con cui spezza in due qualsiasi difesa in penetrazione, ma anche capacità di tiro sia piazzato che in movimento. Al momento viaggia con una media di 24.9 punti e 4.5 rimbalzi a partita. Insomma, se è rimasta fuori lei (anche se Ogunbowale dice di essere stata lei a tirarsi fuori), la scelta di non convocare Clark diventa più comprensibile.

 

Una giocatrice con questo tipo non vede neanche la possibilità di essere convocata.

 

Bisogna poi guardare i nomi delle altre convocate nel suo stesso ruolo: Chelsea Grey, Kahleah Copper, Jewell Loyd, Kelsey Plum, Diana Taurasi e Jackie Young. Qualcuno potrebbe dire: allora si poteva lasciar fuori Taurasi, che alla fine ha 42 anni. Una squadra olimpica, però, è anche questione di feeling ed esperienza, e quella di certo non manca a Taurasi, che oggi è ancora la vera GOAT del basket giocato. Lo dimostrano anche alcuni numeri: a oggi (tredicesima giornata di WNBA) Taurasi ha registrato a tabellino 17 punti e 4.5 rimbalzi di media a partita. Clark al momento è a 15.6 punti di media. 

 

In molti, per non parlare di sport, si sono concentrati sulla visibilità che avrebbe portato la sua presenza, quindi sugli sponsor e i soldi. Tutti argomenti importanti, non c’è che dire, ma un allenatore di una squadra olimpica deve pensare innanzitutto a vincere una medaglia, che per gli Stati Uniti deve essere d’oro, no? 

 

C’è poi da aggiungere un altro aspetto. Più il pubblico la osanna, più la segue in pellegrinaggio nei palazzetti di tutta l’America, più ne recrimina la mancanza nella formazione titolare che andrà a Parigi e più sembra che un latente senso di scontentezza stia intossicando come un veleno le altre giocatrici in WNBA. In occasione del match contro le Chicago Sky, Clark è stata letteralmente stesa al suolo da una spallata di Chennedy Carter, che l’ha pure insultata prima di colpirla. In conferenza stampa Carter si è rifiutata di commentare quello che è successo, ma durante il match c’era già stato uno scambio verbale acceso fra le due e forse le due cose sono collegate. Di nuovo, i media si sono scatenati in difesa di Clark, pur sapendo che Clark stessa ha dimostrato più volte di essere una trash talker. Anche quello fa parte del personaggio, dopotutto. Ovviamente il gesto di Carter è gravissimo e la sua condanna è sacrosanta, ma a essere allarmante è la costante mancanza della messa in contesto di quasi tutto ciò che accade dentro al campo e riguarda Clark. Cosa è successo prima di quella spallata sembra non interessare a nessuno. 

 

Più volte la pressione fisica applicata dalle avversarie su Clark è stata oggetto di critica: qualcuno ha detto che “la picchiano”, e più volte è successo che nel tentativo di accentuare un contatto per farsi fischiare un fallo, poi le avversarie “le abbiano fatto il verso”. Le telecamere stanno lì pronte a zoomare in maniera compulsiva su questi momenti, come a voler corroborare la narrazione della povera rookie che viene maltrattata dalle vecchie streghe. Le giocatrici di WNBA non sono certo conosciute per il gioco tenero o l’applicazione del galateo dentro l’area piccola. Il basket americano è il più veloce e il più fisico, e sono certa che, se interrogata, ogni giocatrice della lega avrebbe un aneddoto da raccontare su un colpo che le ha portate al limite fra la vita e la morte – soprattutto se il colpo è stato inferto da Diana Taurasi, che è nota per essere una giocatrice fisica e una trash talker agguerrita. Ma la narrazione intorno a quei gesti non è mai stata così polarizzata come lo è oggi.

 

Dentro al campo Clark incassa i falli, quando può restituisce il colpo, e sta dimostrando di lavorare nella direzione giusta per migliorare le sue skill. Ma è evidente che, almeno su un piano emotivo, il suo anno da rookie si stia rivelando più duro di quanto ci si aspettasse. C’è troppa pressione dall’esterno, e in qualche modo la prossemica di Clark ce lo sta suggerendo. Recentemente in conferenza stampa ha dichiarato: «Mi sento come se mi stessero martellando». Ancor più delle parole, sono i gesti che denotano la sua difficoltà: gli occhi bassi sul foglio, un tono di voce fra lo snervato e il rassegnato, la mano sulla fronte come una scolaretta davanti all’assegnazione di un problema troppo difficile. Martellata da chi? Dai media? Dalle aspettative? Dalle avversarie o dalle compagne di squadra? La verità è che tutte queste opzioni sembrano plausibili.

 

L’attesa della rivelazione

La sensazione è che più che al talento di Clark, il pubblico si sia affezionato alla storia che la realizzazione di questo talento potrebbe raccontare. Il canestro nel cortile di casa, l’uno contro uno con i fratelli maggiori, la borsa di studio all’università e la costruzione di una carriera che passa anche per lo stereotipo del padre allenatore in adolescenza. Questa retorica del cammino da predestinata dovrebbe averci annoiato, e invece inconsciamente torniamo sempre a quello che conosciamo e che ha funzionato per anni. Anche a discapito di certi talenti emersi da mondi che sono meno affini e quindi che confortano di meno. Che dire di A’ja Wilson, leader indiscussa delle Las Vegas Aces, con le quali ha vinto gli ultimi due anelli WNBA e un titolo di giocatrice MVP nel 2022?

 

Di fronte a un talento così sfacciato, costruito sulla potenza e la raffinatezza dei gesti tecnici, ci sarebbe da aspettarsi la stessa cieca insistenza nell’affermare che è la più forte di tutte. Ma Wilson è una donna nera che muove dentro al campo 193 centimetri di muscoli, rispetto ai quali il corpo di Clark sembra quello della ragazza della porta accanto; Wilson quando segna un canestro difficile mostra quei muscoli e urla con il volto contratto, non ha paura di mostrare i denti né si tira indietro quando c’è da fare a sportellate sotto canestro. E a ben guardare, il mondo del basket professionistico americano è fatto più da donne che hanno queste caratteristiche. E quindi non ci vedo niente di insolito se molte atlete non hanno nessuna intenzione di accettare la narrazione per cui la presunta giocatrice più forte di tutte è stata eletta prematuramente, a livello collegiale, senza aver nemmeno mai vinto un titolo. 

 

 

Vedremo come andrà a finire questa stagione, e il resto della sua carriera, alla fine è appena arrivata. Ogni partita delle Indiana Fever è come una bomba che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Clark è sotto osservazione, seguita ovunque col fiato sospeso come un’ombra, nell’attesa di partecipare all’istante in cui il suo talento sboccerà definitivamente davanti agli occhi di tutti e di tutte. Sappiamo che a un certo punto il suo gioco diventerà oltraggioso per quanto sarà bello. Lo abbiamo già visto in altre e altri e proprio perché sappiamo che le rivelazioni sportive avvengono in una determinata partita, in un determinato attimo che cambia tutto, ci troviamo a fare l’anamnesi di ogni istante della carriera di Clark in attesa di quello definitivo.

 

Per adesso però, come ha dichiarato Taurasi, siamo ancora nel delicato periodo di transizione di una giovane atleta piena di talento. Serve ancora del tempo per arrivare dove Clark vuole arrivare: essere la più forte di tutte.

 

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Giorgia Bernardini è La fondatrice di Zarina, la newsletter sullo sport femminile. La sua missione è diffondere il verbo delle ragazze affascinanti in tuta da ginnastica.