Come succede quasi ogni anno almeno dal 1998 - ovvero da quando Rodolfo Hecht (uomo di Berlusconi e poi di Infront, scomparso nel 2010) la propose forse per la prima volta - anche quest’anno ci ritroviamo a commentare l’indiscrezione secondo cui una manciata di top club europei si starebbero organizzando per unirsi in una “superlega”. In quest’ultimo caso il nome probabilmente provvisorio è European Premier League: un vero e proprio campionato di 18 squadre con partite di andata e ritorno che si sovrapporrebbe ai cinque principali campionati europei e che dovrebbe partire non prima del 2022. Secondo l’indiscrezione raccolta da Sky Sport britannico, dietro questo nuova, ennesima, bozza di progetto ci sarebbero Liverpool e Manchester United (un’informazione su cui torneremo e che vi chiedo di tenere a mente), oltre alla FIFA e la banca d’affari JP Morgan che sarebbe pronta a mettere a disposizione un finanziamento di 4.6 miliardi di sterline.
La European Premier League avrebbe una struttura simile alla MLS, con una regular season e poi dei playoff a eliminazione diretta tra le prime classificate, e, oltre a Manchester United e Liverpool includerebbe molti delle principali squadre europee. Secondo Sky Sport, le squadre già contattate sarebbero Arsenal, Chelsea, Manchester City, Tottenham (anche se, non senza una contraddizione evidente, si specifica che gli slot per le squadre inglesi sarebbero solo cinque) oltre a Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid, Juventus, PSG e Bayern Monaco.
Le differenze rispetto a gran parte dei progetti presentati negli anni precedenti non sono di poco conto. La European Premier League, al contrario di quanto generalmente si intende quando si parla di “superlega”, non sarebbe del tutto chiusa, ovvero senza retrocessioni e promozioni, ma solo parzialmente. Sky Sport infatti specifica che solo i club fondatori non potrebbero retrocedere per un periodo di 20 anni, mentre per la presenza delle restanti squadre ci si baserebbe sulla posizione ottenuta nella stagione precedente nel proprio campionato di appartenenza. Inoltre, la European Premier League non si sostituirebbe ai campionati nazionali ma andrebbe di parallelo, come succede con l’attuale Champions League.
Quest’ultima caratteristica, insieme al presunto appoggio della FIFA, è allo stesso tempo il punto di forza e di debolezza di questa nuova bozza di progetto da un punto di vista logistico e commerciale. In questo modo, infatti, da una parte si evita di chiedere a una manciata di club di uscire dalle proprie federazioni nazionali, con tutti gli strascichi politici e legali del caso (leggi: un mucchio di soldi buttati in dispute e ricorsi), ma dall’altra si va inevitabilmente a invadere il campo della Champions League, che per forza di cose si escluderebbe a vicenda con questa nuova competizione. E questo, ovviamente, non è un problema di poco conto.
Ora, per quanto con la recente riforma del Mondiale per club abbia già dimostrato di voler almeno provare a fare concorrenza alla Champions League, siamo sicuri che la FIFA voglia arrivare a uno scontro così eclatante con la UEFA? L’organizzazione capeggiata da Gianni Infantino pur non smentendo esplicitamente il rumor riguardante la European Premier League è sembrata molto cauta. «La FIFA», si legge nel comunicato «non vuole né commentare né partecipare a speculazioni su argomenti che ogni tanto riescono fuori e per i quali esistono già strutture istituzionali e normative a livello nazionale, europeo e globale». Successivamente, anche lo stesso Infantino ha confermato di essere più interessato al suo Mondiale per club che a un’ipotetica superlega europea: «Per me non è il Bayern Monaco contro il Liverpool, ma il Bayern contro il Boca Juniors».
La UEFA, com’era comprensibile, è sembrata invece più infastidita - addirittura annoiata dal fatto che si riparlasse di nuovo di questo argomento. «Il principio di solidarietà e quello di avere campionati aperti con promozioni e retrocessioni non sono negoziabili», ha fatto sapere la UEFA «Sono ciò che fa funzionare il calcio europeo e che rende la Champions League la migliore competizione sportiva al mondo. La UEFA e i club sono impegnati a costruire su questi punti di forza, non di distruggerli per creare una superlega di 10, 12 o persino 24 squadre che diventerebbe inevitabilmente noiosa». Un tema, quello del presunto conflitto tra la spettacolarità di una partita e la sua potenziale replicabilità, che il presidente della UEFA, Aleksander Ceferin, aveva commentato già due anni fa - per dire la ciclicità di questa notizia. «[La superlega] sarebbe noiosa», aveva dichiarato quella volta Ceferin «perché se pensiamo a due club come Bayern e Juve che giocano sempre sarà più noioso che guardare un derby».
Prima ancora di discutere della possibile forza o debolezza di un format del genere, delle ripercussioni economiche o sportive che avrebbe sul calcio europeo, bisogna chiarire che rimpiazzare la Champions League è un’enorme montagna da scalare in primo luogo da un punto di vista commerciale. Tirare fuori i top-club europei dalla principale competizione europea prima del 2024 significa infatti stracciare i contratti già firmati per la cessione dei diritti TV della Champions League in molti paesi europei e non, per il triennio che parte con la stagione 2021/22 (per l’esattezza in Austria, Danimarca, Finlandia, Francia, Norvegia, Russia, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti). Quindi, in sostanza, entrare in un’enorme contesa legale con quegli stessi soggetti (cioè le emittenti TV o internet) che dovrebbero ripagare i presunti 4.6 miliardi di investimento promessi da JP Morgan. Senza contare che in altri paesi ancora, come l’Italia stessa, questi contratti stanno per essere firmati proprio in questi giorni. Dei cinque principali campionati europei, quelli che dovrebbero fornire le squadre della European Premier League, praticamente solo la Germania non ha già firmato un contratto per la trasmissione della Champions League per il triennio 2021-24. E con le televisioni che in diversi paesi europei (per ultimo la Francia) hanno già dimostrato di forzare le leghe a rinegoziare i contratti ritardando i pagamenti dei diritti TV già pattuiti, questo non sembra proprio il momento migliore per i club per entrare in queste dispute.
Foto di Janek Skarzynski / AFP.
Prima del 2024, insomma, sembra difficile che una “superlega” di qualsiasi tipo, compresa quindi anche la European Premier League, possa davvero prendere piede. La UEFA lo sa meglio di noi, ovviamente, ed è per questo motivo che proprio in questi giorni si sta consultando con i club per la modifica del format della Champions League a partire dal 2024, proprio per venire incontro a quelle grandi squadre che, allettate da quell’El Dorado che è lo spettro della “superlega”, chiedono più ricavi. Le ipotesi sul tavolo, a quanto pare, al momento sono due: la prima che vede un semplice allargamento del numero di squadre partecipanti (dalle attuali 32 a 36) e conseguente ampliamento dei gironi (che sarebbero composti da 6 invece che da 4 squadre), in modo da aumentare il numero di partite da trasmettere (per venire incontro alle TV) e includere più club di campionati al di fuori dei cinque principali campionati europei (per venire incontro alle leghe “minori” che chiedono più spazio, come quella olandese o quella portoghese); la seconda - che sembrerebbe la favorita al momento - prevederebbe invece l’ampliamento a 36 squadre ma l’abbandono del sistema a gironi, con le squadre che, attraverso un particolare sistema di seeding che garantirebbe scontri equilibrati, affronterebbero 10 avversari diversi in 10 partite secche. Alla fine di queste 10 partite si stilerebbe una classifica e le prime 16 classificate si qualificherebbero alla fase a eliminazione diretta, che, chissà, magari potrebbe ricalcare anche il format già visto quest’estate a Lisbona - con le squadre riunite in unica città e sfide a partita secca anziché con andata e ritorno.
Al contrario delle illazioni sulla “superlega”, che si chiami European Premier League o in un altro modo, le discussioni sulla riforma della Champions League sono invece reali e concrete. Lo ha confermato pochi giorni fa anche Karl-Heinz Rummenigge, CEO del Bayern Monaco, che ha dichiarato di non sapere nulla della possibilità di una nuova superlega europea. «Ho detto ad Aleksander Ceferin che siamo molto contenti della Champions League», ha dichiarato Rummenigge «Al momento è in discussione una riforma e le idee portate dalla UEFA sono interessanti per tutti; per i club, per i fan e per le emittenti televisive. Sembra tutto molto positivo».
Insomma, ai grandi club sembra convenire di cambiare l’attuale Champions League più che andare al muro contro muro per creare una nuova “superlega” ma questo non significa che la bozza di progetto della European Premier League non sia interessante, perché ci fa capire qualcosa di più su ciò che vogliono i top club europei nei confronti non solo del calcio europeo ma anche di quello nazionale in un momento di estrema difficoltà per l’intero settore. Ed è qui che l’informazione riguardante la presunta presenza di Manchester United e Liverpool dietro alla bozza di progetto della European Premier League diventa significativa. L’indiscrezione data da Sky Sport, infatti, è arrivata alla fine di una settimana in cui il calcio britannico è stato scosso dalla proposta di riforma della piramide calcistica chiamata Big Picture, proposta proprio dalle dirigenze di Manchester United e Liverpool.
Big Picture, in sostanza, era il tentativo da parte di alcuni grandi club inglesi di ridisegnare la piramide calcistica inglese e le strutture di potere che la sorreggono sfruttando il momento di grossa difficoltà dei piccoli club - parliamo soprattutto delle 72 squadre che fanno parte della English Football League, che racchiude le tre leghe immediatamente al di sotto della Premier, e cioè Championship, League One e League Two. Al suo interno erano previste diverse misure, sia di sostegno economico che di riforma delle competizioni, di cui elenco le principali di seguito:
- Un pacchetto di “salvataggio” da 350 milioni di sterline, 250 per i club della EFL (per le perdite subite durante la stagione 2019/20 e 2020/21) e 100 per quelli della FA (di questi, 25 sarebbero andati ai club di Nations League, 10 alle primavere e 10 al calcio femminile);
- Ridistribuzione dei diritti TV, sia in generale tra Premier League ed EFL, che tra i singoli club di Premier League. Attualmente l’intero ammontare di diritti domestici e internazionali viene spartito al 92% tra i club di Premier League, con il restante 8% che va ai club di EFL. Con Big Picture questo rapporto sarebbe passato a 75-25 (i club di EFL, quindi, avrebbero più che triplicato la propria fetta di diritti TV). All’interno della Premier League, invece, attualmente i club si dividono equamente i contratti di sponsorizzazione e metà del totali dei diritti TV domestici e internazionali, con la restante metà che viene assegnata in base a quante volte una squadra viene trasmessa in Gran Bretagna (dove non tutte le partite di Premier League vengono trasmesse in diretta) e alla posizione in classifica attuale. Con Big Picture, invece, l’intera torta dei ricavi commerciali sarebbe stata divisa in tre fette: la prima, del 50%, sarebbe stata divisa equamente; la seconda, del 25%, in base alla posizione di classifica attuale; la terza, sempre del 25%, si sarebbe invece calcolata in base alla posizione media nelle ultime tre stagioni;
- Diminuzione delle squadre partecipanti alla Premier League (da 20 a 18) con retrocessione automatica per la diciottesima e la diciassettesima classificata, con promozione automatica per la prima e la seconda classificata in Championship. L’ultimo posto disponibile sarebbe stato deciso attraverso un playoff tra la 16esima classificata e la terza, la quarta e la quinta di Championship (in maniera simile a quanto già succede in Germania);
- Eliminazione del Community Shield e della coppa di lega (attualmente Carabao Cup);
- Riforma del sistema di governance. Attualmente ogni club di Premier League ha un voto e ogni decisione deve essere approvata dalla maggioranza dei due terzi. Con Big Picture, invece, si sarebbero istituite determinate categorie di decisioni (per esempio l’elezione o la rimozione dei membri del board della Premier League o quelle inerenti alla cessione dei diritti TV) per cui sarebbero bastati sei voti tra nove club scelti, chiamati “long-term shareholders” (letteralmente: azionisti di lungo periodo). E cioè Arsenal, Chelsea, Tottenham, Manchester United, Manchester City, Liverpool, Everton, Southampton e West Ham (e questo nonostante, come notato da The Athletic, club come Aston Villa e Newcastle abbiano dalla loro un maggiore numero di stagioni in Premier League di Manchester City e Southampton).
Da un lato, Big Picture aveva il grande merito di contenere diverse misure a sostegno la base della piramide calcistica, sia nel breve che nel lungo periodo - quella che in tutti i paesi, essendo più dipendente dei proventi da stadio, sta subendo maggiormente la crisi dovuta alla pandemia di COVID-19. Questo è un aspetto che viene troppe volte dimenticato, anche da noi che ci occupiamo quasi esclusivamente di calcio professionistico di primissimo livello, ma è in realtà il lato più drammatico di questa crisi. Negli ultimi giorni lo ha ricordato più volte soprattutto Gary Neville - tra le altre cose anche proprietario di una quota del Salford City, un club di League Two - chiedendo addirittura l’intervento del governo britannico (cosa che però andrebbe contro le norme FIFA, che vietano qualsiasi intromissione della politica nel calcio). «Se non interviene a questo punto, in cui i club sono sull’orlo dell’estinzione per via di un gruppo di squadre egoiste che si rifiutano di concedere un po’ di soldi senza condizioni», ha dichiarato Neville «Allora perderò la fiducia nello sport che amo».
D’altra parte, come sottolinea lo stesso Gary Neville, in Big Picture era chiaro anche l’intento da parte dei top club inglesi di gettare le basi per la solidificazione definitiva della loro presenza in cima di questa stessa piramide. Sia da un punto di vista politico, con le "big six" del calcio inglese inserite in una specie di Consiglio di Sicurezza della Premier League, sia da un punto di vista economico. Oltre alla redistribuzione interna dei diritti TV (maggiormente basata sui risultati ottenuti negli ultimi tre anni rispetto a oggi), Big Picture avrebbe avvantaggiato inevitabilmente le grandi del calcio inglese a scapito della classe media e bassa della Premier League. Quella cioè che non avrebbe potuto compensare la riduzione della torta dei diritti TV (da 92 a 75% del totale) con il flusso di ricavi derivante dalle coppe europee e che per la stessa ragione è più sensibile alla riduzione del numero di partite derivante dal passaggio della Premier da 20 a 18 squadre (che finanziariamente significa avere 2 partite in meno di botteghino allo stadio e 4 in meno da vendere ai propri sponsor ogni stagione). Quella stessa classe media e bassa che, come il Leicester negli ultimi anni ha miracolosamente dimostrato, è poi il primo avversario delle “big six” per la qualificazione alle coppe europee.
Foto di Stefano Nicoli/LaPresse.
Dalla bozza della European Premier League e dal progetto Big Picture si evince chiaramente che, ancora prima della crescita dei ricavi, il primo obiettivo dei top club inglesi ed europei è la loro stabilità nel medio e nel lungo periodo. Lo si vede dai criteri con cui si è tentato di ridistribuire i diritti TV (facendo pesare di più i risultati nelle ultime tre stagioni) o di ridisegnare la governance della Premier League (dando ai club più grandi il potere di decidere su come vendere i diritti TV in futuro), o dal sogno più o meno esplicito entrare a far parte di una lega chiusa o solo parzialmente aperta alle retrocessioni (come la European Premier League, dove i club fondatori non sarebbero potuti uscire per 20 anni). Si punta sempre alla stessa cosa: assicurarsi la certezza di non vedere il proprio fatturato in pericolo per una singola stagione storta. E per farlo, in un momento in cui non si può fare nemmeno affidamento su uno stadio di proprietà, l’unico modo è assicurarsi una presenza continua nelle coppe europee, puntando contemporaneamente ad aumentare il più possibile la propria quota di ricavi derivanti dall’Europa League e soprattutto dalla Champions League. D’altra parte, è quello che ha detto esplicitamente Andrea Agnelli solo pochi mesi fa, parlando dell’exploit dell’Atalanta degli ultimi anni. «Ho grande rispetto per quello che sta facendo l'Atalanta, ma senza storia internazionale e con una grande prestazione sportiva ha avuto accesso diretto alla Champions», ha dichiarato Agnelli «Giusto o meno, penso poi alla Roma, che ha contribuito negli ultimi anni a mantenere il ranking dell'Italia, ha avuto una brutta stagione ed è fuori. Con tutte le conseguenze del caso a livello economico. Bisogna proteggere gli investimenti».
Parole anche comprensibili da un punto di vista strettamente aziendale ma che sono in aperto contrasto con l’imprevedibilità sportiva che teoricamente dovrebbe essere alla base di ogni campionato. Parole che poi non tengono conto del paradosso di voler considerare il calcio come un business qualsiasi. Il paradosso per cui il rischio d’impresa si gioca ogni settimana sulle prestazioni di 11 giocatori - giocatori che hanno variazioni nello stato di forma, che possono infortunarsi, che adesso possono anche contagiarsi con un virus che può farli ammalare, addirittura uccidere se sei molto sfortunato, in ogni caso che li costringe a stare per diverse partite fuori dai giochi.
Così come i progetti segreti per una nuova “superlega”, tutti questi nodi non sono affatto nuovi - anzi, sono in un certo senso alla stessa base del cosiddetto calcio moderno. Oggi, però, il contesto è cambiato. Con gli stadi vuoti per chissà quanto tempo ancora e le TV sempre meno felici di onorare i salatissimi contratti per la trasmissione delle partite tutto il calcio naviga in cattive acque e questo potrebbe anche portarci a una resa dei conti che ci eravamo illusi potesse non arrivare mai. Come ha detto una volta Henry Kissinger: «Se i coltelli sono tanto affilati è perché la torta è davvero piccola».