Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Quanto conta l'aerodinamica nel ciclismo
18 lug 2019
Intervista a Bert Blocken, professore belga che collabora con il mondo del ciclismo per sfruttare la più intangibile delle variabili: l'aria.
(articolo)
24 min
Dark mode
(ON)

L’aerodinamica è la branca della fluidodinamica che studia l’interazione fra l’aria, o in generale qualsiasi gas, e i corpi solidi. Come si può facilmente immaginare, lo studio di questa disciplina è di fondamentale importanza nel ciclismo, soprattutto quello moderno, dove anche il minimo guadagno di tempo e il risparmio di energia possono fare la differenza fra una gara fallimentare e la gloria.

Un corpo immerso in un flusso d’aria, come un ciclista che pedala o un ciclista posizionato su una pedana investito da un getto d’aria in una galleria del vento, modifica la velocità dell’aria nelle sue vicinanze creando quella che impropriamente viene chiamata “scia”. Dico impropriamente perché un ciclista, o una macchina, o una motocicletta, non modifica solo il il flusso dell’aria dietro di sé, ma anche davanti e ai suoi lati. È proprio la differenza di pressione fra il davanti e il dietro del ciclista a generare la resistenza dell’aria (o forza di drag).

L’aerodinamica nel ciclismo studia come modificare queste scie, e quali modifiche danno più vantaggi riducendo il drag. Fino a pochi anni fa quasi tutti gli studi si focalizzavano sul singolo ciclista: qual è la posizione migliore? Quali modifiche si possono fare al telaio, ai vestiti, al casco, al manubrio, alle ruote, addirittura ai raggi, affinché la resistenza sia minima?

Più recentemente, però, gli studi hanno iniziato a cercare di capire anche come interagiscono le scie generate da piú elementi. Quali configurazioni usare durante uno sprint o un team time trial? Quale posizione nel gruppo ti permette di risparmiare più energie? Quanto influisce la presenza di un macchina davanti - oppure, spoiler alert, ai lati e dietro - a un ciclista?

Bert Blocken, professore belga di ingegneria civile alla Technische Universiteit di Eindhoven (da ora TU/e) che si occupa di "Urban physics, Wind engineering & Sports aerodynamic", ha dedicato tutta la sua vita professionale a rispondere a queste domande. «Lo praticavo, da giovane», mi dice Blocken parlando ovviamente del ciclismo prima di lasciarsi andare a un sorriso, quando lo incontro a Eindhoven per l’intervista.

Ci vediamo alla Galleria del Vento di Eindhoven, all’apparenza un incrocio tra un magazzino ortofrutticolo e un enorme mattoncino della Lego. Dentro, invece, sembra una di quelle fabbriche che si vedono nei film americani, con l'ufficio del capo in cima a una piccola scalinata di metallo a sovrastare lo spazio sottostante. La galleria in sé è molto più piccola dell'edificio, perché la maggior parte dello spazio è occupata dalle ventole e dell'enorme tubo che da un lato spara il vento e dall'altro lo scarica e lo rimanda nelle ventole. La forma è quella di un velodromo, per intenderci, di cui la galleria vera e propria costituisce il solo rettilineo del traguardo: tutto il resto sono tubi, ventole e turbine.

L’importanza del rapporto tra ciclista e bicicletta

Blocken lavora con molti ciclisti professionisti, anche di altissimo livello, come per esempio Primoz Roglic, terzo all’ultimo Giro d’Italia. «Ci siamo già incontrati più volte, l'anno scorso e quest'anno», mi dice «E ora che non è qui lavoriamo con un suo modello 3D».

Usano spesso dei modelli 3D fatti su misura di alcuni ciclisti. Mentre parliamo, nella galleria è il turno di un modellino a grandezza naturale di Thibaut Pinot. Anche la faccia è uguale a quella del ciclista francese. «Spesso, quando facciamo i test, dopo tre ore il ciclista è stanco, perché devi stare per ore fermo nel tunnel, uscire, cambiarti, rientrare nel tunnel. Perciò, dopo tre ore di test, spesso mi dicono "Basta, I'm done"».

Anche mantenere la stessa posizione per ore è faticoso per un ciclista. I modelli, invece, sono molto più pratici. «Io faccio uno scan del ciclista su cui devo fare i test, stampo il modello con la stampante 3D e poi lo sistemo con il laser. I modelli sono delle cavie molto pazienti».

Nella galleria quindi si lavora spesso con dei modelli 3D, anche se questo compromesso comporta delle limitazioni: «Una delle cose più importanti è che quando fai dei test usi quello che si chiama “Reynolds number independence” che significa, detto semplicemente, che se hai un modello quattro volte più piccolo della grandezza reale, quando fai i test nella galleria del vento devi avere una velocità del vento quattro volte maggiore se vuoi replicare gli stessi fenomeni aerodinamici».

«Ad esempio: quando abbiamo fatto i test su questo modellino a Liegi, in Belgio, per simulare la velocità di 54 km/h abbiamo dovuto impostare la galleria del vento a 216 km/h per avere la stessa fisica», mi dice consapevole della complessità dell’argomento, prendendo in mano un piccolo modellino di un handbiker irlandese.

Ma i problemi non finiscono qui. «Le ruote non girano, le gambe non si muovono, quindi ci sono sempre delle piccole limitazioni. Lavorare su un modello può darti delle prime indicazioni che non sono mai perfettamente realistiche. Quindi quello che stiamo facendo ora con il Team Jumbo-Visma è raccogliere dati in situazioni di corsa reali (come la Milano-Sanremo e il Giro delle Fiandre) e confrontarli con i dati forniti dai test sui modelli per avere una migliore visione d'insieme».

La Jumbo-Visma è la squadra che maggiormente collabora con Bert Blocken, non foss'altro per una vicinanza geografica. Una collaborazione profonda, nata già qualche anno fa agli albori del nuovo team olandese e che si è sviluppata nel corso degli anni. «Siamo solo una piccola parte del puzzle ma alla fine ogni piccolo tassello conta». Soprattutto quando si tratta di un nuovo team, che ha bisogno di nuove strutture, nuovi sponsor e nuove idee. «Dovevano trovare la loro strada», e la galleria del vento è stata uno dei primi passi per crescere e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: Roglic è probabilmente uno dei migliori cronoman in circolazione, Van Aert ha scoperto recentemente di poter competere con i principali specialisti. Anche nelle cronosquadre hanno avuto una crescita considerevole, che ha avuto il suo apice nella straordinaria vittoria di pochi giorni fa al Tour de France.

«È una cosa che richiede molto tempo, anche solo per far entrare in testa ai ciclisti quello che devono fare, quello che i team manager chiedono loro di fare. Ma quando il ciclista si accorge che a furia di ripetere quei gesti ottiene dei benefici, allora i miglioramenti sono sempre più rapidi. All'inizio i ciclisti erano molto scettici sul venire qui nella galleria del vento, ma quando hanno cominciato a vedere che questo tipo di test funzionavano davvero è cambiato tutto. Ora sono i ciclisti stessi che chiedono di venire qui mentre prima erano le squadre che li obbligavano».

Oltre che sui ciclisti, una grande parte del lavoro viene fatta anche sulle biciclette, in collaborazione con le case di produzione. «Lavoriamo con la marca di bici della Groupama-Fdj (Lapierre, nda)», soprattutto con simulazioni al computer mirate a rendere sempre più performanti le biciclette. È un ambito in cui anche i più piccoli interventi riescono a dare un grande miglioramento, ma anche in questo caso i problemi non mancano: «Con le simulazioni riusciamo a rendere le biciclette più veloci anche del 5%, ma quando ci metti sopra il ciclista questo guadagno diventa molto minore perché questi ha una grande influenza nella resistenza totale anche a causa dell’interazione fra il ciclista e la bicicletta. A volte le case di produzione sono entusiaste dei nostri risultati perché vedono che le biciclette diventano molto più veloci delle altre ma, appunto, quando le provi con i ciclisti sopra questo guadagno diventa molto meno evidente» e per questo è fondamentale lavorare sulla posizione dei corridori in sella.

L’esempio principe riguarda le vecchie bici per il record dell’ora come quella usata da Chris Boardman per il record dell’ora nel 1996.

La bici speciale usata da Chris Boardman nel 1996 per il record dell’ora.

Sono bici monotubo e quindi molto performanti a livello aerodinamico. «Queste biciclette senza tubi, con un blocco unico e considerando solamente la bicicletta, hanno il 30% in meno di resistenza all’aria (rispetto alle biciclette attualmente consentite dal regolamento Uci, ndr)». Solo la bicicletta, perché poi bisogna aggiungere la parte fondamentale: il ciclista, che da solo comporta circa il 60-70% della resistenza aerodinamica totale. «Ripetendo il test con il ciclista in sella scopri che questa percentuale scende al 6%» non foss’altro perché il corpo umano rappresenta in questo caso la superficie più ampia e quindi il fattore maggiore che contribuisce alla resistenza all’aria del blocco bici-ciclista.

«A volte, quando le provavano nella galleria del vento con il ciclista in sella, scoprivano che l’attrito era addirittura maggiore rispetto a una bici normale. Questo soprattutto a causa del modo in cui il corpo interagisce con la bicicletta, quindi per questo tipo di biciclette (che non sono più ammesse dall’Uci) devi avere una posizione speciale per ottenere i benefici aerodinamici voluti. Altrimenti rischi di perdere molto, anche rispetto alle biciclette normali».

L’interazione fra l’uomo e la bicicletta diventa in questo caso l’elemento fondamentale. Il rapporto fra l’essere umano e il mezzo meccanico non è solo il romantico spingersi oltre le proprie possibilità biologiche ma anche una continua sfida aerodinamica alla ricerca della posizione migliore e, viceversa, della bicicletta che riesca maggiormente a esaltare le capacità umane. Un po’ come con le bacchette in Harry Potter, è la bici a scegliere il ciclista ed è il ciclista a dover adeguare la sua posizione alla bici. E la grandezza di Boardman (che stabilì quella che oggi con i nuovi regolamenti viene chiamata “Miglior prestazione umana sull’ora” nel 1996 coprendo la distanza di 56,375 chilometri) sta anche nel suo essersi reso conto di questa relazione, adeguandosi alla posizione richiesta dalla sua particolare bicicletta.

Ci sono anche differenze nei vari materiali, ovviamente: la pelle umana è diversa dalla superficie di un modellino ed entrambe sono diverse rispetto al tessuto di una maglietta. È principalmente una questione di ruvidità, soprattutto nelle divise da cronometro: «Ci sono alcune divise da cronometro che sono molto lisce dappertutto, ma non è davvero la scelta migliore. Altre invece sono lisce ovunque tranne sulle spalle e sulle braccia dove avviene la separazione del flusso e questo dà un grande vantaggio. Abbiamo fatto dei test su questa cosa in passato e a volte il guadagno arrivava anche a una diminuzione della resistenza all’aria del 4-5%, ed è una cosa enorme. C’è una grande differenza fra la divisa standard, perfettamente liscia, e una con delle parti ruvide nei punti giusti».

Nell’immagine la resistenza aerodinamica delle varie parti del corpo in percentuale in base alla posizione assunta dal ciclista a 60 km/h: nella posizione da cronometro la parte principale è la testa, seguita dalle varie porzioni di gambe. Nella posizione tradizionale (upright) la schiena (back) assume un’importanza molto più rilevante come anche le braccia.

Ma queste modifiche sono legali? Possibile che l’UCI non si sia mai accorta di nulla? Anche qui la risposta non è così scontata. «L’UCI lo consente solo se la parte ruvida è integrata nel modello alla fabbricazione, ovvero se è necessaria e senza quella parte rimarresti con una zona nuda». Ma, come spesso accade con le regole Uci, è facile riuscire ad aggirarla: «Se incolli la parte ruvida sulla divisa, allora non è legale. Però puoi sempre dire “eh, ma se ora tolgo questo pezzo mi viene via tutta la manica”» e si torna al punto principale sul fatto di rimanere con zone del corpo scoperte. E infatti nel 2017 scoppiò la polemica al Tour de France con il vortex suit del Team Sky.

«Avevano delle bolle sulle maniche e ci fu una grossa polemica in cui ci si chiedeva se questa modifica fosse consentita dal regolamento. Con la divisa bianca e con la pioggia si vedevano chiaramente le parti aggiunte. Io penso che lo fecero apposta, solo per mostrare a tutti che loro potevano fare tutto ciò che volevano». Alla fine la polemica si spense con l’intervento dell’UCI che cercò di spiegare meglio la regola, soprattutto nella parte in cui si parla del tessuto che non può essere aggiunto ma deve essere integrato nella fabbricazione, anche se a volte non cambia poi molto tra le due cose e in ogni caso non sembra un principio così solido.

Non ci sono solo le biciclette

Ma il lavoro principale di Bert Blocken in questi ultimi anni riguarda i mezzi al seguito della corsa e in particolare l’influenza aerodinamica delle moto sui corridori. «Stiamo facendo molte simulazioni sulla distanza entro la quale le moto davanti ai ciclisti hanno un effetto aerodinamico sulla resistenza all’aria. Quello che posso dirvi è che ancora a 50 metri c’è un grande effetto. Abbiamo provato a 100 metri e c’è ancora un piccolo effetto e quindi vogliamo capire a che distanza questa cosa si ferma».

A questo punto prende un bicchierino di carta di quelli da caffè e una paletta di legno per girare lo zucchero e li posizione sul tavolo: il bicchiere è la moto, la paletta il ciclista. «È chiaro che nella realtà se il ciclista e la moto si posizionano così (uno davanti all’altro in linea retta, nda) con il ciclista in scia e c’è vento laterale, l’effetto sarà molto minore in base alla distanza», e sicuramente più aumentano il vento e la distanza e minore sarà l’effetto della moto sul ciclista. Il problema però è che nelle corse reali non c’è solo una moto davanti al gruppo ma «ce ne sono spesso due o tre o anche di più, e poi ci sono le macchine e questo rende l’effetto molto più grande di quel che abbiamo già scoperto qui. E se sei veramente vicino alla motocicletta hai meno della metà della tua normale resistenza all’aria e l’effetto quindi è veramente enorme».

Nel dire queste cose continua a muovere le sue pedine sul tavolo, aggiunge altri bicchieri che simulano altre moto e le macchine come in una normale situazione di corsa. Ci mostra come in una strada stretta per i ciclisti sia molto facile seguire la scia delle moto davanti e in quei casi l’effetto, anche con le moto molto distanti, è enorme. La paletta segue i bicchieri schierati davanti a sé, coprendosi facilmente dall’aria. Se la strada è larga, invece, spesso per i ciclisti è più complicato seguire la scia delle moto e quindi li vediamo spesso zigzagare lungo l’ampiezza della strada e mentre i bicchieri del caffè si muovono da una parte all’altra del tavolo, le palette di legno cercano di seguire i loro movimenti in un faticoso e goffo inseguimento. «In ogni caso ci sono sempre delle turbolenze nell’aria che rendono la realtà molto più complicata di quanto possiamo immaginare, anche rispetto alle nostre simulazioni, ai nostri calcoli, ma l’effetto è comunque molto grande, nonostante tutto».

Sono effetti che si manifestano in tutta la loro forza soprattutto nelle tappe piatte o nelle cronometro. «Sì, ma non solo. Se questo è il gruppo e queste sono le moto», ora le palette dello zucchero sono disposte in linea e i bicchieri sono in formazione allargata davanti al gruppo a coprire tutta la carreggiata, «quando un ciclista attacca si sposta su un lato e va in scia alla moto che sta da quella parte. A quel punto la moto accelera e cerca di allontanarsi, ma in quei momenti il vantaggio che ha il ciclista è enorme». E questo non avviene solo nelle tappe piatte, anzi.

«Non so se vi ricordate, è passato molto tempo, della Liegi-Bastogne-Liegi di Michele Bartoli e Frank Vandenbroucke (il riferimento è alla Liegi del 1999 e all’attacco a due sulla Redoute, nda). Quando loro due accelerano fanno il buco e si ritrovano da soli davanti con le moto vicinissime e a quel punto iniziano ad andare uno accanto all’altro attaccati alle moto davanti. Quindi queste cose succedono spesso, anche in corse collinari che solitamente si corrono su strade strette e senza troppo vento laterale in cui l’effetto delle moto può cambiare davvero tanto».

[@portabletext/react] Unknown block type "imageExternal", specify a component for it in the `components.types` prop

La Liegi del 1999 finirà con Boogerd e Vandenbroucke che attaccano ancora sul Saint-Nicolas dopo un allungo di un giovanissimo Bettini. Il belga poi andrà via da solo a vincere quell’edizione della Doyenne sul traguardo di Ans davanti proprio a Boogerd e all’altro olandese Maarten den Bakker. Quarto Bartoli, quinto Bettini e via via tutti gli altri. Effettivamente, a rivedere quelle immagini, la quantità di moto che girano intorno ai ciclisti è davvero impressionante, a una distanza, fra l’altro, inconcepibile.

Alla fine i risultati precisi di quest’ultima ricerca sull’influenza delle moto davanti ai ciclisti sono usciti a fine giugno e i numeri sono sorprendenti: una moto che viaggia 30 metri davanti a un ciclista, riduce la sua resistenza all’aria del 12% (drag reduction) con un guadagno di 2,6 secondi al minuto. Più avviciniamo moto e ciclista e più questo vantaggio aumenta: con una distanza di 2,5 metri la riduzione di resistenza in percentuale arriva al 48% e il guadagno a 14,1 secondi al minuto. Ma anche a 50 metri di distanza ci sono degli effetti ancora molto visibili (7% di drag reduction e 1,4 secondi al minuto). Tutti questi calcoli sono fatti considerando un ciclista che viaggia a 54 km/h, senza vento, perché il vento può modificare la questione: il vento contrario fa aumentare il guadagno, il vento favorevole lo fa scendere e il vento laterale rende più difficile per un ciclista riuscire a sfruttare la scia delle moto.

Quando vedete le moto stare molto vicine al gruppo o ai fuggitivi, quando sentite qualcuno lamentarsi dell’effetto delle moto sulla gara, insomma, sappiate che effettivamente queste hanno un’influenza enorme sull’esito delle corse.

L’influenza di chi sta dietro

E se l’influenza delle moto davanti ai ciclisti è cosa nota, anche se non nei numeri impressionanti che sono venuti fuori dall’ultima ricerca di Bert Blocken, quella delle moto dietro ai ciclisti è ancora un punto oscuro nel pensiero comune ancor prima che nei regolamenti UCI. Grazie agli studi effettuati nella galleria del vento di Eindhoven si è scoperto che anche le moto o le macchine che seguono un ciclista hanno un grande effetto aerodinamico che, specialmente nelle cronometro individuali, può portare a un notevole vantaggio in termini di secondi guadagnati.

Una sola moto a un metro di distanza dietro a un ciclista in una cronometro può permettere un guadagno di 1,28 secondi al chilometro. In una cronometro di 50 chilometri il guadagno totale è di 64,2 secondi, superiore al minuto. Aumentando la distanza ovviamente questi numeri calano, ma tornano a salire all’aumentare del numero di moto al seguito: se a un metro di distanza, una sola moto riduce la resistenza all’aria del ciclista del 3,8%, due moto messe alla stessa distanza fanno schizzare questa percentuale al 6,5%. Con tre moto arriviamo a un enorme 8,4%. Se poi parliamo di macchine l’effetto è ancora più grande: una sola macchina a 3 metri di distanza (stiamo sempre parlando di mezzi che viaggiano dietro al ciclista) in una crono di 50 km fa guadagnare 62,4 secondi grazie a un calo del 3,71% nella resistenza aerodinamica del ciclista. A 5 metri si scende a 24,1 secondi fino ai 3,9 secondi quando la macchina è a 10 metri di distanza.

Sembrano solo numeri, percentuali strane senza significato ma se consideriamo il numero di mezzi presenti al seguito dei favoriti durante le cronometro nei grandi giri e alle differenze di trattamento (diciamo così) dei fotografi e delle televisioni fra i vari ciclisti, è facile rendersi conto che non stiamo parlando di effetti trascurabili ma di fattori che possono risultare (e in effetti lo sono) decisivi sia nelle classifiche delle tappe a cronometro sia, di conseguenza, nelle classifiche generali delle grandi corse a tappe.

Di fronte all’evidenza scientifica e alla proposta di Bert Blocken di aumentare la distanza minima fra il ciclista e i mezzi al seguito durante le cronometro, però, all’UCI ancora tentennano. «Alcuni mi hanno detto che l’UCI lavora molto lentamente e per cambiare una regola del genere ci può mettere anche sei o sette anni. Ma nel frattempo qualche anno fa è uscito su L’Équipe un articolo riguardo a questa ricerca e ci sono stati alcuni tecnici dell’UCI che hanno detto “non ci credo, secondo me questo effetto non esiste”. Io penso che se hai delle persone del genere nella tua organizzazione che sono così lontane dalla ricerca scientifica è molto difficile riuscire a cambiare le regole», anche se queste regole hanno dei difetti sotto vari punti di vista.

Attualmente la regola prevede che la macchina al seguito del ciclista debba mantenere una distanza di 10 metri, ma è troppo poco: «È incredibile che una macchina possa stare a soli 10 metri di distanza, perché se il ciclista davanti cade ad alte velocità e scivola sull’asfalto, la macchina dietro non ha lo spazio per fermarsi se è a soli 10 metri di distanza e sta viaggiando a 54 km/h. Quindi questa regola dei 10 metri non ha nessun senso: né dal punto di vista della sicurezza, né da un punto di vista aerodinamico. Non riesco a trovare nessun motivo logico in questa regola, tranne per il fatto che “10 metri” è una distanza che tutti riescono facilmente a ricordare».

«Però spesso si vede dalle riprese dall’elicottero durante le cronometro che la macchina è veramente molto vicina al ciclista, quindi non viene rispettata neanche questa distanza di 10 metri. Ho delle immagini dall’elicottero in cui la distanza è addirittura inferiore a un metro. Forse perché qualche direttore sportivo ha letto il mio articolo, ci ha creduto e ha pensato di provare a stare più vicino possibile», tanto l’UCI non fa niente e fra l’altro è anche molto difficile riuscire a misurare a occhio quei famosi 10 metri di distanza da mantenere. E il vantaggio invece è enorme: se la macchina è a 1 metro di distanza, la resistenza aerodinamica cala del 13,67%. Una cifra folle che può far guadagnare circa un minuto in soli dieci chilometri all’interno di una cronometro.

Ci sono sicuramente molte complicazioni a causa dei diritti televisivi, della necessità di avere delle immagini sempre più nitide e sempre migliori. Magari in futuro sarà possibile sostituire le moto con dei droni per le riprese e le foto. «Potrebbe essere un’opzione quando i droni avranno una durata sufficiente della batteria. I droni sono già molto stabili e fanno delle riprese di ottima qualità. Il problema infatti non è tanto con le moto del cambio ruota o dei meccanici o dei commissari di gara che non hanno la necessità di stare così vicine ai ciclisti, ma delle moto dei fotografi e delle telecamere che invece prima o poi potranno essere sostituite dai droni», anche se questo vorrebbe dire un minor impiego di uomini al seguito «e non sarebbe sicuramente un bene per i lavoratori, ma lo sarebbe di certo per la gara».

A questo proposito si potrebbe pensare che le moto sono lì allo stesso modo per tutti e quindi se si dà un vantaggio a tutti è come non darlo a nessuno. In realtà non è così, perché soprattutto nelle cronometro non tutti i ciclisti vengono seguiti allo stesso modo, basti pensare al numero di motocamere a disposizione delle televisioni, che per forza di cose fanno delle scelte registiche. Scelte che poi a sua volta determinano un vantaggio per chi viene seguito dalla motocamera. Per spiegarcelo, Blocken ci mostra un video dell’ultima cronometro del Tour de France del 1989, quello degli otto maledetti secondi grazie ai quali Greg Lemond beffò Laurent Fignon. E anche lì, la quantità di mezzi al seguito dei due favoriti e la distanza ravvicinata dai ciclisti risultano a guardarli oggi inconcepibili.

Da questi esempi è chiaro come l’aerodinamica segua spesso percorsi logici controintuitivi.

Un altro caso è quello della doppia fila nelle cronometro a squadre, ovvero anziché procedere in un’unica fila indiana si preferiva disporsi su una doppia linea fondamentalmente per ridurre i tempi dei cambi ma leggendo discussioni dell’epoca (stiamo parlando di non più di una decina d’anni fa, non della preistoria) in tanti erano convinti che fosse anche la soluzione migliore a livello aerodinamico.

La prima opzione è la classica fila singola ormai adottata da tutte le squadre. Le altre sono due possibili doppie file: una circolare e una che potremmo definire “a simmetria centrale”.

Per anni le squadre più deboli hanno adottato le ultime due opzioni convinte di poter così ottimizzare le energie e minimizzare lo svantaggio. I tecnici erano veramente convinti che quello fosse il modo migliore per affrontare una cronosquadre. Ma in realtà, mi spiega Blocken, non è così.

«Tutto ciò che si muove crea dei flussi dietro di sé, e questo tutti lo sappiamo, ma non solo: anche davanti a sé e ai suoi lati. E questo già spiega molti degli effetti di cui abbiamo parlato sia nell’interazione fra le moto e i ciclisti ma anche fra i ciclisti stessi. Quando la gente va in giro in bici con gli amici, uno accanto all’altro, quella posizione fa aumentare la resistenza all’aria di entrambi perché l’aria non ha spazio per passare di lato e quindi ti ritrovi con il flusso dell’aria dell’altro in faccia. È una cosa che non avevo mai immaginato prima di iniziare i miei studi qui perché nel ciclismo succede molto spesso di stare uno accanto all’altro. Ma questo fa sì che tu debba spendere molta più energia per muoverti rispetto a quando si sta uno dietro l’altro». Quindi anche la doppia fila nelle cronometro a squadre è controproducente. «Ma anche quando ci si dà il cambio in una sola linea, conviene andare molto larghi, così». Nel dire questo prende di nuovo le palette per lo zucchero e le mette una dietro l’altra. Poi muove la paletta che sta in testa e invece di farla sfilare accanto alle altre la sposta molto più lontano sul tavolo prima di farla rientrare in fondo alla fila.

I più attenti avranno notato questo strano movimento anche nella cronosquadre di questo Tour de France: in alcune squadre, quando il primo della fila doveva spostarsi non lo faceva rimanendo accanto ai compagni ma si spostava molto più al largo prima di rientrare in coda. Questo per evitare che il flusso che si crea di lato al ciclista in testa che si sposta non vada ad interferire con il movimento del compagno di squadra che deve andare in testa a tirare. «Anch’io facevo questo errore quando ero giovane: stavo sempre vicino al gruppo perché pensavo che sarei stato più coperto facendomi sfilare il più vicino possibile agli altri. Fare quel movimento largo può sembrare ridicolo ma invece è la cosa migliore da un punto di vista aerodinamico».

«Questa è solo una piccola cosa. Ci sono team che hanno iniziato a farlo e altri che invece non prestano attenzione a questi dettagli. Penso che sia tutta una questione di obiettivi: essere un team di successo non dipende solo dai soldi ma dal prestare attenzione ai dettagli, alle piccole cose che fanno gli altri e chiedersi “perché lo fanno?”». Chiedersi il perché delle cose è il modo migliore per capire e per migliorarsi, perché spesso l’emulazione in tutto e per tutto, senza porsi domande, non porta necessariamente a risultati positivi. Un esempio rapido riguarda la posizione di Froome in discesa: da quando lui ha cominciato a usare quella posizione, poi anche altri l’hanno imitato.

In realtà noi oggi sappiamo, grazie al paper di Bert Blocken “Aerodynamic analysis of different cyclist hill descent positions” (pubblicato sul “Journal of Wind Engineering and Industrial Aerodynamics” del mese di ottobre 2018), che la posizione di Froome non è la miglior posizione possibile. Anzi, non è nemmeno nella top-5 delle migliori posizioni in discesa essendo più lenta del 7,2% rispetto a quella che nel paper viene chiamata “Posizione Top Tube 4”.

CdA è la superficie totale (A) esposta all’aria per il coefficiente di drag (Cd): più aumenta, peggiore sarà la posizione. D è la lunghezza della discesa presa in considerazione e U è la velocità espressa in metri al secondo (20 m/s corrispondono a 72 km/h) a cui è stato effettuato l’esperimento.

«Probabilmente pensavano “beh, se un grande campione come lui fa così, allora quella dev’essere sicuramente la miglior posizione possibile”. Poi invece scopri che non è sempre così. Lo stesso Chris Froome non fa tutto giusto, ma fa tante cose nel modo giusto. E a volte discuto con la gente sui social perché mi dicono “i tuoi studi non possono essere corretti perché il Team Sky ha così tanti soldi che sicuramente hanno studiato tutto”. Ma se fosse solo questo, se bastassero i soldi per scoprire tutto, allora io potrei ritirarmi, insieme a tutti i miei colleghi, chiudere tutto, lasciare l’università, perché tanto chi ha i soldi sa già tutto».

Quello che manca spesso, è il tempo più che il denaro. Per fare ricerche del genere, infatti, serve molto più tempo di quanto si possa immaginare. «Solo lo studio sulla disposizione in gruppo mi è costato due anni e mezzo», fra simulazioni, progetti, la creazione dei modellini in scala e via dicendo. «Poi guardi i risultati che ho pubblicato e pensi “ma sono solo due misurazioni”. Solo le simulazioni, ad esempio, hanno crashato circa duecento volte e hanno funzionato solo due volte e su quelle due volte abbiamo fatto le misurazioni». L’importante in questi casi è non farsi prendere dallo sconforto, perché «come si dice spesso: tutto quello che può andare storto andrà storto, quindi devi eliminare tutto ciò che va storto e alla fine tirare fuori i risultati».

Insomma, non c’è nulla di scontato nel lavoro di Blocken, che ci racconta della difficoltà nel trovare degli sponsor, dei fondi per mettere su tutto quel macchinario che non è solo la galleria del vento in sé ma tutta la struttura organizzativa che c’è dietro. «Ora ho anche dei dottorandi», ci spiega con orgoglio. «C’è un ragazzo italiano, Fabio Malizia, e il suo lavoro è focalizzato principalmente sull’aerodinamica delle ruote e su come fare simulazioni CFD nel modo giusto (CFD sta per Computational Fluid Dynamics, ovvero delle simulazioni di problemi di fluidodinamica su computer, nda) che non è una cosa facile, per niente. Sta lavorando da due anni e mezzo su questo progetto e ha ottenuto davvero dei bei risultati».

Il tempo, la fatica, la passione sono ciò che permettono alla ricerca scientifica di arrivare a conclusioni apparentemente controintuitive. Ed è proprio questo che fa la differenza nel ciclismo, uno sport in cui la vittoria si gioca spesso su una manciata di secondi.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura