Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Processo al VAR
15 nov 2024
Come la tecnologia sta cambiando il calcio in profondità.
(articolo)
70 min
(copertina)
Illustrazione di Livia Albanese
(copertina) Illustrazione di Livia Albanese
Dark mode
(ON)

Fuori dal Centre Pompidou, col suo reticolo di ferro, vetro e tubi colorati, spiccano due esseri umani in bronzo che si fronteggiano. Sono alti cinque metri e arrivano quasi all’altezza del primo piano del museo. Uno china la testa calva sul petto dell’altro: ha una posizione forte, salda e volitiva, mentre quello di fronte a lui sembra perdere contatto col suolo, mentre la sua bocca è piegata in una smorfia di dolore. Era il 2012 quando venne esposta questa scultura enorme creata dall’artista franco-algerino Adel Abdessemed; raffigura il momento in cui Zinedine Zidane dà una testata sul petto di Marco Materazzi nella finale dei Mondiali del 2006, provocando una catastrofe - i cui effetti non erano immediatamente percepibili in quel momento.

Quel momento di calcio non smette di farci riflettere sui nostri sistemi morali. La statua è stata acquistata dal governo del Qatar, che l’ha poi esposta sul lungomare di Doha. Dopo qualche mese le autorità sono state costrette a rimuoverla. Per qualcuno era un’istigazione alla violenza, per altri si trattava di un’inaccettabile forma di idolatria. Quella testata è riuscita a rompere la quarta parete dello schermo televisivo, a rivelare qualcosa di completamente inatteso ed estraneo alla tradizionale grammatica di una partita di calcio, anche nelle sue forme più violente. Eppure nel momento in cui Zidane dà quella testata, in pochi ci fanno caso. L’arbitro, che avrebbe dovuto sanzionare il gesto, non si accorge di niente.

Nel calcio il piano della realtà e quello della visibilità non coincidono. Il campo è lungo 105 metri e il nostro sguardo è limitato. Può concentrarsi solo su una zona del campo, di solito quella in cui c’è il pallone e da dove si irradia l’azione. Tutto il resto resta in ombra. Forse anche perché immaginava di poter agire nell’ombra, ben distante dal cuore del gioco, Zidane ha rifilato quell’assurda testata a Materazzi, che lo aveva provocato poco prima. Non sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo gesto tecnico compiuto su un campo da calcio; che dopo avrebbe passeggiato accanto alla coppa senza rivolgergli lo sguardo, sfilandosi le bende dai polsi. Non sapeva che la sua carriera sarebbe finita così. Un video riprende gli ultimi istanti di Zidane su un campo da calcio.

La telecamera fa uno strappo brusco per ricucire i due piani, e vediamo una gran confusione. Materazzi è a terra e una serie di giocatori italiani protestano: solo uno di loro ha visto tutto, Gianluigi Buffon. Il portiere corre verso il quarto uomo indicandosi gli occhi: «Tu hai visto!», gli dice; poi Buffon si avvicina a Zidane, rimasto solo e in disparte fino a quel momento, e gli dice qualcosa. È solo in quel momento che vediamo passare le immagini televisive di quello che è successo. La telecamera ha registrato l’accaduto, rimasto però escluso dall’occhio umano. Cosa farà l’arbitro Helizondo? Si avvicina a bordo campo e parla col quarto uomo, che gli sussurra qualcosa. Poi l’arbitro rientra sul rettangolo correndo verso Zidane e gli mostra il cartellino rosso. Cosa è successo nel frattempo? È stato lo stesso arbitro Horacio Elizondo a raccontarlo alla rivista The Blizzard.

Non aveva visto niente, era girato di spalle. Così si era generato questo paradosso: tutto il mondo aveva visto la testata mentre l’arbitro, l’unica persona in grado di punirla, non aveva potuto vedere. Il quarto uomo, Medina Cantalejo, aveva però visto i replay e aveva detto all’arbitro cos’era successo. Come fare? L’utilizzo della moviola in campo non è consentito dal regolamento, ma è pur sempre la finale dei Mondiali: è meglio prendere una decisione giusta o una corretta da regolamento? Così Elizondo mette in piedi la pantomima: finge che sia stato il quarto uomo ad aver visto tutto, parlotta con lui, poi espelle Zidane. È il primo utilizzo ufficioso della moviola in campo, in quegli anni invocata da più parti, ma soprattutto in Italia e soprattutto da un uomo: Aldo Biscardi.

Quando Elizondo decide di espellere Zidane succedono due cose inedite. Le decisioni di una partita diventano reversibili: si può riavvolgere il nastro e correggere una decisione. La seconda cosa è che non esistono più zone d’ombra in una partita: il piano di realtà e quello di visibilità coincidono.

AL PROCESSO DI BISCARDI LA SILICON VALLEY DELLA MOVIOLA

Undici anni dopo la testata di Zidane, dopo diverse sperimentazioni, il VAR viene introdotto per la prima volta in Serie A. L’Italia è uno dei primi paesi ad adottarlo e non stupisce, visto che è sicuramente quello più ossessionato dalla sua idea. Per anni uno studio televisivo si è trasformato in un’aula di tribunale, col compito di giudicare la correttezza delle decisioni arbitrali del weekend calcistico. Il nome della trasmissione era, appunto, Il Processo di Biscardi. Un tribunale del popolo in cui i tifosi potevano coltivare un senso d’ingiustizia rispetto ai risultati della propria squadra.

Dietro il senso degli errori arbitrali proliferavano le teorie del complotto: una squadra poteva essere danneggiata rispetto a un’altra per ragioni di potere economico o politico. I risultati in campo potevano essere oggetto di macchinazioni; il regolamento era ambiguo, gli arbitri deboli e il calcio in generale era un regno d’opacità. Ancor prima che Calciopoli confermasse alcune delle più spericolate teorie del complotto, al Processo di Biscardi si invocava la soluzione al problema: la moviola in campo. Con l’ausilio della tecnologia, e dei replay, si poteva gettare luce sui casi più controversi. L’arbitro può sbagliare, si ripeteva, eppure nessuno voleva crederci. Ci si voleva togliere questo dubbio, che l’arbitro potesse sbagliare, e siccome gli esseri umani non possono essere infallibili, serviva l’aiuto tecnologico. I replay avrebbero tolto tutte le zone d’ombra e le ambiguità. Alla fine del 1999 viene introdotta in Italia la “Prova TV”: il primo uso ufficiale di immagini televisive per tornare sulle decisioni arbitrali e modificarle. Le immagini però non vengono usate durante il match ma nei giorni successivi, e il loro utilizzo è limitato ai casi di condotta violenta. Insomma: l’andamento di una gara non è reversibile, al massimo si possono modificare le squalifiche.

Il suo scopo, allora, è quasi moralizzante. La casistica ha a che fare soprattutto con i gesti in grado di violare la sportività in campo: risse, simulazioni e gesti violenti. Uno dei primi casi di applicazione della prova tv fu il celebre sputo di Antonio Carlos Zago a Diego Simeone in un derby di Roma (Brusco lo celebrerà col verso “sputa fuoco come un drago”). Due mesi prima la testata di Ibrahim Ba a Macellari. Questa specie di tribunale postumo, però, si tiene lontano da ciò che interessa davvero i tifosi italiani, ovvero il campo: intervenire sulle decisioni arbitrali, far risorgere finalmente dalle sue ceneri immaginarie un calcio “pulito”.

Resta però il problema più grande: come fare?

Il Processo di Biscardi non si limita a proporre, ma produce lui stesso degli esperimenti di moviola: la nostra Silicon Valley sugli arbitraggi.

La prima opera è il “Mostro”: una serie di deformazioni grafiche fatte sui fermo-immagini, accompagnate da musica lugubre e una spiegazione ipnotica di un giornalista baffuto. Silvio Sarta definisce il "Mostro” “un macchinario infernale” e ci offre una descrizione di natura quasi divina: «A far scoprire particolari che altrimenti sarebbero invisibili». Il Mostro deve disvelare l’invisibile.

View post on X

Le immagini vengono capovolte e girate da tutte le parti; i corpi dei giocatori si gonfiano e si deformano; parti di campo vengono risucchiate all’improvviso nell’anti-materia. Non è chiaro cosa si voglia dimostrare, in studio si ride. “Il Mostro” sembra più un esperimento video-artistico radicale. L’invisibile a cui si riferisce Sarta non è il nascosto all’occhio umano ma letteralmente il metafisico, ciò che sta oltre la nostra realtà.

Biscardi però continua a investire sulla tecnologia, avvicinandosi sempre di più a una versione credibile della moviola, e si arriva così alla Supermoviola, al Moviolone. Attraverso delle rielaborazioni in 3D vengono ricreate le azioni andate in scena sui campi: vengono ricostruiti i contatti in area di rigore e tracciate le linee del fuorigioco in modo simile a quanto fatto oggi. Paolo Pellacani passeggia tra i corpi spigolosi dei giocatori computerizzati e spiega le azioni, mentre in studio si commentano gli episodi fin nel dettaglio più minuto. Ovviamente non ci si mette mai d’accordo. Nella sigla stessa del Moviolone si dice: «E dopo si discute a più non posso». Nei commenti al video qualcuno sostiene che la moviola era, in realtà, truccata.

Biscardi chiede a gran voce che venga introdotto “il moviolone” nelle partite di calcio, ne fa una battaglia politica.

Nel 2001 Maurizio Mosca teorizza l’idea di far indossare all’arbitro una go-pro sulla fronte, così che gli spettatori a casa possano rendersi conto di cosa ha visto realmente. L’idea non è mirata a migliorare gli arbitraggi ma a pacificare l’opinione pubblica. Il tifoso arrabbiato non sa cosa è riuscito a vedere l’arbitro e la go-pro di Mosca glielo avrebbe permesso: magari rendendosi conto che all’arbitro è sfuggita l’azione, magari il tifoso finisce per accettare più pacificamente una decisione contraria. Ma basta guardare la stessa porzione di realtà per dire che si sta guardando la stessa cosa? E poi immaginate i tifosi gridare esasperati: “dove cazzo stavi guardandooo?!”.

L’8 ottobre del 2017, poche settimane dopo il primo utilizzo del VAR in Serie A, Aldo Biscardi muore da uomo risolto: «Ho vinto io», esulta in un’intervista a Repubblica. Il giornalista gli chiede se in quel momento non ha forse paura di perdere il lavoro. In fondo il suo lavoro era discutere di arbitraggi, e lo scopo del VAR sarebbe stato quello di ridurre, se non eliminare, gli errori, e quindi le polemiche. La risposta di Biscardi è realista:

«Ma no, mi creda, se non si parla più di arbitri io sono solo contento. Tanto le polemiche nel calcio italiano non finiscono mai, c'è parecchio su cui accapigliarsi: lo scarso rendimento di questa o quella squadra, gli spogliatoi in ebollizione... Pensi ora al caso Totti-Spalletti, quanto ce n'è da dire?».

Biscardi non sospettava che pur con il VAR in campo, si sarebbe continuato a discutere; eppure avrebbe dovuto saperlo: i suoi movioloni in studio non erano certo fatti per mostrare una verità assoluta, ma per far discutere ancora più animatamente i suoi ospiti. L’epitaffio sulla tomba di Biscardi recita: "Litigate non più di due o tre alla volta sennò non si capisce".

VAR E GIUSTIZIALISMO, COMPLOTTISTI E MANETTARI

Il primo rigore assegnato usando il VAR è stato fischiato contro la Juventus. "Il calcio italiano entra nel futuro al minuto 37 di Juventus-Cagliari", si scrive su Sky; e la Serie A entra nel futuro per un fallo su Cop (lo ricordate questo giocatore col nome da poliziotto?). È il più classico degli “step on foot”, che di recente ci stanno facendo impazzire. L’innovazione viene commentata con grande favore, anche se Sky ha il presentimento che qualcosa possa incrinarsi: «Anche gli addizionali nel 2012 esordirono con gli applausi» - riferendosi a quando avevamo pensato di aumentare il numero di occhi in campo. Non possiamo ignorare quel che si diceva in quel momento storico, e cioè che col VAR la Juventus avrebbe avuto molti meno scudetti in bacheca. C’era quindi dell’ironia nel fatto che il primo uso del VAR fosse stato fatto proprio contro la Juventus. Buffon parò quel rigore e la Juventus vinse lo scudetto di quell’anno e anche i due successivi.

C’è qualcosa di esasperato nel rapporto tra Italia e VAR, qualcosa che ha a che fare col nostro senso della giustizia, o col nostro giustizialismo sarebbe meglio dire.

In Contadini del Sud Rocco Scotellaro racconta in prima persona l’epopea di Michele Mulieri, falegname e contadino dallo spirito sovversivo. La rivolta di Mulieri non trova espressione in un grande collettività, in una grande narrazione, è invece una rivolta individuale e fatta non per alti ideali ma per il proprio personalistico interesse.

Quel tipo di energia di Michele Mulieri, che Scotellaro racconta come un tratto del sud arretrato, della diffidenza di questa regione d’Italia verso le istituzioni, mi sembra in realtà un aspetto profondo dell’Italia. Un sentimento di generica ingiustizia e sfiducia verso il potere e chi lo detiene - lo stato, la polizia, la giustizia, lo stato in generale. Un desiderio di riscatto rispetto a questo potere maligno.

Il Processo di Biscardi cresce di popolarità nell’epoca in cui scoppia Mani Pulite, e nasce un sentimento di giustizia tradita. Un sentimento che a dire il vero già esisteva, ma che finalmente trovava una spiegazione soddisfacente, e cioè il complotto. I politici rubano, e a quel punto tutto ciò che poteva solamente essere sospettato era una realtà. Se nella politica esiste tutto un piano del complotto che agisce e ordisce macchinazioni lontano dai nostri occhi, come fa a non esistere nel calcio?

Calciopoli è stata un grande sollievo. Una conferma megalitica di questa idea che qualcuno lavori incessantemente per fregarci. Una filosofia malevola fondata sulla massima andreottiana: «A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca»; un aforisma da cui siamo ossessionati e citato fino allo sfinimento, soprattutto perché ad averlo detto è stato il più grande uomo di potere della storia d’Italia. La definizione stessa di eminenza grigia. Se Andreotti stesso ammetteva che sospettare il peggio fosse più esatto, che conferma ancora dovevamo aspettare?

E così nell’Italia dei misteri si è invocato il VAR come l’intervento di un occhio divino in grado di trascinare a galla il sommerso, e quindi eliminare l’ingiustizia. Un occhio asettico e perfetto, che avrebbe schiarito ogni zona d’ombra, cancellato ogni ambiguità, definito una volta per tutte la differenza tra bene e male.

Il giudice di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, scende in politica e fonda l’Italia dei Valori, piantando alcuni dei semi che porteranno alla nascita del Movimento 5 stelle - con tutte le sue promesse di pulizia morale della politica italiana. Nel 2014 i Cinque Stelle vivranno un impronosticabile exploit elettorale, aprendo il parlamento “come una scatoletta di tonno”. Nel 2016 esordirà il VAR in Serie A. Mi rendo conto che mettere insieme fatti tanto diversi possa suonare pretestuoso, non esiste una logica causale ovviamente e il VAR non è un fenomeno solamente italiano.

Quello che voglio dire, però, è che c’è stata una differenza di interpretazione nel contesto italiano su cosa avrebbe dovuto essere il VAR. Siamo o non siamo il campionato che concede più rigori, tra quelli di alto livello? Nessuno gli ha delegato tanta responsabilità, nessuno ne è stato così ossessionato. Nessuno ha frainteso tanto il suo scopo, facendosi confondere sul suo reale potere; nessuno lo ha invocato da più tempo, brevettando dei “movioloni” sperimentali trent’anni prima del loro arrivo ufficiale. Nessuno, quanto noi, continua a fraintenderlo - criticandolo come una piccola forma d'affetto.

IL REGOLAMENTO DEL CALCIO È FATTO PER FARCI LITIGARE

C’è qualcosa di intrinseco alla natura del calcio che sembra fatto apposta per farci litigare, per animare la discussione intorno ai suoi episodi. Il fatto è che si tratta di uno sport difficile da regolamentare, ed è quindi uno sport difficile da arbitrare.

Facciamo una prima distinzione: nel regolamento calcistico ci sono norme indicali e norme procedurali. Quelle indicali sono quelle che consentono lo svolgimento teorico del gioco. Quelle procedurali sono quelle che deve applicare l’arbitro per sanzionare i comportamenti irregolari che caratterizzano una partita.

Nel calcio queste norme possono essere estremamente ambigue.

Persino quelle indicali lo sono, visto che nemmeno sulle dimensioni del campo si riescono ad avere misure univoche. Fino a qualche anno fa si discuteva per esempio dell’eccessiva larghezza del Camp Nou, che favoriva lo sviluppo del gioco di posizione del Barcellona. Nell’87 il Glasgow Rangers restrinse il proprio campo per sottrarre spazio all’iper-atletica Dinamo Kiev del colonnello Lobanovski. Col tempo la FIFA ha cercato di uniformare le dimensioni di gioco, stabilendo dei parametri entro cui restare. Qualche piccola differenza rimane, anche se è difficile parlarne senza scadere in patetiche lamentele. Di recente Pioli ha detto che il campo della Spezia è «troppo piccolo, non è corretto»; nell’ultima Copa America si è discusso su campi troppo stretti e lunghi. Non si tratta solo del campo; il pallone, lo strumento principale del gioco, cambia da un’epoca all’altra. Se guardiamo ai gol segnati negli anni ’80 e ’90 i palloni viaggiavano con traiettorie più secche e lineari. Sembrava più facile segnare di testa o dare potenza da fuori area. Ma i palloni cambiano anche da un torneo all’altro all’interno della stessa stagione.

Pur dentro certi parametri, queste norme indicali variano in modo arbitrario, modificando in maniera sostanziale le condizioni di un gioco che a livello competitivo si decide su margini stretti e pochi dettagli. Il calcio, poi, si pratica all’aperto, e le condizioni climatiche possono influire in profondità sulle premesse di gioco. Non vale solo per il calcio, è chiaro. Pensiamo a quanto possa influire il vento - una condizione televisivamente poco apprezzabile - su sport come l’atletica, il baseball o il tennis. Il calcio però si gioca anche in condizioni di pioggia molto forte, l’importante è che il terreno “regga”, come si dice con questo verbo un po’ vago. Cosa significa che un manto erboso regge? In sostanza, che la palla possa rimbalzare in modo percepibile. Solo che una palla può rimbalzare bene su una zona del campo e per niente in un’altra. È a discrezione dell’arbitro decidere, quindi, se un campo è o non è praticabile. Non esiste una misura oggettiva per decidere la soglia entro cui il calcio, quindi, è ancora calcio, pur avendo condizioni di gioco profondamente diverse da quelle considerate "ideali". Nella storia, lo sappiamo bene, le decisioni degli arbitri su questo aspetto hanno generato controversie notevoli. La più grande è quella che ha riguardato lo scudetto vinto dalla Lazio nel 2000, deciso all’ultima giornata quando la Juventus ha pareggiato su un campo di Perugia in condizioni al limite. Iconica è l’immagine di Pierluigi Collina che, ombrello in mano, misura la praticabilità del campo.

Il manto erboso si può manomettere in modo strategico, bagnandolo più o meno prima dell’inizio del match, o tenendo l’erba più o meno alta. Altri aspetti regolamentari dentro cui i club possono muoversi assecondando le proprie strategie, e alimentando inevitabili polemiche. «Erba troppo alta? Non sono un giardiniere», aveva detto Pep Guardiola dopo una sfida contro il Liverpool. È un giardiniere invece Simeone, che aveva risposto così a un esposto del Barcellona alla UEFA per l’erba troppo alta del Calderon: «A casa mia si gioca come dico io». Ci sarebbe poi da parlare delle differenze climatiche quando toccano punti estremi dello spettro, come le partite in altura che si giocano in Messico o in Bolivia; o quelle in mezzo alla neve del Canada, che la Nazionale spesso ospita proprio per provare a sfruttare il vantaggio climatico.

Finora abbiamo parlato solo delle norme indicali, quelle che cioè consentono lo svolgimento teorico del gioco. Ora però dobbiamo parlare delle norme procedurali: un regno tenebroso e dai confini del tutto indefiniti. Un regno dove si naviga a vista, come dentro le nebbie di Luigi Ghirri, e dove gli arbitri devono prendere decisioni sulla base di categorie astratte.

Ci sono due aspetti che rendono il calcio particolarmente difficile da regolamentare, e cioè che si tratta di uno sport dinamico, fatto di situazioni in costante movimento, ed è uno sport di contatto. I criteri a cui deve attenersi l’arbitro per sanzionare questi contatti sono estremamente ambigui. Due di questi, per fare degli esempi, sono quello dell’intenzionalità, scoglio di qualsiasi filosofia morale; e poi quello della violenza, il cui limite è sempre difficile da individuare in modo preciso, come sanno gli studiosi di sociologia e psicologia.

Ci arriveremo più avanti, ma intanto possiamo dire che questi due sono i parametri contro cui l’occhio impassibile del VAR è entrato più in rotta di collisione. Se per un uomo è complicato tracciare confini molto precisi di volontarietà e violenza, figuriamoci per una macchina.

Ci sono poi altri parametri, ancora più nebulosi e arbitrari, che intervengono nel regolamento calcistico. Alcuni hanno a che fare apertamente con la morale, come per esempio la volgarità. Un giocatore può essere sanzionato se compie gesti volgari, come fare il dito medio oppure mostrare il torso nudo. Cose che possono urtare la sensibilità comune. Oppure un calciatore può essere sanzionato in caso di blasfemia, i cui confini sono piuttosto sfumati. Le espressioni eufemistiche (“porco Diaz”) sono considerabili bestemmie? Qual è il range di divinità maledicibili?

Il calciatore è punibile non solo se insulta Dio in cielo ma anche se insulta quello in terra, e cioè l’arbitro. Qual è, però, il limite a cui un giocatore può spingersi nell’insultare l’arbitro prima di essere espulso? Vediamo di continuo giocatori danzare pericolosamente su questo limite, cercando di restare sul bordo dell’espulsione, appena prima di precipitare.

C’è poi il grande parametro del “rispetto”. Se un giocatore tiene un comportamento irrispettoso nei confronti del pubblico - per esempio esultandogli in faccia dopo un gol - l’arbitro può decidere di sanzionarlo.

Mettiamo quindi un punto generale ma molto importante. Il regolamento calcistico non è preciso e puntuale, le regole riescono a proiettarsi solo in modo impreciso rispetto al mondo di eventi che hanno la pretesa di normare. Per i confini sfumati del concetto di violenza, per esempio: il calcio è uno sport di contatto, ma qual è il punto oltre il quale un contatto diventa punibile con un fallo? «Non è la danza!», si lamentano i più virili, ma stabilire fino a che punto una scivolata, una spinta o un contrasto è lecito o non lecito non è semplice. Per i confini sfumati del concetto di volontarietà: un intervento duro è meno punibile se un giocatore cerca il pallone, o se una testata è data senza intenzione di darla. Come si fa, però, a stabilirlo?

Gli equivoci sugli arbitraggi sono quindi alla radice: una buona parte degli episodi che si verificano in campo sono equivoci, dubbi e difficili da chiarificare. Non esiste una verità oggettiva e assoluta applicabile per la maggior parte delle presunte infrazioni che accadono sul terreno di gioco.

Tra la sfera giuridica e regolamentare e quella degli eventi esistono dei vuoti, delle zone grigie, delle ambiguità, che l’arbitro deve di volta in volta sbrogliare attraverso la propria percezione e la propria sensibilità. Dovrà orientarsi attraverso una serie di riferimenti cognitivi e morali; speriamo che questi siano più condivisi possibili - la celebre “uniformità di giudizio” - ma ci si può arrivare solo per approssimazione. La perfetta uniformità, l’idea che ogni direttore di gara possa decidere allo stesso modo sulla base del regolamento e sulle istruzioni dei vertici arbitrali, è una pura astrazione. Serve come riferimento a cui tendere, ma resta irraggiungibile.

Per una ragione, soprattutto: l’arbitro non esercita il proprio mestiere in un ambiente neutro e asettico.

L'ARBITRO È UN'AUTORITÀ INFLUENZABILE: ACCETTIAMOLO

Immaginate il vostro esame per la patente. Immaginate il test a risposta multipla, ma nella sala tutti vi guardano, vi fischiano, vi insultano. Vi guardano, vi odiano e il loro preciso scopo è farvi sbagliare. Immaginatevi in un contesto simile compiere i vostri esercizi mnemonici, usare l’intelligenza e il vostro buon senso, mentre lo scopo di tutte le persone attorno a voi sembra quello di sottrarvi l’intero orientamento cognitivo di cui disponete.

Quello dell’arbitro di calcio è il mestiere peggiore del mondo. Non solo perché ha a disposizione un regolamento fragile e imperfetto, ma anche perché deve applicarlo nelle peggiori condizioni possibili. Circondato da giocatori che cercano di condizionarne le scelte, e in un ambiente ostile che contesta la sua autorità per partito preso. Come scrive Dal Lago in Descrizione di una battaglia, all’interno di uno stadio l’arbitro è un’autorità legale ma non legittima. Le sue decisioni sono contestate in base all’adesione o meno a una parte in gioco. Un’altra delle cose incredibili del calcio che diamo per scontate.

Il contesto ambientale e la situazione di gioco modella inevitabilmente l’applicazione del regolamento. Scrive sempre Dal Lago: "Le norme calcistiche non sono necessariamente scritte e codificate nei regolamenti, ma costituiscono il sistema di precetti pratici a cui l’arbitro si conforma volta per volta nell’esercizio della sua attività".

Questo è un altro aspetto che fatichiamo a riconoscere, quando parliamo di arbitraggio, e cioè che il regolamento viene applicato non solo in base ai riferimenti cognitivi del singolo arbitro, ma anche del tipo di partita che si ha di fronte. Ogni partita è una creatura particolare, e pone all’arbitro problemi diversi. La sensibilità dell’arbitro risponde anche a delle esigenze pratiche che la partita gli presenta. Un rigore concesso per compensazione, per esempio. Dei cartellini gialli assegnati per “calmare” una partita che sta diventando accesa. È sempre in atto una negoziazione implicita tra giocatori e arbitro sul tipo di metro da adottare. Sento già, in sottofondo, qualcuno dire: “eh, ma non dovrebbe”; “eh ma se succede l’arbitro è scarso”. Si tratta di accettare uno stato dei fatti: quelle dinamiche non sono un effetto imprevisto ma il modo stesso in cui funziona la giustizia su un campo da calcio.

Giocatori e allenatori sanno bene che il regolamento è imperfetto, e che l’arbitro è costretto a prendere decisioni complesse in condizioni difficili - poco tempo, pressione ambientale, condizionamenti psicologici. Lo sanno, e per questo cercano di ostacolarlo in ogni modo. Cercano di creare un rumore di fondo, una perturbazione che può condizionare le sue scelte, magari anche solo a un livello inconscio. Potrebbe essere sufficiente, in circostanze così difficili.

Esiste quindi un codice di regole non scritte. Una specie di galateo di sportività che può essere rispettato o disatteso durante una partita, turbandone lo svolgimento e soprattutto il suo arbitraggio. Quanto sono collaborativi i giocatori nei confronti dell’arbitro e quanto invece sono intenzionati a sfidarne l’autorità per trarne vantaggio?

Ci sono alcune squadre, come quelle di Mourinho per esempio, o l’Arsenal di Arteta per fare un esempio più attuale, che hanno tra le proprie strategie quella di impaludare la partita, confondere l’arbitro, condizionarlo in qualche modo. Influenzare i direttori di gara con proteste, esagerazioni, depistaggi è ammesso, anzi: i tifosi a volte lo richiedono. Ci si può arrabbiare se la propria squadra protesta poco, o comunque meno di quella avversaria, dando la sensazione di farsi mettere i piedi in testa. È più o meno riconosciuto che l’arbitro è un’autorità influenzabile.

Anzi, che l’arbitro sia un’autorità influenzabile è stato dimostrato da diversi studi effettuati durante la pandemia, quando i campionati europei sono ricominciati all’interno di stadi vuoti. Nonostante probabilmente il pubblico sia capace di influenzare l’arbitro meno dei giocatori in campo, beh, i suoi bias sono risultati piuttosto chiari. È stato rilevato che prima del Covid, con gli stadi pieni, gli arbitri fischiavano meno falli e assegnavano meno cartellini alla squadra di casa. Del resto è un fatto conclamato in ogni sport: l’arbitraggio favorevole è uno dei vantaggi del giocare in casa. Se i tifosi hanno un peso nell’orientare le decisioni dell’arbitro, di certo ce l’hanno anche i giocatori in campo che possono parlargli.

IL REGOLAMENTO NON È UNA SACRA SCRITTURA!

Quindi abbiamo messo due punti da parte: il regolamento calcistico è imperfetto rispetto agli eventi che norma; e gli attori in gioco cercano di approfittare di questa imperfezione per condizionare l’arbitro e avere decisioni favorevoli.

C’è però un altro punto di cui bisogna tenere conto, e cioè che il regolamento calcistico non cala dall’alto come una sacra scrittura; non risponde a esigenze oggettive eterne e universali. Le regole ce le siamo date noi e sono cambiate nel tempo e cambiano nello spazio.

Nel tempo sono cambiate soprattutto per andare incontro allo spettacolo televisivo. Per questo è stata tolta al portiere la possibilità di prendere il pallone con le mani dopo un retropassaggio; per questo ci si continua a scervellare su come risolvere un match in parità (golden goal, silver goal, supplementari, rigori secchi). (Avete mai preso consapevolezza profonda del fatto che noi arriviamo ad assegnare il titolo di Nazionale campione del mondo di calcio attraverso i calci di rigore? Esiste qualcosa di più fragile e arbitrario di una cosa che soprannominiamo “lotteria”? Quanto è assurdo, a pensarci, rispetto al peso che il calcio ha nelle nostre vite? Quanto accettiamo che questo sport sia dominato dal fato? In quale altro ambito della nostra vita accettiamo un’ingerenza così grande del caso? Cos’altro accettiamo di così sfacciatamente anti-illuminista?). È cambiato il numero di sostituzioni possibili e presto, molto probabilmente, cambierà anche la regola del fuorigioco - ci arriviamo.

Le norme e la loro applicazione, poi, variano anche nello spazio. Si dice “arbitrare all’inglese” per indicare uno stile di direzione più tollerante dei contatti. Ciascun campionato ha indicazioni diverse - di anno in anno - sulle zone più sensibili del regolamento, falli di mano, calci di rigore, contatti violenti (a quale altezza della gamba bisogna colpire per ottenere un rosso diretto? In che posizione deve stare il piede per considerare un intervento “pericoloso"? Studi sulla figura che cambiano da paese a paese).

IL VAR TRAVOLGE E MANDA IN PANNE QUESTO REGOLAMENTO

Immaginate inserire il filtro del VAR dentro questa macchina giuridica così complessa e contraddittoria. Un meccanismo in cui un certo grado di soggettività dell’interpretazione è impossibile da eliminare.

Nel Leviatano Hobbes descrive un patto in cui gli uomini rinunciano ai loro conflitti, ma anche alla loro libertà, dandola in mano a un potere superiore. L’idea del VAR è stata simile a questa: la spersonalizzazione del potere avrebbe garantito la sua esattezza; la macchina avrebbe permesso di prendere decisioni senza i bias tipici dell’essere umano. È vero: tecnicamente il VAR è “solo uno strumento”, ma inconsciamente in questi anni ha continuato e continua ad agire questo pensiero tecno-ottimista, magico, sul VAR come panacea di ogni stortura arbitrale. Gli arbitri, sempre di più col tempo, hanno rinunciato al proprio potere, delegandolo allo strumento. In un certo senso è stato inevitabile. Io in questo pezzo mi riferisco spesso al VAR come alla macchina, ma tecnicamente il VAR sarebbe l'assistente della Sala VAR che si occupa di assistere l'arbitro sulle decisioni rivedendo in anteprima le immagini equivoche. Questo slittamento linguistico, dall'umano al tecnologico, lo utilizzo per comodità perché è diventato di uso comune, e perché mi pare significativo.

Lo abbiamo visto: il regolamento del calcio ha intrinsecamente bisogno, per essere applicato, di un’interpretazione soggettiva dell’arbitro. Il VAR aiuta l’arbitro a disambiguare certe situazioni: i contatti più evidenti, se un contatto è avvenuto dentro o fuori dall’area, se c’è stato un fuorigioco vistoso che è sfuggito al guardalinee (ora col fuorigioco semi-automatico). Nella maggior parte dei casi, però, non c’è solo una regola da applicare seguendo alla lettera il regolamento, ma una situazione da valutare attraverso una disamina soggettiva.

L’intervento del VAR si supponeva che potesse sterilizzare la soggettività dell’applicazione attraverso l’oggettività tecnica, ma questa idea non si è solo rivelata falsa, ma ha avuto conseguenze che continuiamo a sottovalutare. Il VAR mette a disposizione dell’arbitro delle immagini, ma come fanno quelle da sole a chiarire se un contatto con la mano è stato intenzionale, o se è un contatto tra i due piedi è stato abbastanza violento da compromettere lo sviluppo dell’azione? Come fa l’immagine, da sola, a dire all’arbitro se un’azione è “una chiara occasione da gol”?.

Guardando le immagini degli episodi dubbi ci troviamo in quella perturbante situazione in cui eravamo qualche anno fa, quando ci chiedevamo se quel vestito fosse blu o dorato. In realtà era sia blu che dorato, ma uno strano fenomeno percettivo ce lo faceva vedere o di un colore o dell’altro.

Possiamo tutti guardare la stessa immagine, ma non andremo di certo tutti d’accordo su cosa è contenuto in quell’immagine. Al contempo però tutti pensiamo che quello che vediamo noi sia OGGETTIVAMENTE vero. Un cortocircuito che in questi anni, unito alla comunicazione maliziosa dei social, ha fatto deragliare il dibattito.

Questo è un altro fenomeno aggiunto dal VAR: l’idea che le immagini inchioderebbero le dinamiche delle azioni ai FATTI. Come se ci mostrassero un realtà oggettiva. Quante volte ci è capitato di sentire “come fai a non darlo col VAR?!”; “Capisco se hai sbagliato, ma c’è il VAR!”. Possiamo accettare che all’arbitro qualcosa sia sfuggito, ma non che l’abbia interpretato in modo diverso dal nostro. Un articolo di Gazzetta del 2004 contro la prova tv titola esasperato: “Ayroldi, come fai a non vedere?”. Lo scorso anno un fatto inedito, un imprevisto. Delle immagini del VAR sono state proiettate sul maxi-schermo dell’Olimpico. Un presunto rigore per la Lazio contro il Genoa, con Immobile che indicava le immagini all’arbitro “Lo vedi? È rigore!”. E l’arbitro non lo ha assegnato.

Il problema riguarda la cognizione umana. La fatica che facciamo a validare l’opinione di qualcuno che la pensa diversamente da noi. Riconosciamo la possibilità che qualcuno veda dentro un quadrato di Rothko la più efficace rappresentazione della condizione umana, ma non crediamo possibile che un contatto che noi riteniamo rigore possa non esserlo.

Cosa vedi in questo Rothko?

Questo per dire una cosa semplice: come già sapeva Biscardi, il VAR non ha bonificato il discorso calcistico. Non ha creato un contesto di pace e dialogo. Si parla di arbitri, si parla sempre di arbitri.

A Roma si parla ancora, da oltre due anni, di un fallo di mano non fischiato in area. Stiamo parlando della finale di Europa League tra Roma e Siviglia e Fernando tocca con la mano distante dal corpo un cross di Nemanja Matic. L’arbitro non fischia il rigore. Al VAR riguardano l’episodio e decidono di non fischiare il rigore. I tifosi della Roma sono nello sgomento. Come si va a valutare non falloso quel fallo di mano?

Il punto è che la regola sui falli di mano nel calcio è straordinariamente ambigua. Il regolamento dice che un fallo di mano c’è quando un giocatore "tocca intenzionalmente il pallone con la mano o il braccio, per esempio muovendo la mano o il braccio verso il pallone. Tocca il pallone con le proprie mani/braccia quando queste sono posizionate in modo innaturale aumentando lo spazio occupato dal corpo".

Così quando Marelli - l’esperto arbitrale, il supergiudice televisivo - commenta l’episodio in diretta quasi si rassegna: «Sono episodi su cui non potremo mai essere d’accordo». È semplicemente così. Come a dire: non c’è modo di smettere di litigare quando si parla di calcio. Il regolamento e le dinamiche di gioco sembrano fatti apposta per aprire delle zone di indecifrabilità. A conferma ulteriore di ciò, lo stesso arbitro Taylor non ha concesso un rigore alla Germania all'ultimo Europeo per un altro fallo di mano per molti aspetti simile. Dunque Taylor in Roma-Siviglia non si era sbagliato: è che non ritiene falloso quel tipo di episodio.

Quindi le immagini a disposizione dell’arbitro manterranno sempre un certo grado di indecidibilità su quello che è successo. Da sole non bastano a disambiguare se c’è stato un fallo oppure no. Le immagini non ci dicono da sole se qualcosa è fallo oppure no. Sembra una cosa scontata da dire, eppure nel modo in cui parliamo di calcio c’è sempre la pretesa che lo siano.

Sembra strano dirlo, e mi rendo conto di poter suonare come uno che vuole le mettere le mani avanti, ma questo non è un articolo contro il VAR. Riconosco che il VAR ha reso visibili alcune cose che prima non lo erano. Ha messo a disposizione degli arbitri uno strumento in grado di correggere gli errori più macroscopici e scandalosi. O almeno quelli che ritenevamo tali. Il VAR ha in parte fatto davvero quello per cui era nato: ha corretto i difetti percettivi della natura umana; correggendoli, però, ne ha aggiunti altri. Il filtro della macchina è entrato in collisione con quello umano, e con il regolamento. Ha fatto attrito con quel regolamento ambiguo e sfumato, modellato attorno alla soggettività umana e alla sua cognizione, alla sua morale - finendo per generare i cortocircuiti di cui discutiamo ogni settimana. Un conflitto uomo-macchina che va in scena tutte le domeniche, dentro la matrioska di schermi - quelli dei nostri televisori, quelli del VAR, quelli dei nostri telefoni in cui riguardiamo gli episodi rallentati - degno di un racconto sci-fi.

NON C'È UNA SCADENZA: POSSIAMO LITIGARE SULLO STESSO EPISODIO DUBBIO PER L'ETERNITÀ

Torniamo a quel fallo di mano di Fernando nella finale di Europa League tra Roma e Siviglia. Quell’episodio arbitrale ha sostituito nella memoria condivisa dei romanisti il celebre “go de Turone”. Il furto madre, l’abisso dentro il quale vedere la corruzione del mondo infame - come da una serratura dell’Aventino si può vedere il Cuppolone. Tra i due episodi c’è un salto tecnologico. Il “gol de Turone”, verificatosi nell’epoca della scarsità delle immagini, riempie i vuoti con l’aneddotica e il mito. Sancini, guardalinee di quel giorno, ha raccontato: «Presi la decisione giusta. Quel giorno la Rai lavorò con poche telecamere a causa di uno sciopero, ma De Laurentiis, giornalista del secondo canale, disponeva di una moviola speciale, il Telebeam, e provò con precisione l’irregolarità: secondo la macchina Turone era in fuorigioco per 10 centimetri». Secondo la macchina.

Il Telebeam è un altro degli esperimenti che gli italiani hanno fatto per vederci meglio sugli errori arbitrali. A quanto pare gli unici campi tecnologici in cui siamo all’avanguardia sono le armi e le moviole. Attraverso il filtro del Telebeam i corpi dei calciatori diventano sagome e proiettate nello spazio del campo si può misurare il fuorigioco. Sancini ricordava male: nel 1981 il Telebeam ancora non era in dotazione alla RAI e l’episodio venne ricostruito solo cinque anni più tardi, decretando peraltro che Turone era tenuto in gioco da Prandelli. Secondo i potenti mezzi del Telebeam.

Sul gol di Turone è stato girato un film uscito da poco e le persone, appunto, continuano a discutere di quell’episodio quasi mezzo secolo dopo. È possibile discutere di episodi arbitrali così tanti anni dopo? Di che forma di necrofilia stiamo parlando?

Del resto ancora oggi esiste una particolare forma di feticismo in cui, in certi cunicoli di X, si discute di episodi arbitrali di anni fa come si parlava di dettagli cristologici tra teologi nel ‘400. Utenti con vasti archivi video, discutono polemicamente con altri utenti con archivi video altrettanto vasti. Litigano su un episodio di giornata citando casi analoghi successi anni, persino decenni prima. Magari gli capita di dimenticare il pin della loro carta, ma riuscirebbero a rievocare all’impronta un torto arbitrale ricevuto quindici anni prima. Dottori eccellentissimi della giurisprudenza arbitrale, profondi conoscitori di tutti i torti nei secoli dei secoli.

View post on X

Quando ci estingueremo sogno che venga costruita un’enorme banca di video contenente tutti gli episodi discussi sulla Serie A. Qualcosa di simile alla banca dei semi che è oggi sepolta dalle nevi delle Svalbard.

L’IMMAGINE REIFICATA

Nelle discussioni sui social l’immagine viene ritagliato un piccolo frammento di realtà comodo per sostenere la propria tesi. C’è sempre un limite per queste immagini mandate a ralenti fino a immobilizzarle. Immagini di questo tipo, da sole, non possono chiarire un episodio e anzi, a volte possono deformare i fatti fino a farli diventare una cosa diversa. Farci vedere cose che non ci sono, come in un quadro di Magritte in cui il visibile suggerisce l’invisibile.

Il VAR ha reso infinitamente più controversa la valutazione dei contatti, perché ha inserito un regime visivo diverso, quello della staticità, dello screenshot, dell’immagine reificata. Un regime che entra in conflitto con la dinamicità del gioco. In questi casi il VAR non solo non evita l’errore ma lo causa.

L'impero delle luci, di René Magritte.

Durante la revisione col VAR possiamo vedere questi arbitri (prima in sala, poi eventualmente in campo) rallentare l’immagine fino a fermarla per vedere se riescono a trovare il contatto tra un piede e l’altro. Solo che ciò che non è falloso in un regime di dinamismo, in presa diretta, può diventare falloso in un regime di staticità, che però non è più giusto. L’immagine statica non può permettere all’arbitro di valutare l’intensità di un contatto. Per questo in teoria il protocollo sostiene di usare il fermo immagine solo per valutare la zona di contatto, e di riprendere la visione a velocità normale per valutarne l'intensità. L'impressione, però, è che questa indicazione venga disattesa nei fatti - viene da pensarlo a vedere il tipo di rigori che viene concesso negli ultimi anni.

Viene in mente quella scena di Blow Up in cui il fotografo protagonista sviluppa una serie di fotografie in un parco e ci trova dentro un cadavere. Abitando quella porzione di realtà, in quel momento, non si era accorto di niente, ma attraverso le immagini fornite dal VAR ci ha trovato dentro un crimine. Scriveva Daniele Manusia:

"Il VAR come entità trascendente che interviene anche quando non ne conosciamo la ragione. Il VAR che ci fa scoprire peccati che non avevamo visto in tempo reale, come il protagonista di Blow Up che si accorge ingrandendo un’immagine innocente scattata in un parco che, sullo sfondo, sgranata, pixelata diremmo oggi, c’è un corpo senza vita. Il VAR che, quindi, ingrandendo a sufficienza ogni azione in area di rigore può trovarci dentro il cadavere di un rigore".

In teoria il regolamento dice che l’arbitro può essere richiamato solo se non è riuscito a valutare il contatto in diretta. Ma ci ritroviamo di nuovo di fronte a un’ambiguità: qual è il limite per decidere su una cosa simile? Dentro un’ambiguità, nel regolamento calcistico, si nasconde sempre un’altra ambiguità.

Thomas rivede al VAR le sue fotografie e dentro ci scopre un omicidio.

Se l’immagine registra un contatto - che può essere un contatto tra due piedi o tra una mano e il pallone - l’arbitro viene richiamato al VAR. A quel punto è già successo qualcosa, la bussola dell’arbitro è già cambiata completamente. A quel punto non giudica più attraverso il proprio occhio, ma attraverso quello della macchina. Sa che tutti stanno vedendo le immagini che lui stesso sta vedendo, e se c’è un contatto è molto difficile per lui decidere di non fischiare il rigore. È solo attraverso un’interpretazione soggettiva che si può prendere una decisione, ma per definizione deve essere collegata a una sensibilità individuale. Non vedranno tutti la stessa cosa. L’unico modo per essere più oggettivi possibili, per tendere verso l’oggettività impassibile dello sguardo della macchina, è quello di fischiare ogni contatto. Annullare il proprio giudizio in diretta e fidarsi della realtà alternativa del VAR. I regolamenti sui contatti in area di rigore, specie quelli di mano, sono impazziti in questi anni, per aggiustarsi attorno all’occhio del VAR.

IL CALCIO DI RIGORE È DIVENTATO INSOSTENIBILE COL VAR

Il calcio di rigore è dove confliggono tutti i problemi del VAR e del regolamento del calcio. Abbiamo detto che la problematicità regolamentare del calcio deriva dal fatto che è uno sport dinamico e di contatto, ma non è tanto questo. In fondo anche il basket, per citarne uno, ha quelle caratteristiche. Il problema del calcio è che è anche uno sport a basso punteggio, e questo rende il peso delle decisioni arbitrarli molto grande. Mettiamoci poi che esiste una sanzione come il calcio di rigore, che si basa su una sproporzione enorme tra reato e punizione. E allora la dimensione giuridica diventa obiettivamente una delle più influenti e interessanti di una partita. In uno sport a basso punteggio un piccolo tocco di mano involontario e totalmente ininfluente può causare la perdita del match. Una piccola ingenuità regolamentare di un difensore può costare una coppa, può modificare una carriera e il sentimento dei tifosi. Se mettiamo sulla bilancia anche l’immane peso sentimentale del calcio, dei risultati della propria squadra. Il fatto che stiamo parlando di un’ossessione, di una malattia (il tifo!), capiamo che quanto è grande la nuvola che grava intorno a una singola decisione arbitrale. Sull’interpretazione di immagini di per sé inerti.

Veniamo al punto: il VAR ha aumentato il numero di calci di rigore nelle partite?

In uno studio del 2020 è stato notato che il numero di rigori assegnati dall’introduzione del VAR nei 5 maggiori campionati era salito del 12%. In Premier League si è passati da una media di 92,6 rigori assegnati per campionato a 104,6. Se guardiamo questo report di Driblab registriamo un aumento complessivo, ma è più interessante notare come in certe stagioni il numero di rigori esploda, magari in concomitanza con qualche modifica regolamentare che diventa particolarmente ingestibile con il VAR (ma spesso causata dal VAR stesso).

Nella stagione 2019/20 si è raggiunto il picco storico di rigori assegnati col VAR: 187. Un’annata diventata particolarmente fertile per i rigori per fallo di mano. Se un pallone sfiora una mano in area, non importa più se quel tocco di mano è stato lieve, molecolare, o completamente ininfluente per lo sviluppo dell’azione. Conta solo che il VAR ha registrato il contatto. Parlare di “influenza sullo sviluppo dell’azione” significa del resto tirare in ballo una categoria di giudizio umana, non contemplata dalla macchina. Indipendentemente dal numero dei rigori - comunque più alto - è aumentato anche un senso di ingiustizia, o quanto meno di incomprensione, a veder fischiati rigori così ottusi, in cui il regolamento sembra ormai funzionare per sé stesso, in una dimensione indifferente al buon senso, che finisce per non servire più gli scopi umani ma i propri scopi (che sono enigmatici come quelli di un romanzo di Kafka). Non abbiamo più raggiunto i picchi del 2020, ma i rigori per fallo di mano sono diventati parte del paesaggio.

Alcuni casi recenti hanno riguardato lo step-on-foot - uno dei tanti termini orrendi che utilizziamo come moneta corrente nel dibattito calcistico. Lo step-on-foot, detto anche “pestone”, è la versione calcistica del “mettere il piede in fallo”, del camminare sulla porzione di mondo sbagliata. Nello step on foot non c’è mai l’intenzione di fare un fallo o di interrompere un’azione pericolosa. L’intenzionalità, però, non conta in questi casi. E non conta nemmeno se l’azione interrotta, in realtà, non era pericolosa. È la punizione del contatto nella sua purezza e astrazione. Un calcio di rigore assegnato per step-on-foot è una punizione così severa che diventa quasi incomprensibile. In Fiorentina-Lazio la squadra ospite si è vista fischiare contro due rigori che rientravano in questa casistica, diversi tra loro. Nel secondo caso Nuno Tavares “striscia” un piede avversario sulla linea di fondo, dopo che quello ha crossato. Un rigore assegnato in maniera burocratica. Nella trasmissione “Open Var” ascoltiamo il dialogo nella sala VAR: il fallo non è stato messo in dubbio nemmeno per un secondo. Selezionano l’immagine, la prospettiva, da cui il fallo si vede più chiaramente, scartando quelle in cui il fallo appare più dubbio. A nessuno passa per la testa di pesare il contesto della situazione: era un’azione pericolosa? Quanto è stato grave il danno procurato? Quel contatto si può considerare fallo? Niente di tutto questo, in termini di regolamento, conta.

Si rientra in studio e Rocchi esprime tutta la sua più profonda ammirazione per la procedura seguita dal VAR. «Ho sentito dire da qualcuno che prima questi calci di rigore non venivano concessi, oggi questa tipologia è codificata», e poi «Non possiamo far altro che concedere il calcio di rigore». Qualcuno ha codificato che questo tocco è rigore, e loro non possono far altro che attenersi. Ciro Ferrara cerca di difendere la categoria dei difensori ma è inutile, è una difesa velleitaria, astratta, buonista. L’intervento è codificato e allora basta. Dice: ma non l’ha fatto apposta. «La volontarietà non c’entra», taglia corto Rocchi.

Una settimana più tardi non viene fischiato un rigore in Monza-Roma per uno step-on-foot di Kyriakopulos su Baldanzi. In Sala VAR smentiscono tutto: «Lo pesta sul piede ma non c’è nessuna azione fallosa». Su Open VAR dicono, in sostanza, che non è un tocco volontario. «Vogliamo che sia uno step-on-foot chiaro». Ma qual è la differenza tra uno step-on-foot chiaro e uno non chiaro? La differenza sta nel cuore dell’arbitro di campo e di quelli in Sala VAR. Rocchi non aveva detto che non contava la volontarietà? Dipende…

Ogni settimana il regolamento sembra conformarsi a regole diverse, che seguono la sensibilità arbitrale nel dipanare il nodo tra la partita, il regolamento e il VAR.

Open VAR nasce per aprire la comunicazione sugli episodi arbitrali. Un gesto di trasparenza da parte degli arbitri, con uno scopo didattico: educare il pubblico italiano alla complessità del regolamento arbitrale. Guardando Open VAR, però, si fatica a capire qualcosa in più. Sembra solo uno spazio in cui si “normalizza” il tono attorno agli episodi del weekend. È una difesa d’ufficio. Il disegnatore Rocchi o il suo collaboratore Gervasoni vanno in studio e dicono che gli arbitri hanno arbitrato bene, né più né meno. Per ogni episodio si trova sempre la formulazione per giustificare il loro operato. Il più delle volte queste argomentazioni non vanno l’oltre il «crediamo debba essere così». In genere si fa riferimento sempre a un regolamento astratto e sacro, a cui gli arbitri non fanno altro che conformarsi. Questo regolamento, però, sembra variare ogni settimana.

Non è però un problema di ipocrisia. Come sto cercando di dire, il regolamento è così ambiguo da essere aperto a ogni interpretazione. Ogni weekend si aprono episodi indecifrabili che mettono in crisi tutti i nostri parametri cognitivi e morali. Prendiamo per esempio l’episodio dell’espulsione di Reijnders contro l’Udinese. Il fallo da ultimo uomo è chiaro. Ma il fallo c’è? Questo è più difficile da dire. Reijnders non fa niente per fermare Lovric intenzionalmente, ma le loro gambe a un certo punto si incrociano. Per anni si è parlato del concetto di “danno procurato”, ma è un concetto inventato dai tifosi e mai esistito nel regolamento. È un caso classico da VAR: usando il buon senso viene difficile punire Reijnders col cartellino rosso per un contatto simile; usando il VAR, che registra il contatto, non si può far altro.

In Cagliari-Milan, Marelli ha detto che il gol di Zortea sarebbe potuto essere annullato perché Luvumbo copriva la visuale di Maignan. Chi gli avrebbe potuto dare torto? Ma in fondo è stato davvero un errore convalidare il gol? In Monza-Milan un gol viene annullato a Dany Mota per una presunta trattenuta su Theo Hernandez a inizio azione. A posteriori sembra una bella invenzione.

Ho citato solo gli episodi controversi che hanno riguardato il Milan solo nell’ultimo mese. Anche restringendo al massimo il campo, a una singola squadra in un breve lasso di tempo, la casistica ambigua è ampia. Ho citato questi episodi perché sono i più recenti su cui si è imbizzarrito il dibattito, ma descrivono bene il tipo di conflitto che ogni settimana va in onda tra uomo e macchina, tra regolamento e buon senso, tra arbitri e VAR. Un conflitto di natura strutturale, e quindi difficile da risolvere.

IL VAR CI HA CAMBIATI: PRENDIAMONE COSCIENZA

Quando il VAR è stato introdotto per la prima volta pensavamo che la cosa non avrebbe avuto conseguenze sul gioco. O comunque nessuno pensava che avrebbe complicato le cose. Si sarebbe solo applicato un filtro neutro su una partita di calcio, che ci avrebbe permesso una maggiore oggettività. Il suo inserimento pareva coerente con uno sport sempre più professionalizzato, tecnologico e scientifico. Un calcio in cui il perfezionamento della performance è diventato un'ossessione che deve riguardare anche gli arbitri. Ci sono milioni di mezzo, usa quel maledetto VAR.

La tecnologia, però, non è mai neutra e può alterare in profondità il contesto circostante. Per citare il celebre Marshall McLuhan: "I media, modificando l’ambiente, evocano in noi rapporti unici di percezione sensoriale. L’estensione di un qualunque senso modifica il nostro modo di agire e di pensare, il modo in cui noi percepiamo il mondo. Quando questi rapporti mutano, mutano gli uomini".

Il filosofo Pietro Montani, nel suo saggio in Mitologie dello sport, dopo l’episodio della testata di Zidane si poneva delle domande che oggi suonano particolarmente efficaci:

"Non stiamo parlando del modo in cui la tecnica, potendo riassorbire il concatenamento temporale complessivo delle azioni e redistribuire i tratti pertinenti che la definiscono, si sarebbe già inavvertitamente introdotta nell’ambito delle nostre valutazioni e decisioni per assimilarle ai suoi criteri di accertamento rigoroso dei fatti significativi? Dipende ancora dal nostro sguardo imperfetto decidere fin dove si spingerebbe l’accertamento dei fatti e quali ne sarebbero i criteri di significatività, o non avremmo già delegato tutto questo a un sistema di protesi tecniche?".

Non ci siamo ancora resi conto, forse, quanto il regime di controllo introdotto dal VAR abbia modificato non solo la nostra cultura, ma anche i comportamenti dei soggetti in campo. Come nel Panopticon di cui parla Foucault, il punto non è tanto il vedere, ma la possibilità di essere visti. Quel regime di esposizione continuo è ciò che nel panopticon funziona con scopi correttivi. In Sorvegliare e Punire Foucault parla di "istituzione di osservatori che possono guardare senza essere visti". Il VAR, con la sua semplice presenza, ha modificato i comportamenti dei giocatori in campo, e ha modificato l’applicazione del regolamento e la postura dell’arbitro nei confronti della partita.

Facciamo qualche esempio partendo dai calciatori. Gli attaccanti sanno che con il VAR non possono permettersi simulazioni grossolane, ma al contempo sanno anche che la macchina registrerà ogni contatto dentro l’area di rigore, e per l’arbitro sarà molto difficile non fischiare la massima punizione. Anche se quel contatto magari è un po’ cercato, magari non è un contatto davvero falloso. Il limite tra un contatto che l’attaccante cerca e uno che l’attaccante subisce è infinitamente sottile. Per questo negli ultimi anni alcuni attaccanti hanno affinato la tecnica del guadagnarsi un calcio di rigore sfruttando l’immagine statica del VAR che inchioda ogni contatto. Maestri di quest’arte sono giocatori come Domenico Berardi, Federico Chiesa e soprattutto Ciro Immobile, che sembra aver trovato un bug nel sistema. Negli ultimi cinque anni è stato per distacco il giocatore di Serie A ad aver guadagnato più calci di rigore: 14 (il secondo, Osimhen, è a 8). Se riguardiamo i rigori concessi a Immobile ci troviamo di fronte al miracolo dell’ambiguità del regolamento: contatti in una zona remota a metà tra il fallo e il non fallo. Immobile sembra frapporre il proprio piede o la propria gamba al prossimo passo del difensore avversario, sembra correre verso di lui, ma comunque non abbastanza da farsi fischiare fallo. Sono quei rigori dopo i quali si loda il “mestiere” dell’attaccante. Metto qui qualche episodio che ha riguardato Immobile per farvi capire di cosa stiamo parlando. Nessuno di questi contatti è chiaramente calcio di rigore, ma nessuno di questi contatti chiaramente non lo è. Di certo sono tutti contatti (oddio, quasi tutti), e questo basta. Si possono citare quello contro l'Udinese; quello contro l'Inter; quello contro l'Atalanta; quello contro la Juventus.

Quasi tutti.

Di fronte ad attaccanti così predatori, per reazione sono nati difensori paranoici. Difensori che hanno ormai incorporato nel loro repertorio l’andare a contrasto con le mani retratte dietro la schiena nei pressi dell’area, per evitare tocchi di mano fatali.

Rispetto a questo minuetto di apprensione, riguardare oggi certe entrate da wrestling di Marco Materazzi fa impressione: quel livello di violenza non gli permetterebbe oggi di sopravvivere in campo senza farsi espellere. Gianluca Mancini, che gioca oggi ma si ispira esplicitamente a lui, ha commentato: «Noi difensori non possiamo più intervenire: non possiamo fare contrasti, dobbiamo tenere le mani dietro la schiena. Meglio che non dico cosa è diventato il calcio». Mancini in questi anni ha sviluppato un’abilità quasi artistica nel giocare in modo ruvido nei limiti del regolamento, a tenere nascosti i suoi interventi dalle sanzioni del VAR. Non tutti hanno la sua bravura, però, e si vedono sempre più difensori che difendono in attesa del proprio destino, impotenti rispetto a una giustizia che prima o dopo arriverà a punirli.

Il VAR ha quindi modificato i comportamenti dei giocatori in campo, e inevitabilmente anche il rapporto tra arbitri e regolamento. L’introduzione del VAR, con la sua pretesa d’oggettività, ha portato le direzioni arbitrali verso un'effettiva ricerca di oggettività. Gli arbitri hanno cercato di andare in direzione della macchina. Se ogni contatto diventa falloso, in modo insensibile rispetto al giudizio situazionale, allora l’arbitro sta cercando di rischiarare ogni zona d’ombra del regolamento di cui abbiamo parlato prima, di provare a rendere il calcio più oggettivo - forse proprio per arrivare al grado zero della polemica.

In questo funzionamento, infatti, dobbiamo calcolare anche un fattore di turbolenza portato dall’opinione pubblica. Il modo in cui si parla di calcio e arbitraggi, e soprattutto il quanto se ne parla, finisce per condizionare gli arbitraggi stessi. L’impressione è che messi sotto pressione i direttori di gara italiani esasperino questa ricerca di oggettività, che gli permette di sottrarsi alle proprie responsabilità. Quando è stato introdotto il VAR c’era un invito a utilizzarlo con moderazione, solo in caso di “chiaro ed evidente errore”, ma questa è appunto una categoria soggettiva inconciliabile con lo strumento. Gli arbitri col tempo hanno delegato via via più responsabilità al VAR, ricorrendo ad esso il più possibile («ce l’hai, usalo!», chiedono molti tifosi).

Come per volersi conformare al desiderio dell’opinione pubblica di una uniformità di giudizio che, come abbiamo visto quando abbiamo parlato di regolamento, è impossibile da raggiungere davvero nel calcio. Fischiare rigori per ogni contatto che le immagini registrano allora è l’unica cosa che può avvicinarsi a un’ideale di uniformità di giudizio. Il buon senso viene completamente abbandonato, così come l’ideale di giustizia. O meglio: non conta inseguire una giustizia al servizio del gioco, ma una giustizia astratta, che può anche rendere il calcio più ingiusto, purché sia ingiusto per tutti. L’obiettivo ultimo non sembra creare un contesto di gioco migliore, ma provare a non scontentare nessuno creando delle dinamiche di giudizio più sterili possibili - il binarismo del contatto c’è sì/no. Forse ci stiamo avvicinando verso un orizzonte in cui si potrebbe anche fare a meno di un arbitro e far decidere direttamente a un algoritmo su un rigore. La decisione potrebbe essere comunicata da una luce lampeggiante nello stadio: rossa è rigore, verde non lo è. Una macchina può stabilire se un capezzolo è maschile o femminile e non se un piede ha toccato un altro, o se una mano ha toccato un pallone?

Ci sono calci di rigore che diamo ormai assolutamente per scontati. A San Siro Inter-Arsenal è stata decisa da un rigore nel primo tempo, concesso per un fallo di mano di Mikel Merino su un tiro ravvicinato, molto ravvicinato, di Taremi. Il tiro non sembrava pericoloso, non è nemmeno detto che sarebbe stato nello specchio della porta, l’attaccante dell’Inter era girato ed era difficile aspettarsi potesse tirare. L’arbitro non ha battuto ciglio. Nella stessa partita Yann Sommer tira un pugno in uscita sulla testa di Merino e non viene fischiato nulla. Abbiamo creato un mondo in cui si può colpire un avversario con un pugno in area di rigore ma non si può sfiorare involontariamente con la mano un tiro inconcludente. In Inghilterra il caso è stato discusso con una punta di vittimismo, mentre in Italia ci è sembrato del tutto normale. Mi azzardo a dire che sarebbe stato più o meno lo stesso anche nel caso in cui le decisioni fossero state invertite. In Serie A si arbitra da anni in questo modo, non c’è nulla di strano: avremmo accettato con fatalismo un rigore del genere fischiato in favore dell’Arsenal.

In Serie A dall’introduzione del VAR 4 stagioni su 7 sono tra le prime 10 della storia come numero di rigori assegnati. Quest’anno, con 0,38 rigori assegnati per partita, siamo in scia per arrivare alla terza stagione con più rigori assegnati di sempre (le altre due: 2019/20, 2020/21).


PARLIAMO DI ARBITRI, PARLIAMO SEMPRE DI ARBITRI

Di fronte a questi numeri negare che il VAR abbia modificato il calcio sarebbe ingenuo. Sono stati fatti studi - a dire il vero ormai un po’ datati e fatti con campioni statistici ancora non del tutto rilevanti - per provare a dimostrare che il VAR non avesse portato cambiamenti sostanziali nel gioco. Si registrano solo piccoli cambiamenti nel numero di falli, cartellini, rigori, eventi arbitrali in generale. Si ignora in questi studi una premessa che facevamo qui: in uno sport a basso punteggio, e con un sistema di regolamento così ambiguo, piccoli mutamenti nei dati nascondono in realtà grandi sconvolgimenti negli equilibri dello sport.

Se davvero il VAR non ha cambiato il calcio, allora perché se ne discute così tanto?

Pochi giorni fa l’importante sfida di campionato tra Inter e Napoli rischiava di essere decisa da un calcio di rigore molto controverso. Il classico episodio che fa esplodere tutti i riferimenti morali e cognitivi a nostra disposizione. C’è una palla contesa nell’area del Napoli e Anguissa prova a proteggerla prendendo posizione, Dumfries però arriva in anticipo e si scontra con la gamba del giocatore del Napoli. Entrambi i giocatori vanno per la palla, nessuno vuole colpire l’altro; solo Dumfries la tocca, ma Anguissa ne era forse già in possesso. È davvero difficile da dire. Si sono lette interpretazioni diametralmente opposte. I tifosi del Napoli dicono che è Dumfries a fare fallo su Anguissa; i tifosi dell’Inter dicono che Dumfries è in anticipo e subisce fallo. Possiamo dirci, tra di noi, che assegnare un rigore del genere, per la dinamica dell’azione, è ingiusto? Possiamo dirci che comminare una sanzione così grande, e così di rottura per gli equilibri di un match, intossichi le dinamiche di gioco e non migliori davvero il calcio?

Credo che su questo ragionamento generale possiamo essere più o meno tutti d’accordo. Tranne forse i più estremisti. Ma con gli elementi oggi a disposizione, quel calcio di rigore si concede. Il VAR registra il contatto, la casistica su questi contatti si è accumulata, le immagini rallentano e cancellano tutte le circostanze dell’azione, asciugandola solamente a Dumfries che tocca il pallone e Anguissa che tocca Dumfries. I grigi sono stati schiariti, non ci possono essere dubbi.

View post on X

Per questo la tirata di Antonio Conte ai microfoni è sembrata così velleitaria. L’allenatore ha evocato l’intervento del VAR, che dovrebbe servire per “correggere gli errori”: ma chi può considerare quel fischio un chiaro errore? Secondo quali parametri? Di certo non per quelli del VAR.

A distanza di giorni continuiamo a discutere di questo episodio e il Napoli ha addirittura diramato un comunicato intitolato “A proposito di VAR”. Dentro, in poche parole, si richiede un intervento del VAR più frequente. In controtendenza con quanti sostengono più o meno tutti, secondo il Napoli è assurdo che si cerchi di limitare l’intervento del VAR: "È noto, oltretutto, che spesso gli arbitri in campo non sono favorevoli all’intervento degli arbitri del Var, perchè le correzioni delle loro decisioni gli tolgono autonomia e credibilità. Tuttavia, di fronte a episodi eclatanti e a errori palesi, il Var deve intervenire, almeno richiamando l’arbitro alla visione di quanto è accaduto al monitor. Questo per il bene del calcio".

Se ci pensate è incredibile che tutta questa polemica continui a montare nonostante l’errore di Chalanoglu dal dischetto abbia reso ininfluente quel rigore. Questo perché il nostro senso di giustizia è stato comunque frustrato; anche da un rigore che nei termini dell’attuale regolamento è più o meno inevitabile fischiare. E di fronte a questa frustrazione il Napoli ha richiesto “più VAR” - per tutti i bias di cui detto: la tecnologia è infallibile, se l’arbitro riguarda le immagini non può non vedere, non può giudicare diversamente da noi.

Paulo Fonseca, allenatore del Milan, ha definito “un circo” l’assegnazione dei rigori in Serie A. «Non voglio dire niente, non voglio contribuire a questo tipo di discussioni. Mi sembra un circo, per me il calcio non è questo. E parlo anche dei rigori che sono stati assegnati a noi. Quanti rigori sono stati assegnati questo weekend in Serie A?». Il giornalista Michele Crisicitiello ha definito il VAR “un bluff”; Aurelio Andreazzoli ha detto che il VAR «è un meccanismo del c***»; Gasperini ha detto che il VAR «sta diventando una guerra» in un Atalanta-Milan dopo il quale, curiosamente, si è lamentato anche il suo collega Pioli: «ci sono tante valutazioni da fare ormai sull’intervento del VAR». «Stiamo rovinando il calcio», ha detto Massimo Mauro; «C’è confusione ovunque, è difficile per tutti» ha detto Guardiola; «Voterei per eliminare il VAR», ha detto Klopp. «La posta in gioco è troppo alta, il risultato non è neanche lontanamente vicino al livello che questo campionato deve avere. Non è abbastanza buono. Mi sento in imbarazzo a farne parte», ha detto Arteta dopo una partita contro il Newcastle; «Speriamo che lo facciano abolire», ha detto Sarri (e ci mancherebbe).

Quello che ha capito tutto, come spesso capita, è Massimiliano Allegri: «Normale però che alcuni episodi siano valutati dal VAR e questi vengono valutati in un modo o nell'altro. Difficile avere una linea guida perché l'episodio è soggettivo». È solo strano che Allegri creda che sia il VAR a far entrare la decisione nella “soggettività”: «Se entriamo nella soggettività diventa un problema».

È costume degli allenatori lamentarsi di tutto, direte voi, e avete ragione. Però se il VAR ha solo migliorato gli arbitraggi, portando la correttezza delle decisioni al 99,3% (come alcune misteriose stime ci dicono), perché ne discutiamo tanto? Perché è stata istituita una trasmissione per spiegare le decisioni arbitrali? Perché qualcuno parla di abolizione e il campionato più importante del mondo ha pensato di poterlo togliere?

La sicurezza che il VAR avrebbe migliorato il calcio senza conseguenze sta crollando. Si cominciano a intravedere le prime crepe.

COMINCIANO A VENIRCI DEI DUBBI, ERA ORA

In Inghilterra il VAR è stato messo in discussione. Del resto è un Paese tradizionalista, con una postura riflessiva verso la modernità. Un Paese in cui si possono fare degli editoriali sullo snaturamento della Guinness e in cui l’ex principe Carlo scriveva appassionati articoli sulla lana sul Telegraph. Figuriamoci se non avrebbero messo in discussione il VAR. Così in estate i club sono stati chiamati a votare in un referendum per il mantenimento dello strumento. La proposta di abolizione era stata avanzata dal Wolverhampton ma alla fine non ha trovato sufficiente appoggio. Si è convenuto non se ne potesse fare a meno, per l’interesse di tutti. L’importante è cercare di temperare le conseguenze negative che, nella percezione inglese, causa il VAR: rallentamenti e interruzioni di gioco, principalmente. Allora bisognerà «mantenere una soglia elevata per l’intervento del VAR». In aggiunta la Premier League ha inaugurato una serie di articoli, sul proprio sito, in cui di settimana in settimana spiega le decisioni, sulla scia di quanto la UEFA fa con la Champions League già da tempo. Questo per cercare di motivare le scelte - senza il personalismo televisivo che vediamo in Open VAR.

È stato comunque un momento interessante in cui si è riflettuto su un aspetto che invece noi sembriamo ignorare: stiamo abusando del VAR e bisognerebbe tamponare le conseguenze negative di questo abuso. Conseguenze che non appartengono certo solo alla Premier League, e che allora dovremmo considerare come insite in questo strumento e nel brivido illuminista che si porta dietro.

I più entusiasti che restano sulla montagna a lottare dicono che non è colpa del VAR, se ci sono ancora tutti questi problemi, ma del suo uso. Togliamo la responsabilità allo strumento per addossarla agli esseri umani che lo utilizzano. Mi sembra un atteggiamento dettato dai nostri bias tecno-ottimisti: la macchina è sempre perfetta, è l’uomo a essere imperfetto. Intendiamoci: in fondo è vero, siamo noi che facciamo le regole, siamo noi che usiamo il VAR, ma se lo usiamo male è perché non lo abbiamo afferrato del tutto, finendo per sottovalutarlo. Pensiamo sia uno strumento neutro nelle nostre mani, ma ha modificato il nostro sguardo e il nostro sistema morale.

In tutti questi anni gli arbitri non abbiano ancora trovato un modo di utilizzare il VAR che funzioni, o meglio che ci soddisfi. Aurelio Andreazzoli ha detto che «Non è colpa degli arbitri. Gli arbitri sono macinati dal meccanismo». E poi ha detto una cosa che secondo me denuncia un cambiamento profondo che è avvenuto senza che ce ne rendessimo troppo conto. «Invece di parlare del calcio, del gioco, si parla del VAR, del regolamento». È difficile dire che si parla oggi più di arbitri rispetto al passato, ma di certo se ne parla in modo diverso: si parla di più di regolamento, perché il regolamento è più presente. Il VAR, col tentativo che si porta dietro di eliminare le zone di indeterminatezza del regolamento, ne sta creando uno più forte, più influente.

I grandi maestri giapponesi di Go erano contrari a dei regolamenti troppo rigidi, se non a delle regole in generale, perché queste avrebbero acceso l’agonismo e spinto i giocatori a giocare attraverso le regole e non attraverso il gioco in sé. Col VAR il regolamento calcistico è diventato decisamente più ingombrante, e gli attori in gioco possono pensare delle strategie per trarne vantaggio, per giocare attraverso il regolamento e non intorno a esso. E chi commenta, lo fa parlando soprattutto di come squadre e giocatori abbiamo giocato attraverso questo regolamento.

LA GRANDE UTOPIA DEL FUORIGIOCO MOSTRA I LIMITI DEL VAR

Su un aspetto del gioco il regolamento ha raggiunto davvero l’utopia dell’oggettività: il fuorigioco. Un obiettivo più o meno centrato lo scorso anno, quando l’introduzione del fuorigioco semi-automatico ha ridotto quasi a zero il margine d’errore. Il quasi è importante, se parliamo di millimetri. In precedenza, quando il fuorigioco veniva misurato attraverso il VAR, esisteva un margine d’errore di 13 centimetri: era poco meglio che usare l’occhio umano, ma col fondamentale inganno dell’esattezza (sotto forma di immagini virtuali che dovrebbero rassicurarci tirando righe immaginarie).

Il fuorigioco forse è l’elemento che è riuscito a creare più perfettamente un’illusione di oggettività. Le telecamere registrano il momento in cui parte il pallone dal piede e l’attaccante scatta vicino alla linea, tirano delle righe e se ha anche solo l’unghia del piede in fuorigioco, è fuorigioco. È una modifica molto grande della regola, in cui prima ai guardalinee era richiesto di non sbandierare in caso di dubbio, per favorire l’attaccante. Qui all’attaccante basta avere una qualsiasi parte del corpo con cui può far gol (quindi non le mani o le braccia) per essere segnalato in fuorigioco. I guardalinee ora non devono sbandierare quando non sono sicuri, ma devono aspettare la decisioni del VAR. In questo modo si generano questi momenti ambigui di partita in cui un’azione offensiva prosegue, i calciatori fanno cose, si scontrano, si sforzano, e anche mezzo minuto dopo l’azione finisce e c’è stato un breve intervallo di partita in cui niente è valido e nessuno lo sa. In Manchester City-Everton John Stones ha riportato un infortunio proprio dentro questo limbo temporale; Alan Shearer ha fatto notare che se il guardalinee avesse alzato prima la bandierina, visto che tutto sommato il fuorigioco era percepibile, l’infortunio si sarebbe evitato. È un po’ una provocazione, ma è comprensibile la frustrazione nel vedere un campione farsi male durante un frangente di partita inutile e generato solo dalla pignoleria regolamentare.

Lo scorso aprile si stava per consumare uno degli upset dell’anno, quando il Coventry City è andato a un passo - è il caso di dirlo - dall’eliminare il Manchester United per qualificarsi alla finale di FA Cup. Per circa 90 secondi questo multiverso si è realizzato, quando Torp al 121’ ha segnato il gol del 4-3, alla coda di una partita pazza e incomprensibile. Mentre Torp esultava scivolando verso la bandierina, e il telecronista perdeva la voce, e i tifosi facevano crollare il settore, l’arbitro stava parlando con la Sala VAR: qualcosa non andava. Il controllo è durato un minuto e mezzo, durante il quale ai tifosi del Coventry è toccato rimangiarsi la più grossa esultanza della loro vita. Alla fine il gol è stato annullato e la squadra ha perso ai calci di rigore. Il fuorigioco di Torp è invisibile all’occhio umano.

View post on X

È stata una decisione presa col VAR, e il margine d’errore presente non permetteva di avere la certezza che fosse la decisione corretta. I fotogrammi scelti per individuare il momento in cui la palla è partita dal piede del rifinitore non possiedono un’esattezza scientifica. In tutti questi anni, su queste segnalazioni di fuorigioco al millimetro, abbiamo fatto un atto di fede. Col fuorigioco semi-automatico ci siamo approssimati di molto all’oggettività, ma un margine millimetrico di errore permane. Non ci resta che fare un ragionevole atto di fede: cosa abbiamo di meglio a cui aggrapparci?

Il punto è che continua a non andarci bene, non ci sembra una situazione risolta. In parte perché si continuano comunque a commettere errori. Pochi giorni fa in Real Sociedad-Barcellona è stato annullato un gol a Robert Lewandowski per fuorigioco. Solo che la misurazione semi-automatica non è stata fatta sul suo piede ma su quello del difensore. Dovremmo ricordarci di questi momenti, quando sosteniamo che il VAR ha eliminato gli errori più grossolani. O anche del fuorigioco fischiato al Real Madrid in un Clasico, o anche di questo Arsenal-Newcastle, o anche di questo Arsenal-Leicester, o anche di questo di Juventus-Genoa, o anche di questo di Salernitana Juventus, o anche di questo in Arsenal-Brentford, o anche di questo gol annullato a Luis Diaz, dopo il quale l’autorità inglese degli arbitraggi ha chiesto scusa al Liverpool.



Ma il punto non è questo: per la precedente lista di errori non corretti ce ne sarà un’altra più grande di errori corretti. L’ultimo che mi viene in mente è il gol erroneamente annullato a Joselu nella scorsa Champions League: un abbaglio clamoroso del guardalinee corretto dal VAR. Il punto non è la fallibilità della tecnologia. Se le regole devono essere al servizio del gioco, che senso di giustizia viene rispettato segnalando un fuorigioco microscopico? Cosa stiamo correggendo?

La regola del fuorigioco esiste per non concedere troppo vantaggio agli attaccanti sui difensori, ma che vantaggio trae l’attaccante che è avanti di un mignolo, di una frazione della spalla, di una parte del proprio apparato genitale? Anche qui esiste quindi uno squilibrio tra grandezza dell’infrazione e della sanzione, che finisce per andare a discapito di un gioco più giusto e divertente.

Di fronte a gol annullati per segnalazioni così microscopiche, ci sono i “frustrati” e “legalisti". Quelli che dicono che così non è calcio, e altri che invece non capiscono come ci si faccia a lamentare dell’unico parametro oggettivo dell’abitraggio calcistico. Avere un punto di riferimento più oggettivo possibile è importante per non abbandonarsi al caos; una norma va pur trovata e cosa ci sarebbe di meglio di quella attuale?

Solo che la FIFA, a quanto pare, non è d’accordo. Il fuorigioco così minimo non rispetta un senso di giustizia, e non favorisce lo spettacolo, e allora si sta sperimentando una nuova norma che possa favorire di più gli attacchi. Il suo promotore è il consigliere FIFA, Arsene Wenger, che ha dichiarato: «C’è spazio per cambiare la regola e impedire che si finisca in fuorigioco per il naso». Nella riforma, sperimentata in alcuni campionati giovanili, si è in posizione regolare finché una parte del corpo con cui si può segnare è ancora in gioco: cioè tutto il corpo (inteso come “parti con cui si può far gol") deve essere in fuorigioco. Per metterla giù in modo semplice, la regola della “luce fra i corpi”, anche se non è del tutto esatto definirla in questo modo.

La riforma di Wenger è stata rilanciata dal presidente della FA David Dein - che ha definito l’attuale regola “problematica” e “da cambiare” - ma sta trovando qualche oppositore, come Luis Figo, che sostiene che avvantaggi troppo gli attaccanti.

Bisogna notare che la nuova regola non cancellerebbe le polemiche sulle molecole: luce o non luce, sempre di millimetri si finirà a parlare. L’idea è di creare una situazione meno punitiva per gli attaccanti: aumentare il vantaggio di spazio e tempo che questi devono prendersi sui difensori prima di venire puniti. D’altro canto forse si sottovalutano gli effetti indesiderati: si vuole favorire lo spettacolo concedendo più spazio agli attaccanti, ma siamo sicuri che una regola simile non spinga in realtà le difese a giocare più basse, a prendersi meno rischi, e a generare quindi partite più difensive?

È un dibattito interessante, che abbiamo portato avanti in questa puntata del podcast per abbonati Uno contro uno, e che dimostra due cose.

CHE FARE? PRIMA COSA: DE-PENALIZZIAMO I CONTATTI IN AREA

La prima è che l’oggettività di una norma non rispetta sempre l’ideale di giustizia che cerchiamo in campo. Talvolta, anzi, una regola “troppo oggettiva” rischia di diventare astratta e di non servire più l’essenza del gioco ma solo sé stessa. Questo caso del fuorigioco è chiaro: che principio di giustizia stiamo rispettando fischiando il fuorigioco di un millimetro?

La seconda cosa interessante, da notare, è che l’introduzione dell’occhio oggettivo del VAR ha modificato così a fondo le dinamiche di gioco da spingerci a riflettere sul regolamento. È possibile che la regola del fuorigioco cambi per sfuggire all’occhio troppo punitivo del VAR: in fondo siamo sempre noi a deciderlo.

Se il fuorigioco può cambiare, anche i calci di rigore possono farlo. Su Ultimo Uomo ci siamo spinti fino a riflessioni radicali: abolire il calcio di rigore, perché no. Il gol deve essere una cosa sudata e meritata, si scrive su questo recente editoriale del Guardian, e il VAR magnifica l’ingiustizia.

Ogni anno si gira attorno al calcio di rigore con qualche lieve modifica sul reato. Bisognerebbe concentrarsi invece sulla sanzione. La “massima punizione” dovrebbe, appunto, punire il "massimo reato". E questo non può essere un contatto fortuito tra un piede e l’altro in un’azione scarsamente pericolosa; non può essere un tocco di mano accidentale su un cross partito a distanza di pochi centimetri; non può essere una leggera spinta su un giocatore che nemmeno è detto che possa prendere il pallone.

La “massima punizione”, il rigore, che viene segnato l’80% delle volte (siamo al massimo storico in Premier League) e offre un vantaggio incommensurabile alla squadra che lo ottiene, dovrebbe sanzionare un fallo su un giocatore che ha davvero buone possibilità di fare gol. Un giocatore che ha un’occasione chiara, che è giusto restituire con un calcio di rigore. Deve essere un evento davvero straordinario. Per tutto il resto dei contatti che si consuma in area, invece, si può continuare ad assegnare la sanzione che esiste fuori dall’area: il calcio di punizione. Un tiro con una barriera e i due tocchi. Un tipo di sanzione oggi estremamente rara, ma che aiuterebbe ad assecondare le sfumature del regolamento con una sanzione più sfumata. L'arbitro potrebbe utilizzare il VAR, talvolta, per decidere se un'occasione era chiara oppure no, ma si tratterebbe di una casistica limitata, e che limiterebbe gli interventi del VAR.

Chiaramente non si esce qui da un certo grado di valutazione soggettiva: è sempre l'arbitro che deve discernere qual è un'azione pericolosa e quale no. Quando il tocco di mano è stato volontario e ha impedito a una squadra di segnare. Sarebbe un modo per adeguare il regolamento allo strumento e per diminuire l’incidenza del calcio di rigore - e quindi del VAR, che sui rigori trova l’incidente più grande.

Dico questo se davvero vogliamo limitare gli effetti troppo punitivi del VAR per inseguire un principio di giustizia. Non è detto che dobbiamo farlo. Nel calcio il peso del caso è più grande di quanto siamo disposti a credere; e il calcio di rigore concesso col VAR - i "rigori moderni" li definisce Mourinho, i "rigorini" dicono altri - aumentano il peso del caso, e smuovono con l'imprevisto partite che stavano avendo un andamento più razionale e magari anche più noioso.

Questo è un altro effetto che sottovalutiamo, anche se avendo a che fare con l'estetica è più soggettivo: il VAR ha reso le partite più imprevedibili e quindi spettacolari.

Mi viene in mente un grande classico della Champions League recente: la semifinale Manchester City-Tottenham del 2019. Nei minuti finali il VAR corregge due decisioni: convalida un gol erroneamente annullato a Llorente che ha portato il Tottenham sul 4-3, e poi annulla il 4-4 del City segnato da Sterling. L'attaccante era partito con mezzo piede in fuorigioco a inizio azione, anche se la palla non era diretta a lui. Un annullamento cervellotico e, almeno dal mio punto di vista, ingiusto. Eppure chi ha guardato la partita in diretta non dimenticherà il divertimento vissuto in questo sali e scendi emotivo, attraverso questi plot twist continui, in queste sensazioni provate, rimangiate, o provate due volte.

Conosco dei feticisti del VAR che amano esultare due volte quando un gol della propria squadra viene prima annullato e poi convalidato. Una sfumatura emotiva complessa, in cui la felicità improvvisa del gol si mescola con la frustrazione e la paura della gioia, e poi di nuovo la negazione di quella pausa e allora il sollievo. Un'emozione abissale simile a quando siamo preoccupati per delle analisi cliniche ma una volta ritirate si rivela essere tutto a posto.

IL VAR CI FA LITIGARE? E ALLORA VIVA IL VAR!

Il calcio esiste da 164 anni e da 164 anni discutiamo di arbitri. Il VAR non ci piace perché ci permette un’applicazione più giusta del regolamento, ma perché soddisfa la nostra sete voyeuristica sugli episodi arbitrali. Il VAR ha aumentato l’importanza del discorso arbitrale: si discute di più sugli episodi, o comunque più a fondo, con più immagini a disposizione, maneggiando un regolamento e dei protocolli sempre più ambigui e controversi. Addirittura la partita si ferma per verificare se c’è un calcio di rigore o un gol da annullare. Il gioco si interrompe per spalancare un teatro giuridico che, di fatto, è uno spettacolo nello spettacolo. Guardiamo Law&Order, guardiamo Un giorno in pretura, guardiamo Forum, e figuriamoci se non possiamo appassionarci a una partita di calcio che si mette in pausa per sbrogliare un caso giuridico.

Chi odia parlare di arbitri liquida il discorso come fosse un errore, un accidente tossico e parassitario. Qui su Ultimo Uomo abbiamo scelto di non parlare mai di arbitraggi perché vorremmo promuovere un modo non tossico di parlare di calcio, mentre intorno agli arbitri si genera spesso un discorso violento, disonesto e che trascura tutto il resto dell'esperienza calcistica - che invece, ci pare, è trascurata dalla maggior parte dei media. Attraverso la polemica arbitrale si genera un modo velenoso di vivere lo sport.

Eppure non si può negare che gli arbitri siano una parte fondante dell'esperienza calcistica. Dobbiamo ricordarci una cosa che scriveva anche Dal Lago sempre in Descrizione di una battaglia: chi va allo stadio, ma anche chi guarda le partite da casa, non può essere ridotto a qualcuno che “assiste” alla partita. Non è davvero uno spettatore ma una specie di giudice partecipante. In quella sfera giuridica porosa e imperfetta, piena di grigi e ambiguità, possiamo interrogarci su cosa è giusto e cosa è sbagliato ed emettere il nostro giudizio. L’esperienza del calcio è basata sull’interpretazione di quello che si vede in campo: la tecnica, la tattica, la morale e quindi anche il regolamento sono soggetti di questa interpretazione. E più un tifoso può interpretare, più si sentirà parte delle riflessioni che l’esperienza di una partita può generare: delle riflessioni sulla morale, sull’ideale di giustizia, sul ruolo del caso, sul rapporto tra individuo e collettività. Solo per citarne qualcuno. Nel calcio il grado di fatalismo è altissimo e per questo ogni decisione dell’arbitro è così delicata e drammatizzata dal pubblico.

Si discute sempre di come rendere più spettacolare e divertente il calcio dentro il campo, trascurando spesso che il calcio è divertente soprattutto per ciò che sta fuori, per il suo essere un fatto social totale. Per prolungare la sua influenza, le sue interpretazioni, le sue emozioni, ben oltre il tempo della partita.

Si parla di arbitri per litigare, per amore della polemica, perché è un discorso di per sé divisivo. Forse inconsciamente abbiamo voluto introdurre il VAR proprio per discutere di più. E ci siamo raccontati che avrebbe migliorato gli arbitraggi solo per discutere più animatamente. Parliamo di arbitri per aprire e ricucire conflitti simulati, per riflettere, per arrabbiarci e fare pace. Perché discutere di calcio, anche di arbitri, amplia lo spazio del gioco nella nostra vita, che sempre più è colonizzata dal lavoro e o da forme di produttività mascherate. Cosa c'è di più improduttivo e gloriosamente vuoto che discutere di un calcio di rigore?

Nel tentativo illusorio di servirsi della tecnologia per creare un calcio più giusto, il VAR ne ha creato uno più caotico, casuale e imprevedibile. Un calcio in cui la componente regolamentare e giuridica è più pesante, e ci fa parlare ancora di più di essa trascurando le altre componenti del gioco. Riusciamo a riconoscerlo? Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Riusciamo a ricordarci che avevamo introdotto il VAR per raggiungere degli scopi opposti?

Nel frattempo, mentre riguardiamo le immagini al ralenti, ricordiamoci di non litigare più di due o tre alla volta sennò non si capisce.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura