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Provate a prendere Filippo Ganna
04 ago 2021
La medaglia d'oro nell'Inseguimento a Squadre ha dell'incredibile.
(articolo)
15 min
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Sono passati 53 anni dall'ultima volta in cui un quartetto azzurro ha conquistato l’ultima medaglia alle Olimpiadi nell’Inseguimento a Squadre. Da quando, cioè, Cipriano Chemello, Giorgio Morbiato, Lorenzo Bosisio e Luigi Roncaglia conquistarono la medaglia di bronzo a Città del Messico con un notevole (per l’epoca) 4:18.35 contro il 4:33.39 della squadra dell’Unione Sovietica. Nella finale per l’oro, invece, si affrontavano Danimarca e Germania (per la prima volta “Ovest”, dopo l’esperimento della Gesamtdeutsche Mannschaft di Melbourne, Roma e Tokyo). E la Germania Ovest - fresca di record del mondo registrato in semifinale contro gli azzurri - aveva volato verso l’oro in 4:18.94 con i danesi che si erano arresi in 4:22.44. Alla fine, però, la vittoria venne assegnata alla Danimarca per via di un errore tecnico della Germania, che costò la squalifica del quartetto, che non riuscì a bissare l’oro di Tokyo ‘64. Oro che era arrivato proprio contro gli Azzurri, battuti in finale per soli 7 centesimi di secondo.

In quel momento, l’Italia aveva vinto 7 dei 12 ori olimpici assegnati nell’inseguimento a squadre dal 1908 al 1968, a cui vanno aggiunti 3 medaglie d’argento e - appunto - il bronzo di Città del Messico. Un dominio che ha pochi eguali nella storia di questa disciplina e che forse si può paragonare solo al recente exploit della Gran Bretagna capace di vincere 3 medaglie d’oro consecutive da Pechino 2008 a Rio 2016 (a cui si sommano l’argento del 2004 e il bronzo a Sidney 2000). Un dominio - quello britannico dell’ultimo decennio - che non è stato improvviso né imprevisto, ma anzi pianificato con cura già a partire dai primi anni Novanta quando la Federazione Britannica si rese conto che nel ciclismo su pista si assegnavano molte medaglie alle Olimpiadi e che quindi valeva la pena provare a investire con forza per conquistarne il più possibile.

Sulla scia dei successi di Chris Boardman e Graeme Obree, la Gran Bretagna ha quindi iniziato a conquistare lentamente un posto di primo piano nel ciclismo su pista grazie anche a programmi specifici per la crescita di tutto il movimento, a partire dalla costruzione di velodromi coperti fino alla spasmodica ricerca dei marginal gains - ovvero tutti quei piccoli miglioramenti che si possono mettere in atto per aumentare la prestazione in gara anche di pochissimo, ma che sommati insieme arrivano a cambiare drasticamente il risultato finale.

Dopo anni di trionfi, però, altre Nazioni hanno imparato e sono cresciute nel tempo fino ad arrivare ad abbattere anche il muro dei 3’50” dove i britannici avevano portato l’asticella spostando il record del mondo di 6 secondi, un po’ per volta, nel giro di 8 anni. Oggi, rispetto anche solo a 5 anni fa, molte più Nazioni sono in grado di fare tempi impensabili fino a poco tempo fa. Basti pensare che a Rio 2016 solo Gran Bretagna, Australia e Danimarca riuscirono a scendere sotto i 3’55” mentre oggi tutte e otto le squadre partecipanti sono andate più o meno tranquillamente sotto i 3’50” che 5 anni fa valevano il record del mondo e la medaglia d’oro. Un miglioramento che avevamo già analizzato in passato quando Filippo Ganna fece a brandelli il record del mondo nell’Inseguimento Individuale, dovuto in gran parte al lavoro certosino in galleria del vento che ha portato le biciclette attuali ai livelli (se non oltre) delle biciclette speciali che si usavano negli anni Novanta.

Fra le Nazioni che hanno investito nel ciclismo su pista nell’ultimo decennio c’è fortunatamente anche l’Italia, che nonostante i soliti incidenti di percorso è riuscita a dotarsi di un nuovo impianto coperto, fondamentale per la crescita di tutto il movimento. Una crescita che si è poi concretizzata con l’arrivo di una serie di giovani talenti che si stanno pian piano prendendo la scena. Ma è inutile negarlo: la crescita di un movimento è anche dettata dall'affermazione di fuoriclasse che spostano il limite oltre quello che è possibile nel momento contingente. E per l'Italia, fin troppo facile dirlo, questo talento generazionale porta il nome di Filippo Ganna.

L'influenza di Ganna

Torniamo al presente. Nel quartetto italiano che ha partecipato alle Olimpiadi di Tokyo ci sono tre atleti nel pieno della loro maturità sportiva (Ganna, Consonni e Lamon) e un giovane ragazzo di ventuno anni ancora da compiere. Per tre quarti, quindi, è la stessa squadra che arrivò sesta alle Olimpiadi di Rio 2016 dopo aver stampato il quinto tempo in batteria (3’55”724). L’unico cambio è stato appunto quello di Liam Bertazzo, classe ‘92, sostituito dal ventenne Jonathan Milan. Milan ha saputo immediatamente inserirsi nei meccanismi già ben oliati degli altri tre, aggiungendo però una buona dose di talento individuale che sta pian piano crescendo. Questo amalgama che si è creato nel tempo, unito al talento singolo dei componenti del quartetto, ha portato l’Italia a migliorare i propri tempi in una continua progressione che si è conclusa ieri, quando nelle semifinali contro la Nuova Zelanda gli Azzurri sono riusciti a polverizzare il precedente record del mondo della Danimarca facendo fermare il cronometro a 3’42”307: più di due secondi in meno rispetto al 3’44”672 dei danesi ai Mondiali di Berlino del 2020 (e quasi 8 secondi in meno rispetto al 3’50”265 con cui la Gran Bretagna vinse l’oro a Rio 2016).

Foto di Justin Setterfield/Getty Images

Un exploit che, come dicevamo, è figlio anche e soprattutto dell’esplosione di Filippo Ganna. Il faro della squadra italiana nel 2016 vinse i Mondiali nell’individuale con il tempo di 4’16”141, mentre ai Mondiali del 2020 era già sceso a 4’01”934. Non è un caso, infatti, che nella semifinale contro la Nuova Zelanda l’Italia sia andata sotto proprio nel terzo chilometro, per poi recuperare lo svantaggio nel quarto e ultimo chilometro quando Ganna si è rimesso davanti a dare l’ultima fiammata.

Per capire davvero la portata di quanto fatto da Filippo Ganna in quell’ultimo chilometro è però necessario osservare i dati a nostra disposizione, in particolare i tempi intermedi ai rilevamenti cronometrici. Dopo 2000 metri di gara, l’Italia era in vantaggio sulla Nuova Zelanda di 108 millesimi e aveva percorso il secondo chilometro in 53”293 contro i 53”478 dei neozelandesi. Nel terzo chilometro, però, l’Italia ha drasticamente rallentato percorrendo quei mille metri in 54”484 permettendo alla Nuova Zelanda di passare in testa grazie al 54”081 fatto registrare nello stesso tratto.

Ai 3000 metri, quindi, la Nuova Zelanda era davanti per 295 millesimi. Ai 3250 il vantaggio era salito ancora a mezzo secondo netto. È lì che parte la rimonta incredibile di Ganna: gli Azzurri, là dove normalmente i tempi dovrebbero leggermente alzarsi, hanno infilato una serie di tempi sul giro (250 metri ciascuno) tutti intorno ai 13”300 (nell’ordine: 13”318, 13”280 e 13”364). Un martellamento costante per tutti i 750 metri conclusivi che ha fatto crollare una pur straordinaria Nuova Zelanda che in quei 750 metri ha perso tutto il vantaggio accumulato nel chilometro precedente chiudendo infine a soli 97 millesimi di secondo dal quartetto italiano (e quindi anche loro abbondantemente sotto al vecchio record del mondo della Danimarca).

Per capire cosa significano quei numeri, basti pensare che quegli ultimi 750 metri conclusivi sono stati per l’Italia i più veloci 750 metri di tutta la sua prova (e forse i suoi 750 metri più veloci di sempre). Nell’ultimo chilometro gli azzurri sono andati 8 decimi di secondo più veloci rispetto ai mille metri precedenti: un risultato straordinario se consideriamo che di tutte le altre squadre impegnate nelle batterie di ieri, l’Italia è una delle pochissime ad aver fatto registrare un dato del genere (normalmente il tempo nell’ultimo chilometro è più alto rispetto ai precedenti) ed è l’unica ad essersi migliorata di più di mezzo secondo (239 millesimi per la Svizzera, che però era andata abbastanza piano nel terzo chilometro; 34 millesimi di miglioramento per la Nuova Zelanda, ma non è bastato) e soprattutto è l’unica squadra ad essere scesa sotto i 54 secondi.

Il valore della Danimarca

Prima della finale di oggi, però, non potevamo essere del tutto certi dell'oro che poi è arrivato. E questo perché la Danimarca era una squadra incredibilmente forte, già detentrice del record del mondo stabilito nel 2020. Il quartetto danese, infatti, aveva fatto registrare il miglior tempo nel primo turno di qualificazione proprio davanti all’Italia (3’45”014 contro 3’45”895) e doveva assicurarsi il posto nella finale per la medaglia d’oro nella sfida contro la Gran Bretagna.

I britannici, c’è da dire, avevano appena perso la loro stella, la loro guida da sempre: Ed Clancy - tre volte oro olimpico e cinque volte campione del mondo nell’inseguimento a squadre, fedele uomo squadra di campionissimi come Bradley Wiggins e Chris Hoy - aveva infatti annunciato il ritiro al termine della prova di qualificazione per i problemi alla schiena che si trascinava dietro da circa cinque anni. Clancy, da uomo squadra quale è sempre stato, aveva stretto i denti e guidato il quartetto britannico - ormai privo dei grandi talenti della generazione passata - a un importante quarto posto in qualificazione che valeva l’accesso alle semifinali per le medaglie.

Foto di ODD ANDERSEN/AFP via Getty Images

Privato di Ed Clancy, il quartetto britannico in semifinale si è rapidamente sfasciato. L’inseguimento a squadre sembra, visto da fuori, una disciplina che esalta la pura potenza dei quattro elementi che compongono ogni squadra. Invece è anche e soprattutto una questione di affiatamento e coordinazione, di movimenti da provare e riprovare, di cambi dati al momento giusto. Ogni singolo cambio è studiato, calcolato al millesimo, e bisogna che tutti e quattro gli elementi della squadra si muovano come un corpo unico per poter ottenere il risultato prefissato. Basta poco per mandare tutto all’aria, ecco. Non è sufficiente spingere sui pedali fino alla morte per vincere. Certo, il talento puro aiuta eccome, ma non è la componente principale di un quartetto vincente.

I meccanismi della Gran Bretagna, ad esempio, senza l’ingranaggio Clancy si sono inceppati. I tempi dei primi due chilometri, in realtà, non erano malvagi (1’54”630 al passaggio ai 2000 metri, solo mezzo secondo in più rispetto all’Italia) ma da lì in poi la squadra britannica si è lentamente eclissata. Nella seconda parte di gara - per ovvi motivi la più delicata, quella in cui bisogna sopperire all’appannamento dovuto alla stanchezza con l’automatismo dei cambi provati in allenamento - il quartetto britannico ha iniziato a perdere terreno girando addirittura in 55”314 fra i 2000 e i 3000 metri. Poi Charlie Tanfield, l’atleta chiamato a sostituire Ed Clancy, ha perso le ruote dei suoi compagni da terzo uomo.

Nell’inseguimento a squadre il tempo viene preso sul terzo uomo della squadra che taglia il traguardo. Non è inusuale quindi vedere squadre che fanno lavorare di più uno dei quattro nella prima parte per poi lasciarlo staccare e proseguire in tre fino al traguardo. Una strategia che ovviamente avevano previsto anche i britannici, se non fosse che Charlie Tanfield era uno dei tre che avrebbe dovuto tirare dritto fino al traguardo. Quando Tanfield si è staccato per la Gran Bretagna la gara è finita: una sconfitta grave non tanto per la semifinale, che era già stata dominata una Danimarca stellare; quanto per la chiusura di un ciclo, quello del dominio britannico nell'Inseguimento a Squadre durata un decennio e tre Olimpiadi.

A complicare la situazione già di per sé disastrosa per la Gran Bretagna, ci si è messo il fatto che dall’altra parte c’era una squadra, la Danimarca, che ha messo in fila una serie di prestazioni mostruose. Tanto che, a metà gara, il vantaggio danese si aggirava già intorno agli 8 decimi di secondo; ai 3000 metri eravamo già a quasi 1 secondo e mezzo. E quando Tanfield si è staccato, ovviamente il vantaggio danese si è impennato finché il loro quartetto si è avvicinato sempre di più alla coda dei britannici. Qualcosa che, come detto, accade di rado.

Frederik Madsen, il primo atleta del quartetto danese che stava volando su tempi mostruosi, non si è accorto che stavano raggiungendo gli avversari e ha colpito in pieno il solitario Tanfield che stava proseguendo la sua prova pur essendo ormai staccato. Madsen stava in quel momento correndo a testa bassa, concentrato soltanto sullo spingere il più forte possibile sui pedali. Per quanto assurdo possa sembrare, nessuno aveva pensato di avvisarlo del pericolo davanti a lui, né lui poteva immaginare che il quartetto britannico stesse andando così male da perdersi i pezzi per strada.

Il regolamento, come spesso accade, non prevede una situazione del genere. Un tamponamento così assurdo era effettivamente difficile da ipotizzare in generale, soprattutto in una semifinale olimpica. In questa zona grigia, l’interpretazione dei giudici è stata quella di dire che la Danimarca aveva tecnicamente raggiunto il quartetto britannico e quindi la vittoria andava assegnata ai danesi. Una scelta che logicamente ha anche senso di essere, visto il senso profondo dell’inseguimento a squadre (ovvero l’idea che bisogna appunto inseguire e prendere gli avversari) ma che stride un po’ con quanto effettivamente successo. Perché tecnicamente la Danimarca non aveva raggiunto la Gran Bretagna al momento dell’impatto visto che i tempi si prendono sul terzo uomo del quartetto e soprattutto l’incidente è stato scatenato dal primo uomo del trenino danese. Stando alla logica, quindi, è vero che la decisione dei giudici è corretta: la Danimarca era incredibilmente superiore alla Gran Bretagna e avrebbe comunque dominato la prova andando a doppiare gli avversari. E quindi, se la domanda che bisogna porsi per assegnare la vittoria è semplicemente “chi è stato il più forte in gara?” allora sì, la decisione dei giudici non fa una piega. Non sempre però è giusto rispondere a questa domanda, e anzi spesso è fuorviante.

In ogni caso, ognuno si fa la sua idea. Il fatto è che la Danimarca stava volando e che alla fine ha vinto la gara. All’ultimo rilevamento cronometrico prima dell’incidente (quindi ai 3750 metri), la Danimarca era passata in 3’27”737: più di un secondo più veloci rispetto all’Italia che stava battendo il record del mondo. In prospettiva i danesi sarebbero probabilmente arrivati al traguardo con un tempo intorno ai 3 minuti e 40 secondi, che sarebbe valso ampiamente il nuovo record. Per capire meglio: i danesi fra i 1000 e i 3750 metri sono andati solo una volta sopra ai 13”500 come tempo sul giro. Avete presente quello che dicevamo sulla prestazione mostruosa di Ganna e degli Azzurri negli ultimi 750 metri? Ecco, i danesi quei tempi li hanno mantenuti praticamente dall’inizio alla fine. Una prestazione impressionante e che forse avrebbe messo più in chiaro le cose in vista della finale.

La finale

E infatti la finale è stata molto difficile, esattamente com'era lecito attendersi. La sfida per l’oro è partita con gli azzurri in testa al primo chilometro, con la solita grande partenza di Lamon. I danesi però hanno tenuto botta e hanno gestito le energie, scendono a 3 decimi di ritardo per poi risalire piano piano nei chilometri centrali, là dove si sapeva che dovevano costruire il vantaggio per vincere. Ai 3000 metri la Danimarca è infatti passata in testa, e aveva anche un ottimo margine che andava oltre gli 8 decimi di secondo (867 per la precisione). Quando la gara sembrava ormai indirizzata, però, i danesi hanno perso il quarto uomo, forse troppo presto. Gli azzurri invece hanno lanciato perfettamente l’ultima cavalcata di Filippo Ganna con Lamon che si è lasciato sfilare. Quando Ganna è passato in testa ai 3250 metri l’Italia doveva ancora recuperare 714 millesimi: un distacco teoricamente impossibile da colmare. Soprattutto se dall’altra parte ci sono i campioni del mondo in carica.

Foto di ODD ANDERSEN/AFP via Getty Images

Ma ciò che è impossibile per gli esseri umani non è evidentemente valido per Filippo Ganna. Come la storiella del calabrone che non dovrebbe poter volare ma non lo sa e vola lo stesso, Filippo Ganna non dovrebbe poter recuperare quello svantaggio ma forse non lo sa o forse lo sa e spinge come un forsennato. I danesi ci mettono anche del loro, alzando i tempi sul giro nell’ultimo chilometro e non riuscendo più a scendere sotto i 13”400, addirittura andando a toccare i 13”899 nei primi 250 metri dell’ultimo chilometro. Gli azzurri invece fanno quello che avevano fatto in semifinale contro la Nuova Zelanda: pista a Ganna e ci abbracciamo.

Ai 3500 metri l'Italia è andata a +0”493, ai 3750 siamo già scesi a +0”285. Più di due decimi recuperati in un solo giro, quasi 6 in 750 metri. L’ultimo giro è stato un crescendo di follia: gli Azzurri si sono stretti alle spalle di Filippo Ganna, i danesi hanno provato ad andare dritti ma hanno perso un po’ della loro solita compostezza. A metà dell’ultimo giro il ritardo l'Italia è sotto il decimo, e poi l’apoteosi: all’uscita di curva i danesi si raggruppano per tagliare il traguardo il più vicini possibile. Lo stesso fanno gli azzurri, con Consonni e Milan che escono dalla ruota di Ganna il più tardi possibile, finché proprio non è necessario per arrivare tutti e tre allineati.

Il cronometro del quartetto italiano si ferma a 3’42”032, quello dei danesi invece corre ancora per un altro po’, precisamente per altri 171 millesimi di secondo: è oro. Non solo è oro, ma è anche l’impresa più incredibile che il ciclismo su pista ci abbia regalato da tanti anni a questa parte. è la sublimazione di un percorso, il punto più alto di un progetto iniziato ormai quasi dieci anni fa. I tempi degli azzurri nell’ultimo chilometro hanno dell’incredibile: 13”746 nei primi 250 metri, poi 13”356 e 13”224, fino all’incredibile 13”180 dell’ultimo giro che conclude una rimonta che esce fuori da qualsiasi logica.

L’Italia ha vinto la medaglia d’oro nell’Inseguimento a Squadre ribaltando i pronostici, stracciando record su record, tenendo testa ad avversari che hanno superato i limiti di quanto fosse pensabile andar forte in quei maledetti quattro chilometri. La Nuova Zelanda prima e la Danimarca poi ci hanno costretti ad andare più veloci di quanto alla vigilia di queste Olimpiadi pensavamo fosse possibile andare.

Eppure, nonostante tutto, o forse proprio grazie a tutto questo, a distanza di 61 anni dalle Olimpiadi di Roma del 1960, un quartetto italiano è di nuovo lì, sul gradino più alto del podio. Quello che alla fine però deve essere chiaro è che non era scontato, per niente. Non eravamo i favoriti e non abbiamo fatto quello che dovevamo fare: abbiamo fatto molto di più, ed è stato incredibile.

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