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Quanto è difficile diventare calciatrici in Italia, intervista a Regina Baresi
21 dic 2017
Abbiamo parlato dello stato del calcio femminile in Italia con il capitano dell'Inter.
(articolo)
9 min
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«In Italia il calcio femminile è purtroppo uno sport pieno di stereotipi, perché con il passare del tempo gli sono state appiccicate delle etichette che ormai è diventato difficile togliere. Per esempio, il calcio è stato sempre visto come uno sport per maschi e le persone ne parlano esclusivamente attraverso luoghi comuni. Finché non si deciderà di cambiare la percezione comune questo sport, qui da noi, non riuscirà ad avere una sua identità».

Regina Baresi è il capitano dell’ASD Femminile Inter Milano, cioè la squadra che l'anno prossimo diventerà ufficialmente la sezione femminile dell'Inter, e gioca a pallone da quando aveva 13 anni: «Da piccola ho provato tanti altri sport ma nessuno mi appassionava come il calcio. Oggi naturalmente avvicinarsi a questo mondo è più facile rispetto a quando l’ho fatto io perché negli ultimi anni noi calciatrici siamo riuscite a migliorare un po’ la nostra situazione, per esempio grazie all’introduzione dell’obbligo dell’affiliazione alle squadre maschili. Rimane il fatto che gli altri paesi sono avanti anni luce rispetto a noi, lo vediamo soprattutto quando la Nazionale italiana partecipa a tornei internazionali o quando le mie colleghe giocano in Champions League. Il divario è enorme e serviranno anni per riuscire a colmarlo».

Le difficoltà delle calciatrici in Italia

Quando Regina parla delle altre realtà si riferisce a Inghilterra, Francia, Germania, Norvegia e Svezia, paesi che hanno tutti più di 100 mila giocatrici registrate nelle rispettive federazioni, su un totale in Europa di 1.4 milioni. In pratica, più di un terzo delle calciatrici europee si sono formate in questi paesi, dove il calcio femminile è evidentemente una realtà consolidata da tempo.

In Francia la nazionale femminile gioca davanti a 15 mila persone di media a partita e il budget previsto dalla federazione è di circa 10 milioni. In Italia è considerato un miracolo arrivare ad un pubblico di 3mila persone e il budget della FIGC è di 4 milioni e mezzo (anche se in forte crescita rispetto agli ultimi anni).

Foto di Livio Moiana.

Dietro questo gap ci sono molte cose – l’impegno costante delle federazioni, non solo in termini di progetti e idee ma soprattutto di investimenti, l’educazione allo sport promossa dai governi sin dalle scuole di base – ma la differenza la fa soprattutto il professionismo. «Dietro a quello che facciamo ci sono molti sacrifici e la passione è l’unica cosa che ti fa andare avanti perché non siamo professioniste, riceviamo al massimo un rimborso spese e ci alleniamo la sera dalle 8 alle 10 dopo una giornata intera di lavoro», dice Regina Baresi.

Regina fa parte di quel ristretto gruppo di ragazze che in un ambiente così difficile sono riuscite comunque a emergere, ma la regola è rappresentata in realtà dalle moltissimi calciatrici che, superata una certa età, lasciano il calcio perché l’impegno è inconciliabile con una vita normale: per alimentare la passione servono soldi, tempo e rinunce. «Io mi ritengo fortunata ma ho conosciuto ragazze che a un certo punto hanno dovuto dire basta, tra mille difficoltà e rimorsi», dichiara Regina Baresi.

Osservando i dati che la UEFA pubblica ogni anno sullo stato del calcio femminile in Europa, notiamo anche questo aspetto: mentre in molti paesi al crescere del numero delle U-18 che si avvicinano al pallone rimane alto anche il numero delle ragazze che continuano a giocare in età adulta, in Italia il secondo dato cala drasticamente superati i vent’anni, quando cioè si materializzano le prime scelte di vita, lavoro, impegni, famiglia.

Probabilmente in nessun altro sport, in Italia, si nota una differenza di investimenti e di seguito così ampia tra quello che accade nel calcio maschile e nel femminile.

La crescita del movimento a livello globale

Quest’anno l’obiettivo di Regina è quello di tornare in Serie A: «Perché è più stimolante della Serie B, sarebbe un sogno riuscire a raggiungere l’obiettivo». Ma il campionato di cui parla Regina purtroppo non ha nulla a che vedere con quella che seguiamo tutti i weekend allo stadio o in televisione. «Per chi vince la Serie B non è previsto neanche un premio in denaro, al massimo una coppa e poi si va a festeggiare a cena tutte insieme». Stiamo parlando di un mondo così lontano dal suo corrispettivo maschile che sembra quasi di raccontare una disciplina appena nata, benché in Italia sia presente dalla metà del Novecento.

In Europa invece le cose sembrano andare alla grande. La scorsa estate 28mila tifosi hanno comprato un biglietto per la finale degli Europei femminili di Enschede, una piccola cittadina olandese al confine con la Germania, famoso più per essere la città dei Pestilence che del Twente. In totale sono state 240mila le persone che hanno voluto assistere dal vivo alle fasi finali della competizione.

Se confrontiamo questi numeri delle ultime edizioni degli Europei femminili ci troviamo di fronte a un mondo in continuo fermento. Nel 2009, 48 milioni di tifosi hanno seguito gli europei femminili allo stadio o in poltrona davanti alla tv; questo numero è più che raddoppiato rispetto a Euro 2013, con 116 milioni, e più che triplicato quest’estate, quando l’ultima edizione è stata seguita in totale da 165 milioni di tifosi.

L’aumento di pubblico si registra anche nella Champions League femminile dove, tra l’edizione 2012/13 e quella della scorsa stagione, le persone che hanno comprato un biglietto per lo stadio (sommando sia le partite di qualificazione che le fasi finali) sono quasi raddoppiate, da 147mila a 240mila.

Chiedo a Regina se secondo lei da noi ci sia anche un problema di narrazione sul calcio femminile, se pensa potrebbe essere raccontato meglio da chi scrive e commenta lo sport per lavoro. «Le persone che seguono il calcio femminile in Italia», mi dice «sono probabilmente un po’ limitate, non nell’accezione negativa del termine ma perché è tutto il movimento ora ad esserlo; mancano quasi le parole per parlare di calcio al femminile».

Anche su questo argomento abbiamo degli esempi che vengono dall’estero, dai quali potremmo prendere spunto. Il calcio femminile non cresce solo in Europa ma è ormai una realtà consolidata anche dall’altra parte del mondo, negli Stati Uniti, dove la nazionale femminile riempie gli stadi più della maschile. Negli USA tutte le partite della NWSL - la National Women’s Soccer League - vengono trasmesse in streaming gratuito per chi vive fuori dal paese direttamente dal sito della lega, mentre chi vive nel paese può seguire i match di cartello in diretta e in esclusiva sul canale americano Lifetime.

Secondo recenti studi, il 47% dei liceali americani che gioca a calcio è composto da ragazze, mentre nella NCAA - la National Collegiate Athletic Association - le calciatrici superano i colleghi maschi arrivando al 53% del totale.

Un movimento quindi c’è, almeno a livello globale, e questo non può che farci essere ottimisti. «Oggi, più di prima, mi sembra che le bambine siano meno condizionate dal parere dei genitori, e questo è un bene», dice Baresi «Da piccola sentivo dire frequentemente che il calcio faceva venire le gambe grosse e che quindi non fosse uno sport per ragazze. Secondo me i genitori dovrebbero lasciare le bambine libere di scegliere la disciplina da praticare, senza nessun condizionamento emotivo».

La nazionale femminile statunitense è così seguita perché gli Stati Uniti hanno abbattuto prima di noi tutti i tabù che ostacolavano la crescita di questo sport, partendo proprio dalle famiglie. Le ragazzine americane scelgono di giocare a calcio, e i genitori glielo permettono e anzi le supportano, anche perché non esistono più resistenze nella società.

Questo ha ovviamente avuto delle conseguenze positive anche sui media, che oggi hanno a disposizione gli strumenti non solo per raccontare questa dimensione in maniera appropriata, ma anche per sensibilizzare su temi socialmente rilevanti come la parità di genere.

Per pubblicizzare l’accordo con la NWSL, per esempio, Lifetime ha lanciato una campagna, “Pass the ball”, che ha visto protagonisti gente del calibro di Julia Roberts, Ellen DeGeneres, David Beckham e alcune calciatrici americane come Carli Lloyd e Ashlyn Harris. “I’m gonna pass the ball to show girls they should dream big” dice Ellen mentre lancia il pallone a Zendaya che aggiunge “I pass the ball to say I can, when others says I can’t”; e poi ancora, “I pass the ball for equality” dice Ashlyn Harris, portiere della Nazionale americana. “I pass the ball to stand up for women’s right” è invece la frase scelta da Beckham.

Una reazione italiana?

Chiedo a Regina se non sarebbe meglio forzare la mano adesso visto tutto quello che è accaduto nelle ultime settimana nella FIGC, se non sia arrivato insomma il momento per le calciatrici di fare qualcosa per attirare l’attenzione sul loro mondo.

«Certo, ma abbiamo bisogno di una piattaforma con la quale permettere ai tifosi di scoprire il nostro calcio, altrimenti rimarremo sempre legati alle solite idee: il femminile è noioso e lento, non è bello», mi dice Regina Baresi «Ancora oggi non riusciamo da sole a buttare giù le barriere che ostacolano lo sviluppo della disciplina e questo non permette alle persone di avvicinarsi senza la solita diffidenza e a noi di sperare che un giorno la nostra passione possa diventare anche un lavoro».

Nel suo piccolo comunque Regina sta cercando di attirare l’attenzione sull’Inter femminile utilizzando i suoi profili social come vetrina per la squadra: «Negli ultimi tempi il numero delle persone sugli spalti che ci segue è passato da 30-40 a 100 o poco più a seconda dell’importanza della partita, e la differenza tra gli spalti mezzi vuoti e pieni si sente eccome per noi che giochiamo. Per fortuna abbiamo un gruppo di ragazzi che si è appassionato alla nostra squadra e ha iniziato anche a fare dei cori per sostenerci. Nel nostro piccolo ci carichiamo anche solo grazie a questo».

Sulla sua pagina Facebook è possibile seguire le partite della sua squadra in streaming ma questo è l’unico modo per guardare una partita dell’Inter femminile, se non dal vivo. Su Twitter ha lanciato l’hashtag #teamamale, con il quale pubblica costantemente brevi video di personaggi dello spettacolo e dello sport (da Alvaro Recoba a Gerry Scotti) che incoraggiano le persone a seguire la squadra: «Cerco sempre di inventarmi qualcosa di simpatico per riuscire ad attirare l’attenzione e dare un po’ di visibilità. Sicuramente in questo momento le giocatrici della Fiorentina e della Juventus sono quelle che potrebbero fare qualcosa in più perché giocano in Serie A e quindi avrebbero un appoggio comunicativo un po’ più grande del nostro, qualsiasi cosa facciano può avere sicuramente maggior riverbero là fuori».

Foto di Livio Moiana

Forse è proprio questo momento di crisi del movimento maschile, con l’eliminazione della Nazionale per la prima volta dopo 60 anni, ad essere il migliore per far decollare quello femminile, facendogli raggiungere almeno gli standard europei.

«Mi dispiace molto che la Nazionale maschile non sia riuscita a qualificarsi per i Mondiali ma ricordiamoci che abbiamo anche la Nazionale femminile e sarebbe bellissimo vedere le ragazze partecipare ai Mondiali del 2019 in Francia», mi dice Regina Baresi alla fine della nostra intervista «Speriamo che le televisioni e i giornalisti sportivi diano maggiore importanza a tutto il movimento e che non trattino i prossimi impegni delle azzurre come secondari rispetto a ciò che accade nel mondo del calcio maschile».

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