Un tempo frequentavo un amico, un uomo di teatro a dire il vero, che per sottolineare l’importanza del racconto nelle nostre vite tornava sempre sullo stesso episodio. Che avrò sentito almeno una decina di volte, davanti a un pubblico sempre diverso. Raccontava, il mio amico, di aver visto per settimane degli operai lavorare su delle impalcature proprio davanti alla sua scrivania; li sentiva parlare e cantare in lingue straniere e dopo un po’ aveva iniziato a familiarizzare con i loro corpi, con il loro modo distinto di muoversi, fino a poterli riconoscere individualmente. Un giorno uno degli operai è caduto dall’impalcatura, dall’altezza di un secondo piano, ma la vista del mio amico era occlusa da delle siepi e non poteva vedere cosa era successo dopo. Così è sceso in strada e arrivato al cantiere ha visto l’operaio sano e salvo: era caduto su una fila di cespugli che e si era fatto solo qualche graffio. L’operaio aveva detto: «Questa la racconto». Per il mio amico questo aneddoto spiegava come vita e racconto fossero intrecciati, perché a raccontare sono i vivi e – insomma, lo avete capito – si vive per raccontare.
Il calcio, come tutti gli sport, esiste su due livelli. Quello macro, per così dire, in cui diventa una successione di risultati e record, una competizione dopo l’altra, la prima volta di questo, l’ultima di quello. Cambiano dettagli più o meno minuscoli ma il punto centrale è che guardandolo così dall’alto l’essenza del calcio resta sempre uguale, promettendo un’eternità che probabilmente non avrà – tra mille anni ci sarà ancora il Santiago Bernabeu? Il discorso opposto è quello che si nutre di micro eventi, di storie da tramandare che valgono più di qualsiasi coppa e che mantengono “vivo” il calcio nelle nostre memorie. La mia memoria esiste quasi esclusivamente su questo livello. Confondo date e dimentico il numero di trofei vinti da squadre e allenatori, ma parallelamente porto avanti una collezione privata di storie più piccole che, se mai un giorno arrivasse davvero un alieno a cui dover spiegare il calcio, racconterei per prime.
È una storia che fa parte del folklore del calcio inglese e qualcuno magari la conoscerà già, l’avrà letta da qualche parte (in italiano ne aveva scritto Simone Cola) o avrà visto il video originale. Ma è una di quelle storie che tutti devono conoscere. E che, quando la conosci, non puoi fare a meno di ri-raccontare. “A proposito”, si dice in questi casi per cominciare, anche se le storie migliori non sono a proposito di niente, “la sai quella di Chic Brodie?”. Per cui, ve la ri-racconto.
Chic Brodie è stato un portiere scozzese che tra gli anni ‘50 e ‘60 ha giocato più di 400 partite, con varie squadre, in varie leghe. Ha giocato “part-time” e mai titolare nel Manchester City, ha giocato nella squadra di Aldershot mentre faceva il servizio militare ad Aldershot e dopo l’ultima partita con loro, in quarta divisione, ne ha giocata una sola con il Wolverhampton, in prima divisione, per poi giocare con il Northampton, in terza divisione. Tre partite consecutive in tre categorie diverse, quindi. Poi è rimasto quasi dieci anni nel Brentford. Un giocatore, per così dire, trascurabile, dimenticabile. Anzi, che dovremmo aver già dimenticato, considerato che sono passati cinquant’anni esatti tra la sua ultima partita con una squadra professionista, il 28 novembre 1970. Però, appunto, eccomi qui a parlare ancora di lui.
Il 28 novembre 1970 il Brentford giocava a Colchester e stava già perdendo 2-0 quando un cane è entrato in campo. A dire il vero il commentatore dell’epoca dice che il cane è entrato “di nuovo” in campo, quindi doveva già essere successo nel corso della partita (ma non ci sono altre immagini su internet). Per qualche ragione, anche se si trattava di una partita di quarta divisione, la partita veniva trasmessa in tv nel programma Match of The Day. Il cane all’inizio sembra confuso, va sulla palla, poi devia verso un giocatore, poi si ferma e guarda. I giocatori continuano a giocare come se niente fosse. Come se quel cane fosse una variabile di quella partita a cui abituarsi: oggi dobbiamo stare attenti all’ala sinistra, al centravanti e a un terrier bianco e nero che pressa a tutto campo. D’altra parte anche l’arbitro lascia giocare. Un difensore del Colchester lancia lungo in direzione della punta, il cane parte all’inseguimento.
Il cane (che a me sembra un bastardino con qualcosa del Jack Russell e qualcosa di un cane di taglia più grande) arriva in pressing su Peter Gelson, difensore del Brentford che a quel punto sembra voler interrompere il gioco passandola indietro al portiere, ovviamente in quegli anni poteva prendere la palla con le mani. Ed è quello che fa Chic Brodie, senza particolari problemi, sottovalutando la combattività del cane. Sul Guardian è scritto che il portiere era «concentrato esclusivamente sulla palla e ignaro dell’imminente pericolo, non aveva visto il terrier bianco e nero che gli stava arrivando contro»; ma francamente mi pare impossibile che Chic Brodie non si fosse accorto che un cane aveva corso ottanta metri di campo dietro alla palla. Più probabilmente, Brodie pensava che una volta presa la palla in mano il cane si sarebbe fermato, o avrebbe saltato provando a prendere la palla. O almeno io, che ho un cane che corre dietro ogni palla che vede, avrei pensato a questo.
Il cane invece gli salta sulla gamba d’appoggio, facendolo cadere faccia avanti. In un primo momento, avendo visto il video, avevo pensato che il cane lo avesse morso. E posso averlo riguardato decine di volte ma non riesco ancora a capire cosa volesse fare il cane, che subito dopo si allontana dal campo, come se avesse ottenuto il suo scopo o quanto meno avesse coscienza di doversene andare. «Quel cane era pure di piccola taglia, ma era uno di quelli compatti», ha detto Brodie dopo. Un sito che archivia i risultati e le formazioni del Colchester citando l’episodio aggiunge che Brodie è stato curato a lungo dopo l’incidente ma che ha finito la partita, «più preoccupato da un infortunio alla mano dovuto a un bolide di Mick Mahon che dal ginocchio». In realtà quell’infortunio ha segnato la fine della carriera tra i professionisti di Chic Brodie, che secondo alcune fonti si è rotto i legamenti e secondo altre la rotula, nell’impatto con il cane.
In realtà, l’estate dopo, Brodie è tornato a giocare nel Margate Football Club, una squadra dell’Isola Thantet, nel Kent, un tempo una vera e propria isola separata dalla terra dal canale di Wanthum ma che già da qualche secolo era stato coperto. Chic – che in realtà si chiamava Charles, un nome che non gli piaceva perché lo faceva pensare a un marinaio irlandese – ha potuto partecipare alla gloriosa cavalcata del Margate nella FA Cup del ‘73, conclusasi con una sconfitta, 6-0, con il Tottenham per cui a Hartsdown Park erano andati in più di 14mila tifosi.
Poi è finito a fare il tassista a Londra. E qui torniamo all’importanza delle storie da raccontare: a quanti suoi clienti Chic avrà raccontato della sua brillante carriera nel calcio interrotta dall’invasione di un cane? A quanti avrà raccontato di quella volta in cui (altra storia vera) durante un’amichevole un tifoso gli ha tirato una pietra sul ginocchio? O di quando ha rotto la porta sbattendo sul palo per smanacciare una palla in corner, e quando contro il Millwall ha trovato una granata dentro la rete e hanno dovuto sospendere la partita finché un poliziotto non l’ha coperta con un secchio pieno di sabbia (altra storia vera, anche se secondo alcune fonti la granata era un reperto bellico ed era inoffensiva)?
Mi accorgo che la mia passione per il calcio passa inevitabilmente attraverso questo tipo di storie, che posso o meno aver vissuto. Non ero lì nel 1945, quando per festeggiare la comune vittoria contro il nazismo la Dynamo Mosca ha giocato quattro amichevoli nel Regno Unito. Contro il Chelsea pare ci fossero più di centomila persone sugli spalti e fino a bordo campo, anzi appena dentro. Contro il Cardiff, che giocava in terza divisione, hanno vinto 10-1. E nella terza contro l’Arsenal, giocata a White Hart Lane (strano) il 21 novembre, c’era una nebbia così fitta che la Dynamo Mosca ha giocato in 12 per quasi mezz’ora (alcuni spettatori pensavano fossero addirittura 15) e anche l’Arsenal ha giocato con un uomo in più, dopo che George Dury è stato espulso ma si è intrufolato nuovamente in campo. Ha vinto la squadra russa, alla fine, anche se pare che all’Arsenal sia stato annullato un gol regolare, e il Daily Mail l’ha definita: «una delle partite più eccitanti che 54mila persone non hanno visto».
Ma dieci anni fa (il 17 ottobre 2009) ho visto, anche se non in diretta, il Sunderland segnare un gol contro il Liverpool, grazie alla deviazione di un pallone da spiaggia (del Liverpool) tirato in campo da alcuni tifosi e finito proprio davanti a Pepe Reina. Darren Bent, l’autore del gol, dice di non averci fatto caso, di non aver pensato ci fosse niente di strano lì per lì. L’arbitro, Mike Jones, deve aver pensato alla deviazione di un difensore e ha convalidato il gol. Poi ha raccontato che Pepe Reina gli si è avvicinato ripetendo: «Ha colpito la palla! Ha colpito la palla!», a cui lui ha risposto: «Sì, lo so», senza capire. A fine primo tempo ha chiesto a Bent cosa fosse successo e si è reso conto di aver fatto un grosso errore.
Quel pallone da spiaggia oggi è al National Football Museum di Manchester e Darren Bent la ricorda come «una storia strana, di cui sono contento di aver fatto parte», anche se qualcuno gli conta un gol in meno nel record. Lo stesso deve valere per i giocatori in campo durante la sfida tra Juventud Unida de Gualeguaychù e Defensores de Belgrano de Villa Ramallo, quando un altro cane è entrato in campo correndo sulla linea di porta proprio nel momento in cui il pallone stava entrando. Era una partita di terza categoria argentina di due anni fa, ma grazie a internet la parata di quel cane vale per me più del gol di Goetze nella finale del Mondiale del 2014.
Difficile essere nostalgici della stranezza, che per definizione non è programmabile né ineliminabile in alcun modo (non come gli 0-0, che alcune persone rimpiangono seriamente LOL). Neanche se si continuasse a giocare per sempre senza spettatori e solo nelle migliori condizioni climatiche possibili, stando attenti che nessun cane entri in campo, si potrebbe essere certi che non succeda niente di eccezionale. La stranezza come qualcosa che interrompe il normale flusso degli eventi, una contaminazione esterna che buca ogni bolla possibile e immaginabile, che anzi instaura nuovamente la continuità tra quello che accade in campo e la vita fuori (che è continuamente, su base quotidiana, strana). La stranezza come un’apparizione. Andrea Gentile, nel suo “Apparizioni” (Nottetempo, 2020), scrive: «Un’apparizione, senza dubbio, è generata da una novità o da un ritorno. Venire alla luce, forse da un'ombra. Un’apparizione può plasmare non solo il tempo ma anche lo spazio. Distorcere l’immaginazione». Qualcuno sarebbe stato capace di immaginare una partita giocata nella nebbia, un gol segnato con la deviazione di un oggetto, parato da un cane?
E quando l’immaginazione si deforma, si allarga per fare spazio a qualcosa di nuovo, quel qualcosa la abiterà per sempre. Per questo tra i momenti che ricordo con maggiore intensità – e che ricorderò anche tra 40 anni, anzi tanto vale che mi segno le date e ne inizio a celebrare gli anniversari – ci sono fatti marginali, dettagli che però non si comportano da minuzie, che nella mia memoria si sono allargati come una goccia di inchiostro che cade su un foglio bagnato. Il 18 ottobre 2013 il Bayer Leverkusen stava vincendo 1-0 contro l’Hoffenheim, a Sinsheim, quando Stefan Kiessling ha colpito di testa un cross da angolo, indirizzando la palla sul primo palo, sull’esterno della rete. Per una coincidenza irreplicabile, però, la palla si infila in un buco nella rete, con un effetto talmente naturale che tutti i giocatori dell’Hoffenheim, compreso il portiere – e non capisco davvero come sia possibile che almeno lui non si sia accorto che la palla era uscita – pensavano fosse gol. L’unico consapevole sembrava Kiessling, che dopo il tiro si era portato le mani in testa dal dispiacere ma, dopo aver visto la palla in rete, ha esultato timidamente, anche se dopo la partita si è scusato dicendo di non aver visto bene. I gol di questo tipo vengono chiamati “fantasma” ma qui sembra davvero che ci sia qualcosa di soprannaturale in atto, o quanto meno un gioco di prestigio, un effetto ottico.
Ne citerò altri due, collegati dalla comune presenza di insetti, bestiole piccole e insignificanti, a cui non dovremmo neanche fare caso. Brasile-Colombia, giocata il 4 luglio 2014 a Fortaleza, non la ricordo per la vittoria della squadra di casa che ha preannunciato il Mineirazo di quattro giorni, ma per l’incontro tra James Rodriguez, dopo che ha segnato il suo sesto gol del Mondiale, e un enorme cavalletta - oppure se preferite, una locusta (che io sappia nessuno ha specificato di che sottogenere di celifero si trattasse). Ancora oggi con una breve ricerca si trovano articoli in cui l’episodio viene definito «davvero incredibile» e il commentatore inglese, in diretta, non ha potuto trattenersi dal dire: «look at the size of that beast». James Rodriguez con si accorge della presenza aliena sul suo braccio e anzi sembra stia per baciarla, quando in realtà bacia un tatuaggio posizionato non lontano sull’avambraccio – Salomé, scritto in corsivo, il nome di una principessa che compare nella Bibbia e della figlia di James.
Alla fine di quella partita Rihanna ha scritto un messaggio carino a James su Twitter, che era annunciato a una grande carriera, forse migliore di quello che poi è stato, ma dopo sei anni sono questi i dettagli, i particolari di poco conto di quella presenza verde sul suo braccio. Gli antichi Egizi hanno ricevuto la visita delle locuste come punizione per la schiavitù degli ebrei, questa singola piccola piaga serviva forse per avvertirci di qualche nostro errore? Durante quel Mondiale ci sono stati altre incursioni di cavallette giganti e pare che le migrazioni delle locuste sono legate all’emergenza climatica (quest’anno in Kenya è stata avvistato uno sciame lungo 60 km e largo 40 km).
Due anni dopo, il 10 luglio 2016, a Parigi, Portogallo e Francia si affrontano per la finale dell’Europeo e già durante il riscaldamento delle due squadre le telecamere mostrano sciami di falene – un altro insetto migratore – nelle luci dei fari. Fabrizio Gabrielli, nel suo libro dedicato a Cristiano Ronaldo, scrive: «Lo Stade de France è invaso dalle falene: si alzano a sciami, ti puntano – le falene sono attratte dalla luce -, ti si posano sulle maniche, sul collo, tra i capelli. Ne allontani qualcuna con un gesto. Plinio il Vecchio le chiamava Papilio feralis, le farfalle portatrici di morte. Linneo, a conferma, le ha battezzate Acherontia atropos. Da Atropo, una delle tre parche, Atropo l’immutabile, l’inevitabile, che recide il filo della vita». E quando Cristiano Ronaldo si infortuna e si siede a terra come un bambino capriccioso, solo con l’aria profondamente affranta che non hanno mai i bambini capricciosa, una falena – forse in rappresentanza di quel popolo notturno – gli si posa sul sopracciglio.
A una parte di me non interessa il resto di quella partita. La Francia deludente di Deschamps (futura campione del Mondo), Ronaldo a bordo campo, il gol di Eder nel recupero. Quella è la finale delle falene, e Cristiano Ronaldo il re delle falene, in contatto con qualcosa di misterioso, insondabile, incomprensibile, lui che è tutto superficie, tutto immediatamente presente e disponibile. Ogni partita è piena di giocate interessanti, si vedono in continuazione giocatori eccezionali tecnicamente, fisicamente, mentalmente e il livello di organizzazione collettiva forse non è mai stato alto come negli ultimi anni. Ma sono momenti di questo tipo a rendere veramente indimenticabile una partita per me, quelli che interrompono il flusso, lo scorrere del tempo scandito dalle partite di calcio, dai Palloni d’Oro, dalle Champions, dagli Europei e dai Mondiali.