Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Pumping Arnold
26 gen 2022
Pubblichiamo un estratto dal libro di Fabrizio Patriarca su Arnold Schwarzenegger.
(articolo)
12 min
Dark mode
(ON)

Pubblichiamo un estratto del libro “Pumping Arnold”, di Fabrizio Patriarca uscito il 20 gennaio per 66thand2nd. Si può comprare sul sito della casa editrice, qui.

La luce della Costa Azzurra, due chilometri di lungomare dalla Roseraie al Palais des Festivals, col Vieux Port e la gemma medievale del Suquet, poi la Plage du Midi come un labbro turchese atteggiato a un sorriso senza compromessi: maggio del ’77 a Cannes è una primavera brillante che profuma di assiettes provenzali, di palme, di nomi scolpiti nella fama. È l’anno dell’esordio di Ridley Scott, premiato per I duellanti. Mick Jagger a passeggio con signora, a un filo dal divorzio: Bianca gli ha dato una figlia, ma Jerry Hall è dietro l’angolo. Arnold Schwarzenegger se ne va in giro con un completo di lino beige confezionato da Morty Sills a New York: Pumping Iron partecipa al festival fuori concorso, lui sente l’euforia del successo internazionale, è lanciatissimo, il mondo è la sua ostrica. Sills – lo prendo come un segnale – è il sarto da cui si servirà Gordon Gekko in Wall Street: «E fatti un vestito decente. Qui non puoi venire conciato così. Puoi andare a nome mio da Morty Sills» (tra l’altro Gekko nella sua prima scena chiama un operatore di borsa «terminator»).

George Butler ha un’idea per fare un po’ di pubblicità al film, convoca una quindicina di ragazze del Crazy Horse perché posino accanto ad Arnold sulla spiaggia. Lui indossa solo il suo costume da bodybuilder, in una gioia del corpo esposto all’affetto del pubblico che ricorda un’occasione di qualche anno prima: Carroll Baker in bikini e sandaletti che alza le braccia sorridente in mezzo a un nugolo di fotografi sul molo dello sci nautico. È utile guardare le poche fotografie di Arnold di quel maggio trionfale, perché adesso rivelano un fascino da vintage Croisette che mi sorprende. Le ragazze hanno abiti lunghi, estivi, trine e merletti, cappelli inghirlandati da fiori e dei graziosi bouquet fra le mani, nella foto più iconica Arnold è in piedi fra loro, in piedi su un piccolo sgabello quadrato e mostra il bicipite destro, sullo sfondo si vede la guglia occidentale dell’hotel Carlton col resto dell’edificio che sfuma nella prospettiva seguendo perfettamente la linea delle spalle – fa veramente una strana impressione questa foto, perché Arnold è circondato da germogli muliebri ma quello che si nota subito grazie al gioco di linee con l’albergo è l’accezione architettonica del suo corpo. Si tratta di una foto che lavora tutta sulle diagonali: la diagonale di prospettiva col punto di fuga all’estrema destra dell’immagine, quella disegnata dalle silhouette femminili, che punta in basso a sinistra, e poi c’è Arnold perfettamente centrato, con la linea del bicipite destro che segue la diagonale degli edifici e la linea dell’avambraccio sinistro che invece piega sulla diagonale delle ragazze. Un esempio di inquadratura dal profondo equilibrio: un terzo dell’immagine è presa dal cielo che sta rannuvolando, ma il resto della foto è gremita e ricchissima di suggestioni per l’occhio, invita ad aggirarsi fra le linee, indugiare sui volti, ogni briciolo di grazia sembra promanato dalla mole scolpita di Schwarzenegger, e tutto per la verità dipende unicamente dall’accorgimento dello sgabello, che lo solleva rispetto alla diagonale che corre lungo le teste delle ragazze – come se la sua ambizione non fosse una supremazia di calibro «umano», il riconoscimento di una virilità non contendibile, ma una sfida al paesaggio e all’architettura.

In questo momento «successo» è la parola che circonda, come un mantello, il corpo di Arnold. Parlo di una condizione mentale, di un modo di stare al mondo legato a uno storytelling apparentemente tautologico. Perché il successo di Arnold non deriva da una narrazione di fatiche, sacrificio, crescita o trasformazione (che sia vita esemplare, storia di una vita illustre o schietta biografia). Deriva invece dal racconto di un altro successo, già pieno e felice di sé, formato nei suoi gangli essenziali (il carattere, l’appeal, e ciò che si dice lo stile): un successo fecondo, pronto a generare ulteriore successo, quello narrato da Pumping Iron.

***

C’è un pizzico di Francia in apertura di Pumping Iron, molta Austria e uno scorcio di Sardegna. Il film parte come un vero documentario, la prima immagine in assoluto è un primissimo piano di Franco Columbu che ascolta le indicazioni della ballerina Marianne Claire in una sala prove – è il 4 ottobre 1976 – poi quando la telecamera allarga si vede la sagoma di Arnold alle loro spalle, ma del viso possiamo distinguere soltanto le labbra, atteggiate a un sorriso tra il divertito e il paterno.

A mezza strada fra la sottolineatura di parentele sorprendenti (il bodybuilding ha connessioni profonde anche con lo yoga) e la trovata pittoresca, il film apre con Franco e Arnold a lezione di danza classica. La Claire spiega loro l’importanza dello sguardo: dove direzionarlo e perché. Li vediamo torcere il busto e contrarre i bicipiti, stendere le braccia imitando i movimenti aggraziati di Marianne – Arnold ha un ghigno perenne che denuncia la sfumatura burlesca del momento, comunque lui e Franco annuiscono come scolari diligenti, fanno domande, approvano.

Quando lei tocca il gomito di Arnold per illustrare un movimento si sente la scossa fra due sostanze di polarità diverse: di fatto Butler sta portando il culturismo in una sala sacra all’immaginario colto dell’Occidente, l’analogia col balletto mette la scena a rischio di parodia, ma il confronto tra i diversi corpi con diverse attitudini è troppo affascinante per lasciarselo sfuggire e liquidarlo come una fantasia kitsch. Le prove vanno avanti, si studiano i movimenti, il significato è: attenzione, posare è una roba impegnativa, servono le giuste basi, non basta mettersi in piedi e tirare i muscoli.

La telecamera stringe su Arnold fino a chiuderlo in un fermo immagine dove appare soltanto il suo profilo sul lato sinistro e, nella destra del fotogramma, la curva del bicipite. Gli occhi di Schwarzenegger stanno fermi e concentrati sul muscolo teso, e grazie a quell’espressione tagliente tutto assume all’improvviso un colore serissimo, poi partono i titoli di Martin S. Moskov.

Dunque Pumping Iron inizia per così dire dalla genetica delle pose, da una loro architettura profonda – che svela la ragion d’essere e il senso dinamico – e termina di nuovo con le pose, stavolta sgonfie, ironiche, della scena conclusiva, quando Arnold e Lou Ferrigno siedono vicini nell’ultima fila di posti su un pullman: a un certo punto Ferrigno toglie il giubbetto con l’aiuto del padre e lui e Arnold fanno scherzosamente a gara a sovrastarsi.

Una costruzione ad anello che racchiude tutta l’orbita mitologica del culturismo, in termini più arnoldeschi: una Ringkomposition. Dopo i titoli, che sono una specie di celebrazione archeologica (filmati degli albori del bodybuilding, che accompagnano lo spettatore verso la constatazione della realtà della pratica moderna, coi suoi progressi che dal punto di vista dello spettacolo consistono soprattutto nel disciplinare le pose), c’è una carrellata dei protagonisti del film, in un ordine particolarmente significativo perché prova a indirizzare la comprensione del racconto. Il culturista che apre la sequenza è proprio Ferrigno, alle sue spalle di vede la bandiera americana, l’ultimo è Arnold, in mezzo Ken Waller, Mike Katz, Robbie Robinson, Ed Corney, Serge Nubret e Franco Columbu. È il parterre delle star principali del film, su alcune di loro si focalizzerà l’attenzione del racconto.

Perché Pumping Iron, nonostante sia ricordato pressoché ovunque come il film in cui brilla solitaria la stella di Schwarzenegger, in verità è suddiviso in due sezioni narrative ben distinte: nella prima si racconta il cammino di Mike Katz e Ken Waller verso il titolo di Mr. Universe, nella seconda il duello tra Arnold e Ferrigno per il titolo di Mr. Olympia – con uno stacco, un vero salto d’aria, sull’attività di Columbu e il suo retroterra sardo. La cornice sembra un po’ quella dell’Iliade, con gli eroi, gli schieramenti, le amicizie e inimicizie, soprattutto i destini. Butler prova a svelare chi siano le persone che abitano quei corpi giganteschi, la loro storia, il loro carattere, cosa li ha condotti a primeggiare nel bodybuilding e come tutto questo si intreccia in una lotta per la supremazia – se cadesse qualche testa Pumping Iron potrebbe essere un precursore di Highlander.

Ma al netto dell’estasi postribolare che avvince lo spettatore ogni volta che vede inquadrata l’insegna lacera della Gold’s Gym preparandosi a entrare nel regno del sudore e del testosterone, cosa rappresenta davvero la prima scena di Pumping Iron?

Sarebbe facile ascriverla, oggi come oggi, a un piacere del reperto sentimentale, una specie di Come eravamo del culturismo, ma non è così. Ciò che Butler ha fatto non è stato soltanto restituire l’immagine iridescente di un’età dell’oro – perché lo è stata, senz’altro – ma fermare e immortalare lo spirito stesso di uno sport apparentemente privo di spirito. Arnold fa il suo ingresso alla Gold’s Gym e sappiamo che è il Re, il dominus, il signore incontrastato. Tra lui e gli atleti che man mano gli si fanno incontro per salutarlo – l’onore di conoscerlo, il piacere di potersi permettere la confidenza di toccarlo o addirittura saltargli in braccio – si apre la distanza che a questo mondo, per la legge del genio e dell’assoluto, separa i Mozart dai Salieri. Ci sono due tipi al desk, Arnold li saluta ironico, vorrei iscrivermi per mettere su un po’ di muscoli, un Mike Katz impressionante gli presenta un novellino, e c’è Dave Draper, che Arnold abbraccia per ultimo dopo un sorridente rimprovero. Tutti comprimari. Anche nelle parti in cui il film non si occupa direttamente di lui, Arnold rimane una presenza ineludibile, il Grande Spettro del Confronto. A Butler fa gioco dare per scontata la sua vittoria, perché se Arnold diventa nel film una funzione del Destino, e una funzione invalicabile, allora può garantire il senso tragico dell’azione, e il tragico (un tragico in chiave moderna) non manca in Pumping Iron, anzi è uno dei suoi tratti distintivi.

***

La narrativa della prima parte di Pumping Iron punta molto sull’esposizione della Gold’s Gym come ambiente angusto: muri bianchi e macchine ammassate, tappetini logori, le coperture delle panche squarciate, il giallo della gommapiuma che ammicca dagli strappi. Nel 1977 era la rappresentazione di un mondo ideale: l’uomo riconnesso alla brutalità della carne, al dolore e alla sofferenza, l’uomo e il ferro, l’uomo e la ghisa. Gold’s Gym come l’antro di Efesto: un’officina dove le divinità si forgiano e affilano. É quasi impossibile non lasciarsi catturare dal confronto con i grandi health club in cui regna sovrana la pulizia e anche le tute sono capi firmati. In più di quarant’anni il bodybuilding è uscito sì dal ghetto ma i centri fitness sembrano smentirne la vocazione originaria, è il dazio che la disciplina paga al suo orizzonte planetario – anche la Gold’s Gym è diventato un marchio internazionale, una catena di palestre (l’unica palestra di fama che oggi regge il confronto con Gold’s Gym degli anni Settanta è la Metroflex di Airlington, home of Mister Olympia Ronnie Coleman).

Dopo la scena dei saluti, routine di allenamento: Columbu alla panca piana, Arnold ai cavi e poi anche lui su una panca, impegnato con le croci, Butler fa un’inquadratura ardita dal basso, a filo della linea del petto, così da farmi vedere il mento di Arnold, il naso dilatato e la bocca che si storce paurosamente mentre tutto il suo volto trema: è quell’estetica dello sforzo abnorme di cui ogni culturista che si rispetti conosce la vertigine. E infatti Arnold smonta dalla panca e si osserva allo specchio: tre quarti, tira il bicipite, il petto si gonfia, «mi sento pompatissimo», addosso ha l’intramontabile canottiera della Gold’s Gym, lo specchio lo frastaglia, raddoppia le dimensioni del gruppo spalla-braccio, l’abbronzatura – lieve – sparata dentro il giallo intenso della canotta non fa che tornirlo ulteriormente. In quello specchio faccio l’esperienza del corpo maschile in uno stato di splendore che abolisce il canone nel momento in cui lo realizza. Non smetterei mai di guardare Arnold che si guarda, perché la figura che lo specchio restituisce è calda e consolante: da qualche parte, dice, esiste uno splendore del corpo maschile, e quello splendore è incontestabile.

Sotto scorre la voce narrante: Arnold Schwarzenegger, ventotto anni, duecentoquaranta libbre... Oggi quella didascalia mi arriva come un pleonasmo ridicolo, perché vuole introdurre ciò che non ha alcun bisogno di introduzione. Nel ’77 serviva per orientare: incollava un nome a qualcosa che parlava attraverso la pura apparizione del corpo dal fotogramma. Questa violazione rappresentata dal corpo di Arnold è il nucleo stesso della sua futura mitologia – prendo qualche appunto da Walter Siti in Scuola di nudo, mi segno una frase:

Il nudo divino è ospite in un corpo, vi emerge come una roccia dalla sabbia, disarmonico dal punto di vista della materia che l’imprigiona; il suo torace troppo sviluppato rispetto alla parte inferiore del corpo, o le gambe un po’ corte e arcuate sono il segno che la sua perfezione appartiene a un altro ordine; ogni eleganza, ogni snellezza o levigata armonia sarebbero un ingresso per l’estetica e quindi per la storia.

Non posso dire che quello di Siti sia un punto di vista parziale, perché omosessuale: di fatto non è nemmeno un punto di vista. Il bodybuilder arriva sempre a un momento di contraddizione genetica che è per forza di cose anche una contraddizione dell’estetica. La frase mi sembra cogliere con neutralità il senso dello splendore di Arnold: il corpo che è «tutto intero un frammento». Parla d’altro, esprime un’alterità che forse non è di questo mondo (il nudo divino, appunto, o sacro), e giustamente Siti chiosa: «La folla si scandalizza perché gli steroidi fanno morire, non lo sanno dunque che bellezza e vita sono il contrario l’una dell’altra?». La roccia che emerge dalla sabbia è un incidente in cui la realtà abdica a sé stessa rimanendo in sé stessa, senza alcuna necessità di un vero altrove. Con Arnold comprendo che il bodybuilding non ha niente di pratico, è lo sport meno utile alla vita. Si alzano pesi, si spingono carrucole come confessandosi, ma perfino questa emergenza di spiritualità rifiuta la religione, come il corpo rinnega continuamente sé stesso e la propria forma: l’uomo è una corda tesa tra la bestia e Schwarzenegger.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura