Quando incontro Elisa Bartoli ha appena finito di allenarsi da sola in palestra ma il suo corpo non tradisce il minimo segno di fatica. Non è stravolta o affaticata come una persona normale, non ha l’aria stanca. Sembra un’atleta, ecco cosa sembra. Perché è quello che è: Elisa Bartoli è un’atleta. Anche se, per ragioni indipendenti da lei, non professionista.
Per Elisa Bartoli e le altre calciatrici è stato già difficile farsi riconoscere e accettare come persone che per guadagnarsi da vivere giocano a calcio. Ancora di recente, in diverse interviste, Bartoli ha detto di non sentirsi “una calciatrice”. Un paradosso che riaffiora sempre quando si parla di calcio femminile: «Ho dedicato tutta la mia vita al calcio, anche se non è mai stato inteso in questo modo dalle società in cui ho giocato e dalla gente. Perché alla fine ho cominciato a guadagnare, tra virgolette, e a stare tranquilla, da tre anni. In vent'anni di pallone».
Essere una calciatrice
Un impegno che per lei è iniziato prestissimo, giocando a pallone nel cortile di casa dei nonni: «Dentro un cerchio. La “rotonda”, la chiamavamo»; per poi continuare sui campi di pozzolana della Nuova Milva, la squadra del quartiere (a Roma nord). Una storia simile a quella di tantissimi altri calciatori, ma che è ovviamente diversa: «Ad un allenamento per fare la partitella mancava un giocatore, e mio cugino è andato dal mister a dire “mia cugina è brava, facciamo giocare lei”».
È stato il primo test di una vita passata a dover convincere i maschi del suo valore: quel giorno l’allenatore Alberto («che ancora sento») decide di tenerla con loro e farla diventare un’eccezione in uno sport che allora era totalmente maschile. È in quel momento che Elisa Bartoli diventa una calciatrice, si prende l’impegno di esserlo. Forse inconsapevolmente, sfida le contraddizioni di uno sport che in quegli anni (inizio 2000) ancora non vedeva le ragazze di buon occhio.
Bartoli giocava il sabato e la domenica - con i pari età e con quelli più grandi - e aveva un buon rapporto con i compagni, tanto da diventare il capitano della sua squadra. Quando a quindici anni è andata via, per entrare in una squadra femminile, direttamente in Serie B, l’hanno omaggiata con uno striscione: “In bocca a lupo indomabile capitano”.
Avendo frequentato anche io una delle migliaia di realtà del calcio giovanile romano, questo argomento mi interessa, so quanto poteva essere difficile per una ragazza adolescente: «Le prese in giro c'erano, però mi facevo forza perché la mia squadra credeva in me, poi nel momento in cui entravi e non gli facevi toccare palla eri tu a prenderli in giro».
Anche i commenti dei genitori, l’assenza di uno spogliatoio da condividere, sono tutte difficoltà che Bartoli ritiene fondamentali per la sua crescita: «Sono rimasta ferma su ciò che amavo, ciò che volevo fare, decisa per la mia strada, anche andando un po' contro tutto e tutti, o altrimenti non sarei andata avanti».
Oggi il calcio femminile si è sviluppato fino ad avere dei settori giovanili dedicati (dopo il Mondiale è stimato sia salita del 40% la richiesta di iscrizioni), ma lei non rimpiange l’aver giocato fino a 15 anni con i maschi: «A livello caratteriale e fisico, io credo di essere diventata quella che sono grazie al maschile, perché lì la palla o te la guadagni o nessuno te la passa».
Dai centri commerciali al professionismo
Nel 2006 Elisa Bartoli arriva alla Roma CF, in Serie B, ma la squadra è costruita per salire di categoria e infatti in due anni arriva in Serie A, dove il calcio femminile romano mancava da tanto. Aveva appena 17 anni.
Le chiedo cosa voleva dire essere una calciatrice di Serie A in quei giorni, come le rispondevano quando diceva di essere una calciatrice: «Qualcuno ti chiedeva: “Ma a 11? Ma le porte sono uguali a quelle del maschile?”. Tutte queste domande un po' ridicole che tu dici: Per chi mi hai preso? Non ho capito perché secondo qualcuno non possiamo giocare nel campo regolamentare...». Anche il seguito era scarso: «In tribuna vedevi i genitori, le amiche, i parenti. Non era per niente seguito, non c'era nulla».
L’aspetto più difficile, ovviamente, era quello economico: «Non ci vivevi con il calcio. Molte lavoravano e giocavano a calcio la sera, quindi magari passavi una giornata a lavoro, staccavi, ti allenavi e tornavi a casa a mezzanotte».
Nel 2012 la Roma CF fallisce, ripartendo dalla Serie C. Bartoli a 21 anni, è nel giro della Nazionale maggiore, e deve prendere la prima decisione importante della propria carriera: «O scendere in Serie C, o lasciare del tutto». Invece arriva una chiamata dalla Sardegna, dalla Torres, che in quel momento era la squadra più titolata nel calcio femminile.
«Ho preso le valigie sono andata in Sardegna. La prima notte è stata difficilissima, una romana che va via non è mai facile, ho pianto tutta la notte. Però mi ha fatto fare il salto di qualità, mi ha fatto crescere a livello mentale e personale». In tre anni con la Torres vince uno Scudetto e due Supercoppe, eppure dai suoi racconti si capisce che anche al massimo livello italiano c’erano parecchie difficoltà.
«Le trasferte le facevamo il giorno stesso: ci alzavamo alle 4 di mattina, prendevamo l'aereo delle 6, arrivavamo a Bergamo con Ryanair alle 7 di mattina, per dire, perché quasi tutte le squadre stavano al Nord. Poi andavamo al centro commerciale per due ore, per passare il tempo, pranzavamo, giocavamo, vincevamo, nonostante ci eravamo svegliate alle 4 del mattino, e tornavamo la sera alle 22».
Elisa Bartoli in Champions League contro l'Arsenal ai tempi della Torres (foto di David Price/Arsenal FC via Getty Images).
Scrivendo questa intervista mi casca l’occhio sulla classifica marcatori della Serie A di quegli anni: ci sono Bonansea, Girelli, Sabatino, Guagni e Giacinti, tutti nomi che oggi hanno portato il calcio femminile italiano al suo miglior risultato di sempre, ma che devono aver vissuto le stesse difficoltà economiche, logistiche e sportive e che come Bartoli non si sono arrese.
Questi sono gli anni della “passione”, termine che ripete spesso: «Pensa quanta passione c'era», dice mentre mi racconta che questa era la sua vita «una settimana sì e una settimana no». Ne parla come se fosse un evento lontanissimo nel tempo, come se non avesse solo 28 anni: «Oggi non ci riuscirei. Neanche ad allenarmi la sera, non so se ci riuscirei».
C’è poi il discorso dei compensi: Bartoli con la Torres aveva un contratto, «ma in tre anni sono stata pagata un solo anno». Lei può permettersi di continuare a giocare grazie alla famiglia che la sostiene e ai guadagni che arrivano dalle convocazioni con la Nazionale.
Il discorso arriva naturalmente allo stato giuridico delle calciatrici, che non è cambiato rispetto a quei giorni. Ma quando le chiedo se essere considerate come “professioniste” cambierebbe qualcosa Bartoli fa un discorso più ampio, su cosa significa essere un’atleta: «Da fuori si può pensare che vai lì, ti fai due ore di allenamento e poi vai a casa. Ma è più complesso: devi mangiare bene, devi avere una vita sana, devi andare a dormire ad una certa ora. Il tuo lavoro non finisce con le ore di allenamento. Il tuo lavoro è tutto il giorno, tutti i giorni: il tuo corpo deve riposare, deve mangiare bene, deve essere pronto all'allenamento, alle doppie, a viaggiare».
Siamo abituati a pensare che queste cose siano tutte naturali nello sport, che sia il talento a fare l’atleta, ma non è così: il lavoro, le strutture, i soldi, sono tutti strumenti necessari per far progredire il livello delle calciatrici, ma che fino a qualche anno fa erano totalmente assenti: «Non è stato così semplice portare il movimento a questo punto. La gente dice che inizialmente il livello era basso. Ti credo: metti le giocatrici ad allenarsi e basta… immagina di alzarti alle 6 del mattino, di allenarti la sera e tornare a casa a mezzanotte, non è una vita sana, come fai ad alzare il livello? Non puoi, non ti è permesso».
Oggi ci sono più soldi nel femminile rispetto al passato, anche grazie a una maggiore copertura mediatica e un interesse degli sponsor (Nike sta investendo su diverse atlete, tra cui Elisa Bartoli). Le chiedo se in Italia si potrebbe fare un discorso culturale come quello dell’equal pay portato avanti dalla Nazionale femminile degli Stati Uniti (che vince di più e guadagna di più di quella maschile): «Bisogna prima parlare di investimenti, far crescere tutti, far crescere la visibilità, portare ancora più persone allo stadio a vedere il femminile».
Il dato di fatto è che non tutte le squadre in Italia sono pronte. Proprio quest’estate, dopo il successo del Mondiale, la Serie A ha perso una delle sue squadre - l’ASF Mozzanica, affiliata con l’Atalanta, che è fallita. Le società maggiori devono fare da traino al resto del campionato, che è ancora indietro e che ha bisogno di tempo. Per Bartoli il primo passo da compiere è «far sì che tutte le giocatrici di Serie A e B possano vivere di questo, dedicarsi solo a questo».
Capitana della Roma in Nazionale
Se possiamo parlare di questi argomenti in maniera ottimista, è perché negli ultimi anni alcune società hanno deciso di puntare sul calcio femminile. Tra queste una delle più convinte è proprio la squadra di cui Bartoli è capitana, la Roma. Le chiedo quindi cosa voglia dire vivere da dentro questa piccola rivoluzione, su cui lei ha puntato in maniera anche un po’ avventata decidendo di lasciare la Fiorentina - una delle società più stabili - per sposare il nascente progetto della As Roma Femminile, che in quel momento (2018) era solo in nuce.
«Sono entrati decisi. Ho visto la volontà di credere nel femminile, la volontà di puntarci. Voglio fare un importante passo e voglio in questo modo aiutare il movimento». Una scelta ancora più coraggiosa se si pensa che l’anno dopo ci sarebbe stato il Mondiale, che alla fine ha pagato: dopo una buona prima stagione, il mercato dell’estate 2019 ha messo la Roma tra le squadre equipaggiate per vincere il campionato, insieme a Juventus, Fiorentina e Milan.
«Vincere non è facile. Per vincere bisogna avere tante cose. Il calciomercato è stato buono, però bisogna avere tempo di trovare un equilibrio, di amalgamarci, di conoscerci. Avere tempo di crescere insieme, magari di avere quell'anno positivo, perché si tratta anche di avere positività durante il percorso».
La Roma ha perso male la prima partita, 3-0 con il Milan, per poi riscattarsi alla seconda, con Bartoli in campo, battendo 2-0 fuori casa la Fiorentina. È presto però per sapere se la Roma potrà davvero competere per il primo posto, così come è presto per capire quanto è cresciuto l’interesse per il calcio femminile.
La cosa certa è che quest’estate il Mondiale ha sorpreso molte persone. Provo a spiegarle come per molti di noi (con noi probabilmente intendo maschi), vedere il livello di alcune Nazionali è stato uno schock culturale, non pensavamo il calcio femminile potesse avere una qualità così alta. Adesso mi sembra assurdo che qualcuno pensi ancora che le donne non possono giocare a calcio, o che non meritino attenzioni (a tal proposito le cito alcuni commenti arrivati sulla pagina Facebook de l’Ultimo Uomo sotto alla guida alla Serie A femminile).
«Se uno viene a vedere una partita del femminile pretendendo di vedere il maschile, forse farebbe meglio ad andare a vedere il maschile. Noi a differenza del maschile trasmettiamo il cuore, la voglia, la passione, il sacrificio, la voglia di andare su ogni pallone, di non mollare un centimetro».
Anche a livello tattico il calcio femminile è molto più avanti di quanto molti siano disposti ad ammettere. La Roma e la Nazionale di Milena Bertolini hanno un approccio tattico propositivo, piuttosto moderno. Chiedo a Bartoli cosa cambia nella sua interpretazione del ruolo di terzino tra club e Nazionale: «I principi di gioco sono più o meno gli stessi: una pressione alta, aggressiva, poi magari con alcune squadre riesci a farlo meno, anche in base alla qualità dell'avversario che incontri».
Ci si aspettava che l’Italia uscisse ai giorni, e invece quello francese è stato un Mondiale entusiasmante e il quarto di finale è stato un risultato inimmaginabile alla vigilia: «Al Mondiale abbiamo incontrato Australia, Brasile, Olanda che sono squadre che stanno un pochino più avanti di noi, perché hanno iniziato prima a fare questo tipo di discorso, anche a livello fisico. Ma noi italiane a livello tattico siamo riuscite a rubargli qualcosa, fare meglio alcune cose».
Mi cita l’esempio della partita con l’Australia, la prima del girone, contro una delle squadre favorite alla vittoria finale: «Contro l’Australia abbiamo impostato un gioco dove facevi un po' di palleggio e poi mettevi questa palla dietro la linea della difesa, perché era molto alta, e neanche ben messa».
L’Italia è finita 8 volte in fuorigioco in quella partita, ma ha vinto in rimonta con un gol nei minuti di recupero: la partita perfetta per far appassionare il Paese alla squadra di Bertolini. Quel giorno Elisa Bartoli è partita dalla panchina, dopo essere stata quasi sempre titolare durante i due anni precedenti: «Un po' me l'aspettavo la panchina, perché nell'ultima amichevole aveva fatto la stessa identica formazione. Non ci rimani benissimo... L'anno del Mondiale mi sono allenata per arrivare prontissima. Il Mondiale è proprio il sogno, no? Dovevo arrivare pronta, fisicamente perfetta su tutto, quindi mi ero preparata per un anno intero. È stata scelta tosta da digerire. Non è facile, il colpo l'ho preso, l'ho incassato. Però bisognava reagire, bisognava sostenere la squadra».
Contro l’Australia, Elisa Bartoli è entrata nel secondo tempo, con la squadra sotto 1-0. Bertolini ha cambiato modulo e lei si trova a giocare a sinistra nel 4-4-2. Dopo quella partita, Bartoli è tornata titolare: «Mi sono detta: "Se mi fa entrare me lo mangio il campo". Non mi interessava perché, era così che doveva andare. Poi mi ha fatta entrare, e io mi sono mangiata il campo».
Elisa Bartoli durante la partita contro l'Australia (foto di TF-Images/Getty Images).
Si dice che il Mondiale francese abbia cambiato la percezione del calcio femminile, almeno in Italia, tuttavia mi sembra più corretto dire che il Mondiale ha mostrato quanto esista già un seguito, anche se magari meno rumoroso. Le chiedo cosa avesse significato per loro giocare in quegli stadi, davanti a tutta quella gente: «Eravamo talmente prese da tutto ciò che neanche ti rendevi conto cosa succedeva al di fuori. Eravamo in una bolla: il pubblico, i colori, il tifo, non lo aspettavo è stato bello».
Nell’ultima partita, nei quarti finale contro l’Olanda, Bertolini ha mostrato ancora una volta un’attenzione tattica notevole, cambiando modulo e la posizione di Bartoli, spostata a destra nella zona di Lieke Martens. Lei non nasconde un po’ di rammarico per come è andata a finire (0-2): «Nel secondo tempo siamo un po' crollate, è andata così… magari con l'Olanda abbiamo sbagliato ad aspettarle troppo, forse abbiamo faticato il primo tempo per rincorrerle. Non lo so, queste sono valutazioni che uno poi fa».
E ora?
Elisa Bartoli è abituata a spostare l’obiettivo sempre un po’ più avanti: dal cortile alla Nuova Milva; dai pioneristici inizi con la Roma FC alla fascia di capitano della AS Roma femminile; dalla Serie A al Mondiale. In tutto ciò, avendo letto molto su di lei, mi sembra ci sia un errore di fondo sul giudizio sulla calciatrice Elisa Bartoli. Viene sempre descritta come “generosa”, “guerriera” (i suoi soprannomi sono il gladiatore e Gattuso).
Trovo invece che interpreti il ruolo di terzino in maniera molto moderna, entrando dentro al campo, prendendosi dei rischi nei passaggi e soprattutto con una grande fiducia nel proprio dribbling.
«Io amavo Cafù, ero innamorata di Cafù, quindi in fatto di sombreri e di dribbling... mi piace l'idea del terzino che si sovrappone, che è tecnico, che entra in mezzo al campo, che non da punti di riferimento, che non sta solo all'esterno. Amo il palleggio, le triangolazioni. Poi è normale che sia aggressiva, che entri in scivolata e tutto».
Oltretutto è una destra che gioca a sinistra, un sinistro a piede invertito come se ne vedono pochi anche nel calcio maschile di primissimo livello. Le chiedo come è successo, perché non giochi a destra? «Perché ero l'unica che si sapeva adattare in tutti i ruoli difensivi. Mi metti a sinistra o a destra è la stessa cosa. Di mancine ce ne erano pochi in Italia, quindi capitava che dovevi adattare un destro a sinistra».
Persino la sua posizione in campo viene dalla mancanza di risorse del calcio femminile, da una realtà quasi carbonara dove non c’erano abbastanza giocatrici mancine. «Fondamentalmente entro in mezzo al campo perché di sinistro faccio ridere. Se tanto punto il fondo con il sinistro, rientro con il destro».
Il bel gol segnato da Elisa Bartoli nella recente partita di qualificazione agli Europei contro Israele.
Questo sarà il dodicesimo campionato di Serie A per Bartoli (si stupisce quando glielo faccio notare) che ormai è pienamente cosciente dei suoi limiti e soprattutto delle sue qualità. Bartoli e il calcio femminile italiano vanno avanti insieme, e per tutti e due la stagione che è appena cominciata è forse la più importante di sempre. Sia con la Nazionale - dove devono guadagnarsi l’Europeo in un girone con la Danimarca - sia, come detto, con la Roma.
Le chiedo, un po’ banalmente, che peso ha, da romana, indossare la fascia da capitana della Roma: «Penso più a come potrei gestire meglio le cose con la squadra, con lo staff, a cercare di aiutare il più possibile, di equilibrare le cose. Di essere un buon capitano per la società e le ragazze, non penso a quello che c’è fuori, ad essere sincera».
Quando mi parla delle persone che la fermano o le scrivono sui social mostra per la prima volta qualche segno di timidezza, come se fosse l’unico risultato dei suoi sacrifici che ha ancora difficoltà a gestire: «Ho sempre preferito lavorare nell'ombra, è stato mettere in gioco un po' me stessa».
In tutta l’intervista Bartoli è stata molto attenta a rimanere concentrata sul messaggio che vuole far passare, sull’importanza del lavoro fatto e su quanto ancora bisogna fare per dare una stabilità al movimento. Il suo io è quasi totalmente diluito nel grande noi che il calcio femminile sta mettendo in mostra, che è un po’ la sua forza oggi.
Forse per questo le sue parole suonano più autentiche di quelle che escono dalla bocca dei suoi colleghi maschi, si sente il vissuto che c’è dietro. «Se una ragazzina ti scrive da grande voglio diventare come te, ti esce un sorriso, perché è bello sapere che puoi essere un esempio per le bambine che crescono, per tante persone che si ritrovano in noi, questo ti da una spinta per essere una persona migliore».