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Problema '95
21 ott 2014
Ovvero il problema dei giovani calciatori in Italia, del paragone impietoso con il resto del calcio europeo, del pochissimo spazio che viene loro concesso, della loro poca valorizzazione e di una possibile soluzione: le Squadre B.
(articolo)
13 min
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Una considerazione e un dato, subito. La considerazione nasce da un'oziosa sera recente di campionato, una tv accesa distrattamente e una delle due squadre un po' in affanno: «Forse – dice il telecronista – bisognerebbe cambiare qualcosa a centrocampo»; «Eh – fa arguta la seconda voce -, ma non è facile: dei due centrocampisti in panchina uno è acciaccato, e l'altro è un '95». L'anagrafe che diventa analisi, l'essere un '95 – e quindi avere 19 anni – come un giudizio di qualità, nell'ipotesi migliore una pacca sulla spalla al ragazzo che se gli va bene dovrà aspettare qualche anno ancora per essere considerato un ricambio, o forse nel frattempo può andare altrove, a cercare fortuna e molto più spesso a dissipare il talento in campionati minori. Quella cappa che abbiamo scelto di mettere alla nostra cultura non in nome del risultato, ma nel nome della carta d'identità, in cui tra l'essere un buon calciatore o meno, si inserisce l'essere un '95.

Il dato arriva osservando l'Under 21, quella che una volta era la rampa di lancio per la Nazionale, il gruppo di aspiranti campioni che già vestono di azzurro e che competono per arrivare alla fase finale dell'Europeo dell’anno prossimo: ventiquattro convocati, per giocare contro la Slovacchia, solo sei hanno giocato tutte le partite in questa prima parte di serie A (al momento della convocazione) e due sono portieri, quindi quattro appena sono di movimento. Gli altri hanno comparse, qualche presenza in meno, comunque un utilizzo irregolare e nessuno gioca in Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio, Napoli insomma non hanno spazio nelle grandi che al massimo ne detengono la proprietà, ma li mandano altrove, per evitare che voltandosi l’allenatore trovi un ’95 e magari soffra, all’idea di provare un talento.

Cosa fanno le grandi.

La stagione Under 21 va a bienni, e dunque per essere parte di questa nazionale era necessario avere ventuno anni l’anno scorso, dunque essere nati dal 1992 in poi. L’età di Mario Goetze, colui che ha regalato il campionato del mondo alla Germania che è modello solo per spot, mentre continua a produrre talenti, ringiovanirsi ed essere vista da lontano, come avesse una mentalità aliena. Fissando Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio e Napoli come grandi, per tradizione, risultati, esiti, seguito, è piuttosto singolare non trovare nessun giocatore a loro disposizione tra i prescelti di Gigi Di Biagio. Ma a dir la verità è anche complesso trovarli in organico, al netto di terzi o quarti portieri e di fuoriclasse stranieri (appunto: e i fuoriclasse italiani, di quell’età?).

Ad esempio la Juve ha solo Federico Mattiello in rosa e non ha giocato mai, e nemmeno l’Inter, la Roma, la Lazio e il Napoli hanno schierato finora un giocatore “eleggibile” per l’Under. Fa eccezione il Milan, che ha Mattia De Sciglio e Stephan El Shaarawy direttamente nel giro della Nazionale (da tempo più il primo che il secondo). Il punto è che, se volessero, si appalterebbero la squadra da soli: tra prestiti, comproprietà e altre alchimie, hanno tredici giocatori (cinque l’Inter, quattro la Juve, tre la Roma, uno il Napoli). Ma esprimono anche le grandi un giudizio silenzioso, così: non sono ritenuti all’altezza di competere per il vertice del campionato italiano, nemmeno partendo dalla panchina, nemmeno per un minuto, nemmeno in caso di emergenza estrema. Ed è facile pensare che nessuno di questi, né prima né poi, tornerà alla base.

Che è una tendenza, un retaggio di quel «è un ’95» da commento e che rende il nostro campionato il più vecchio: delle prime cinque leghe europee, secondo i dati del Cies Football Observatory nella scorsa stagione l’età media in Italia era di 27,61 anni. Più di tutte: di Inghilterra (27,02), Spagna (26,82), Germania (25,67) e Francia (26,35). E così è stato anche nelle cinque stagioni precedenti, quelle censite, toccando addirittura i ventotto anni di media nel 2011/2012. E le top 5 del campionato fanno peggio, visto che l’età media della scorsa stagione era di 28,35 anni, in questo caso persino molto più distante dalle altre: da Francia (26,58), Spagna (26,30), Inghilterra (26,21) e Germania (24,97). La Germania, appunto: le sue grandi sono giovani, i giovani fanno i gol decisivi al Mondiale. E molto torna, perché nell’elenco dei convocati – considerato come teorico biennio under 21 quello che finisce nel 2014, quindi con i nati dal 1991 in poi – l’Italia aveva quattro under, la Germania esattamente il doppio: otto.

Dalla finale all'incerto.

Il momento in cui questi giocatori perdono riferimenti (e forse la possibilità di sfondare) è proprio nel passaggio dalle giovanili alla prima squadra. Crescono come potenziali talenti, si formano in società che hanno il nome per far immaginare un grande futuro e poi invece diventano merce da calciomercato, pacchi da spedire, persino voci di bilancio. Poi, spariscono o fuggono. Molti di loro, almeno. L'Under 21 azzurra del biennio 2011-2013 è arrivata in finale all'Europeo, per poi essere sommersa dalla Spagna (4-2: 3-1 già dopo trentotto minuti) e della sua formazione titolare nella gara decisiva c'è traccia solo di Florenzi e Insigne nella parte alta del campionato italiano. Gli altri sono finiti dissipati in provinciali o, meglio, fuggiti all'estero per guadagnare spazio perché in Italia il lancio in prima squadra forse non sarebbe mai avvenuto o comunque mai del tutto.

La fotografia è quella di Verratti, ora forse uno dei migliori calciatori italiani eppure in bilico fino all'ultimo per un Mondiale in cui è invece riuscito a uscire in piedi, mentre l'Italia franava: andando al Psg ha giocato con continuità, ad alti livelli, in campo internazionale; alla Juve – l'altra contendente sul mercato – avrebbe fatto a riserva a Pirlo e magari a gennaio sarebbe finito in prestito chissà dove fino a perdersi. Magari sarà lo stesso per Immobile, ora che è al Borussia Dortmund, mentre Insigne cerca di completare il processo di maturazione personale sperando che le pressioni di Napoli non lo soffochino (al Mondiale non ha retto il peso). Sono andati all'estero anche Donati, Caldirola, Borini e Fausto Rossi, trovando spazio ma senza completare il salto. Invece il destino di chi era nella formazione della Spagna è stato diverso: chi non è rimasto tra Barcellona, Real Madrid e Atletico Madrid, se la passa comunque tra Manchester United, Bayern, Porto, Liverpool (nel caso di Morata, Juventus) e gioca a livelli eccellenti, mostrando una particolarità: tutti, tranne Isco, sono passati dalle squadre B, ormai dichiaratamente vero trampolino di lancio per i giovani dei club migliori e dunque serenamente ignorato in Italia.

E di quella stessa squadra, viste le date di esordio nell'Under 21, nelle grandi e in A erano in pochi: Bardi era al Livorno, Donati nel Lecce, Verratti e Insigne a Pescara, Caldirola nel Vitesse, Florenzi nel Crotone, Bianchetti nel Verona, Regini nell'Empoli. Fanno eccezione in tre: Immobile e Fausto Rossi, partiti dalla Primavera della Juve ma senza mai giocare nei bianconeri, e Borini che alla sua prima convocazione da azzurrino era al Chelsea. Gli altri, come quelli di adesso, non avevano spazio tra le migliori, né la possibilità di osservare anche da spettatori privilegiati il calcio internazionale.

Nasci, poi chissà dove cresci.

A luglio la Gazzetta dello Sport pubblica un raffronto impietoso. Partendo dalla Nextgen Series del marzo 2012, quella che pomposamente fu definita “la Champions delle squadre Primavera” e che fu vinta dall’Inter di Stramaccioni, in finale sull’Ajax: nella scorsa stagione, di quella squadra che doveva rappresentare il futuro dei nerazzurri, nell’Inter, non giocava più nessuno. In serie A erano in quattro e gli altri, dispersi in rivoli minori. L’Ajax, invece, aveva portato sette elementi in prima squadra, cinque nella squadra B e due erano rimasti nella A olandese.

C’è un passo clamorosamente diverso che anche il Cies, nel suo rapporto, mette in evidenza: l’Italia è un paese disastrato (l’analisi è però limitata al “calcisticamente parlando”) quando i giovani devono fare il salto in prima squadra. Non è filosofia, ma un dato: l’ultima Lega europea come percentuale di club trained players, nome dato ai giocatori nella rosa di una squadra che hanno giocato per almeno tre stagioni nel club tra i 15 e i 21 anni, nell’ultima stagione. La media è l’8,4%, tutte le altre sono sopra, molto sopra. Per restare alle Top League l’Inghilterra è al 13,6%, la Germania al 16,6%, la Spagna al 21,1% e la Francia al 23,6%. Ovviamente nessuna delle italiane è nella top 20 ed è incredibile la distanza tra il 52% di Feyenoord e Hajduk Spalato (diciannovesima ex aequo) e il 28,6% dell’Atalanta, la prima tra le italiane. Figurarsi, poi, se raffrontato al 64% del Barcellona.

Questi giovani non diventano mai grandi: rischiano di perdersi e si perdono e la prova è che se nell’Under 21 il panorama è questo, che le grandi che non hanno giocatori e le altre che li fanno giocare poco, non è così nell’Under 19, dove almeno Roma, Inter e Milan mettono molto di loro (viste le convocazioni più recenti), con otto giocatori su diciotto, e anche nell’Under 17, dove c’è uno juventino ma non interisti, ma sono comunque nove su diciotto. Però qui parlano i risultati: nel 2013 l’Under 17 è arrivata seconda all’Europeo, sconfitta in finale dalla Russia soltanto ai rigori, anche se poi il confronto con il resto del Mondo è impietoso, visto che agli ottavi del Mondiale è bastato il Messico per togliere gli azzurrini dalla competizione (2-0). Epperò va meglio che all’Under 19, che da sei anni non arriva nelle prime quattro (finale persa nel 2008) e che ci è arrivata solo una volta dal 2003, anno in cui addirittura vinse. Il motivo non è da ricercare nelle statistiche, né incrociando dati: quando i giovani talenti italiani arrivano in età da prima squadra, perché essere «un ‘95» è avere l’età per giocare in prima squadra, spariscono, finiscono in basso, vanno in B, in Lega Pro, in un altrove da cui chissà se riemergeranno e spesso no, non riemergono. Infatti della formazione titolare di quella finale del 2008, in Nazionale sono finiti solo Darmian e Poli.

E bisognerebbe fabbricare nuovi giovani e invece non si fabbricano: così anche Conte su 23 giocatori per sfidare non due potenze come Malta e Azerbajian, in una squadra che dovrebbe guardare ai prossimi anni, di potenziali Under 21 (sempre inteso come triennio, ovvero nati almeno nel 1991) ne convoca sei su ventitré: Perin, De Sciglio, Florenzi, Verratti, Destro, Zaza. La Germania? Otto, su venti.

Eppure tenerli è semplice.

Quindi la via di fuga è evitare la fuga. Non verso l’estero, perché forse tra qualche anno (in realtà abbiamo già cominciato) benediremo i passaggi di Verratti al Psg e di Immobile al Borussia Dortmund. Ma proprio la fuga del talento, quella capacità che abbiamo involontariamente acquisito di soffocare le possibilità e che ha una strada semplice per essere arginata: quella delle squadre B, che altrove (si è visto finora) hanno prodotto risultati e invece in Italia non possono partire, visto che ora la Figc ha scelto la strada delle multiproprietà tanto cara a Lotito, l’uomo-ombra al governo contemporaneo di Lega e Federcalcio, nonché già proprietario della Lazio, comproprietario della Salernitana e quantomeno “garante” per la rinascita del Bari.

Perché le multiproprietà? Lotito ha spiegato a modo suo, in una per nulla convincente supercazzola: «Le squadre creerebbero delle sperequazioni nel Paese, alcune città sono fin troppo rappresentate, mentre ci sono tante realtà che meritano di far parte del mondo del calcio». C’è un motivo grosso, per cui questa frase non ha senso, ed è nella risposta alla domanda: allo stato attuale i tifosi della Salernitana, che rientra in quelle realtà di cui parla Lotito, possono sognare la serie A? Ovviamente no, perché in A c’è già una squadra di Lotito e almeno questo dovrebbe essere vietato. E dunque un premio farlocco, che ha invece un senso se si comprende come (è già accaduto nell’era Gaucci) intanto aumentino i voti di una persona sola in tutte le elezioni federali e di Lega e poi come diventino un modo per far circolare rapidamente giocatori non sempre per utilizzarli o valorizzarli, ma anche per gonfiarne il valore fittiziamente e abbellire bilanci traballanti.

Le squadre B, invece, permettono di controllare i giovani e monitorarne la crescita, avere le stesse regole anche comportamentali e gli stessi standard di allenamento, evitare formule contrattuali fantasiose e poter sempre pescare, mentre un giovane si misura in un campionato più competitivo del Primavera e tenendo la formula finta del “farsi le ossa”, almeno se le fa davvero e il suo club può vederlo. Come accade, restando alla Top League, in tutte le altre: Germania, Spagna, Francia e Inghilterra le hanno (qui è spiegato bene il funzionamento), e i risultati si vedono proprio in termini di età. E così se c’è chi vale, non si perde, perché altrimenti resta una convinzione, personale ma forte, che se la Juventus non avesse mai giocato in serie B adesso non ci sarebbe questo Marchisio, ma avremmo un altro giocatore valido ma non completo in giro per squadre minori o squadre minori. Infatti la Juve ha potuto conoscerlo in B (quando ha esordito tra i professionisti), eppure prima di farlo giocare in A con la maglia bianconera lo ha mandato a Empoli in prestito. Per sua fortuna (magari non per l’Empoli) un anno solo. Poi basta un conto veloce (e se impreciso, per difetto, per capire che la Francia aveva in organico ai Mondiali sedici giocatori passati dalle squadre B e la Germania nove, con molti altri passati direttamente dalle giovanili alle proprie prime squadre.

I giovani servono solo a muovere pedine.

Sono esempi virtuosi, quelli delle squadre B e delle nazioni che hanno adottato il metodo, mentre il calcio italiano continua a sentirsi tanto forte (risultati a parte, e conti economici a parte, e progettualità a parte. E dunque no, non è per niente forte) da poter rinunciare a tutto ciò che è virtuoso. Meglio, evidentemente, generare casi assai curiosi come quello del Parma, squadra da 178 movimenti di mercato in un anno che però fornisce alla Nazionale un solo giocatore (Cerri, oggi in prestito al Lanciano) tra Under 21, Under 19 e Under 17. Muove atleti non per cercare talenti, nonostante a gennaio Pietro Leonardi (l’ad emiliano) mostrasse come investimento l’arrivo di 40 nuovi under 18. Una strategia che per anni ha creato il mito del giovane di provincia che «è arrivato in serie A» perché firmava per il Parma, senza però mai arrivare in serie A, ma finire in un traffico che nemmeno tra Barberino e Roncobilaccio, solo che in autostrada anche lentamente si arriva dove si deve arrivare, mentre qui è solo un’illusione.

Figurarsi se del modello tedesco si importasse l’obbligo di avere giovani eleggibili per le Nazionali giovanili: la Germania vista come esempio ora che ha vinto e non mentre cresceva (che già sarebbe bastato, per guadagnare tempo). Nella nazione campione del mondo (e, non è un caso, ha vinto anche l’ultimo Europeo Under 19) tutte le squadre di Bundesliga e Bundesliga 2 (la nostra B) devono avere una squadra in ogni categoria dall’under 12 in poi, e dall’Under 16 in poi hanno l’obbligo di avere in rosa dodici giocatori convocabili nella nazionale di categoria (ed è evidente, invece che secondo Di Biagio Juve, Inter, Milan, Roma, Lazio, Napoli non hanno nessun giocatore valido per l’under 21, ma il campo da cui pesca è sempre molto minore di dodici), senza parlare dello ius soli, che ha reso il multiculturalismo un progetto vincente anche nel pallone.

Accade sempre tutto altrove, mentre qui di avveniristico possiamo permetterci 178 movimenti di giocatori in molti casi evidentemente inutili, un unico proprietario per Lazio e Salernitana che droga elezioni e ambizioni dei secondi, per poi sentire dire, nel momento topico di una partita, che su quel ragazzo in panchina non si può contare perché «è un ’95».

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