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Quasi leggenda: il Bologna del calcio champagne
08 gen 2019
Racconto della stagione 1989/1990 del Bologna, una delle migliori della storia recente dei rossoblù.
(articolo)
18 min
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Una stagione, una squadra, un piccolo sobbalzo del cuore. In un viaggio dall’annata 1988-89 ai giorni nostri, ripercorriamo la cavalcata di una formazione per ogni campionato di Serie A, con un solo paletto: nessun trofeo alzato alla fine dell’anno. Squadre che hanno entusiasmato chi le sosteneva sugli spalti senza vincere nulla, semplicemente perché la vittoria non era alla portata. Salvezze raggiunte con le unghie, qualificazioni europee inattese, attimi di puro e semplice spettacolo. Per scoprire che possono essere oneste anche le fotografie in cui siamo bellissimi e perdenti.

Ruggiero Rizzitelli scambia palla a terra con Lupetto Mannari, poi apre sulla destra per Alessandro Bianchi. Il cross è lento ma preciso, Rizzi-gol si accartoccia in una mezza rovesciata un po’ troppo meccanica, mentre il Mitico Villa e Fabio Poli osservano sullo sfondo. Il pallone entra in rete lento, complice un tuffo francamente improbabile di Lamberto Boranga. Uno di quei voli poco credibili che i genitori fanno al parco per far segnare i propri figli, un inganno a fin di bene. Ma qui non ci sono bambini di mezzo, soltanto ex calciatori in uno stato di forma più o meno rivedibile. Non è una partita, non è un allenamento, non è neanche un’esibizione. Stanno cercando di riprodurre i gol appena segnati in Serie A.

La Rai, durante Quelli che il calcio, non ha la possibilità di trasmettere le azioni in tempo reale, e a qualcuno deve essere venuto in mente di provarci così, un po’ per ridere. È un gruppo messo insieme per mostrare al pubblico privo di pay-tv cosa sta accadendo sui campi di Serie A, quelli che “l’allenatore” di questi ex calciatori non calca da un po’. Eppure, quando gli anni ’80 stavano per finire e il calcio italiano era l’esempio da seguire in tutto il mondo, pochi nomi erano sulla cresta dell’onda come il suo. Prima del flop alla Juventus e di una serie di esoneri così lunga da richiedere uno sforzo di memoria non indifferente, Luigi Maifredi da Lograto, per tutti Gigi, era l’uomo del calcio champagne, gioco di parole fin troppo facile per il suo precedente lavoro.

Siamo a Bologna, stagione 1989-90. Una qualificazione in Uefa e l’ascesa verso la Juventus, il sogno di una vita. Icaro Maifredi stava per volare troppo vicino al sole, ma non poteva ancora immaginarlo.

La stagione 1989-90, per Maifredi, è quella della consacrazione definitiva. Poco importa che siano passati solo tre anni da quando allenava in C2: i giornali lo esaltano, lo definiscono il gemello di Sacchi. Da lì a un anno, il crollo.

L’allenatore

È praticamente impossibile scrivere di quel Bologna senza attaccarsi a un personaggio come Gigi Maifredi, rimasto nell’immaginario collettivo soltanto come il miracolato catapultato sulla panchina della Juventus, destino che lo accomuna a un altro antieroe del calcio italiano come Corrado Orrico, meteora interista della stagione 1991-92. Per la stampa dell’epoca, l’Omone di Lograto è manna dal cielo. Il mito dell’allenatore che si è fatto da solo, partendo da lontano, lontanissimo. «Da piccolo potevo ambire a fare il vigile, l’autista, il fruttivendolo. Ho iniziato a spaziare con la fantasia a 13 anni, al mio arrivo in città. Un solo desiderio: vivere al massimo. Dalla Bettinzoli passai al Brescia, fino alla Primavera. Un giorno si fecero male tutti gli stopper della prima squadra, ma io mi ruppi il menisco. Smisi a 21 anni e iniziai a fare la persona seria».

Nella concezione di Maifredi, fare la persona seria vuol dire iniziare a lavorare e metter su famiglia. Ma come si fa a rinunciare al calcio? Non si fa. E Gigi fonda la Real Brescia, presidente e allenatore. Gli capita per le mani Tiberio Cavalleri, figlio di Renato, d.s. del Crotone, e inizia a diventare un nome da studiare. Per un anno va in Calabria a fare da secondo a Oronzo Pugliese, poi Lumezzane e Pontevico. Nel frattempo va in giro a vendere champagne. «Avevo iniziato a lavorare per l’Alemagna, la Stock e la D&C, sono passato allo champagne dai dolciumi e dai panettoni. Veuve Clicquot Ponsardin, naturalmente, il meglio che ci sia». Molla tutto perché lo chiama il Leno, a cui chiede 30 milioni a stagione. Glieli danno. Arriva la chiamata dell’Orceana, infine l’Ospitaletto, dove la vita e la carriera di Maifredi cambiano per sempre. Il proprietario è un altro Gigi, focoso come lui. Di cognome fa Corioni, gli mette in mano una squadra costruita al risparmio, che l’anno precedente aveva mancato la promozione in C1 proprio a causa sua: aveva già firmato, eppure il derby giocato alla vigilia di Pasqua del 1986 era stato vinto dall’Orceana di Maifredi. «Avrei potuto allenare da subito in C1 ma feci il mio dovere fino in fondo. Io sono fatto così. Non riuscivano a vincere, tagliarono il budget e mi lasciarono soltanto Gilardi. Adottai il 4-3-3, eravamo uno spettacolo. Venivano a vederci da tutta Italia, Sacchi incluso».

Sale in C1 e le sirene iniziano a suonare. Lo vuole il Parma ma Corioni anticipa le mosse e gli affida il Bologna, in B. La piazza mormora, ha l’ambizione dettata dal blasone anche in cadetteria. La zona di Maifredi impiega poco a conquistare tutti. Promozione al primo colpo e poi salvezza in A, anche se con qualche fatica di troppo, all’esame tra i grandi. In mezzo, la corte della Juventus. L’Omone ci pensa, valuta, poi rifiuta, non sentendosi pronto per un salto così spericolato. Fa impazzire i giornalisti perché è fiero del suo lavoro, convinto di essere il migliore, o quasi. Maifredi è efficace e vanesio, giura che lascerà il calcio a 50 anni, fa continue analogie con il suo vecchio lavoro. «Allora l’utente era l’oste, oggi il pubblico che esige qualità di gioco. Io devo appagarlo, chiedo soltanto di essere conosciuto prima che giudicato. Non si può vivere di pregiudizi. Sono più battistrada che scopritore dell’America: l’America l’hanno scoperta in tanti, io ogni giorno provo a convincere i giocatori a svolgere il loro mestiere stando fuori dalle nevrosi».

Il mercato

Per i gusti di Corioni, il Bologna ha fatto fin troppa fatica a salvarsi nella stagione 1988-89. I tre stranieri vengono accompagnati alla porta: via Demol, Aaltonen – parcheggiato per un anno dall’Inter, che lo aveva acquistato in preda a un’esaltazione autunnale: sberla sotto l’incrocio dei pali in un sedicesimo di Coppa Uefa in un fantascientifico Inter-Turun Palloseura 0-1 – e Rubio, il “cileno sbagliato”, preso al termine di un lungo ballottaggio con Zamorano. Già da aprile, il Bologna ha le idee chiarissime su due dei tre stranieri: il centrale difensivo bulgaro Iliev e il lanciatissimo brasiliano Geovani, che nei progetti di inizio anno dovrebbe essere l’uomo da piazzare in cabina di regia nel centrocampo a 3 disegnato da Maifredi.

Per il terzo straniero, Corioni deve smaltire un innamoramento di lunga data. Il patron del Bologna si è fatto portar via il cuore da un fantasista romeno, magnifico e indolente come tutti gli amori sbagliati di questo mondo. Gheorghe Hagi è la stella della sua nazionale e della Steaua, per vestirlo del “suo” rossoblù il presidente è pronto a tutto, anche a convincere Maifredi a ritoccare qualcosa nel suo modulo. «Hagi è il numero uno al mondo, più desiderabile di Maradona. La Juventus lo insegue da quattro anni, il Marsiglia ha offerto pochi giorni fa svariati milioni di dollari, noi ci proviamo. Sono Paesi difficili, le strade da seguire sono diverse e complicate. Se mi dicessero che me lo danno tra un anno, dopo i Mondiali, firmerei subito», dichiara Corioni a metà luglio, convinto di poter chiudere l’affare grazie ai suoi buoni uffici in Romania, dove ha un canale di affari ben avviato con la sua azienda di articoli sanitari.

La trattativa è snervante, e il Bologna al via del ritiro non ha ancora il terzo straniero. Non c’è più Angelo Alessio, utilissimo nella stagione precedente, mentre nel motore sono stati inseriti due veterani di assoluto valore come Cabrini e Giordano. Hagi, invece, non arriva. Per qualche ora sembra fatta con la Juventus per l’arrivo di Zavarov, con robusta partecipazione bianconera all’ingaggio del sovietico, ma Corioni, che in cuor suo spera ancora di convincere la Steaua, diserta l’appuntamento decisivo e fa saltare tutto. Le carte precampionato parlano di un Bologna da salvezza tranquilla, nonostante le sparate di Corioni: «Non escludiamo nessun traguardo, salvo quello della lotta per la salvezza. Anche lo Scudetto? Cominciamo a giocare, poi vediamo quello che succede».

Maifredi si accorge ben presto che Geovani non può giostrare in regia e può tornare utile più avanti, visti i problemi fisici di Poli, titolarissimo nella prima parte di stagione. Marronaro è l’uomo da schierare al posto del brasiliano quando Maifredi vuole un attacco pesante, Galvani il recordman di ingressi dalla panchina (ben 14), Iliev diventa di fatto la riserva di De Marchi. Dal suo arrivo a fine ottobre, Waas è sostanzialmente inamovibile in avanti.

Il campionato

Si comincia con un incrocio carico di sentimentalismi. Il Bologna fa visita alla Juventus, l’ex cinno Marocchi nobilita la 10 che fu di Platini con il gol del vantaggio, Poli in mischia fa 1-1. È la giornata del ritorno di Cabrini in quella che era stata la sua casa per tredici anni, mentre il calcio italiano è ai piedi di Diego Armando Maradona, impegnato in un tiramolla epocale con Ferlaino (per gli appassionati del genere, i nove secondi dell’argentino che scandisce «È il mio capo Ferlaino! Quando lui vuole, giocherò» sono tra i più belli dell’intero internet), che non ha la minima intenzione di cederlo all’Olympique Marsiglia. Anche Agnelli, da sempre grande estimatore del Pibe, viene interpellato sulla questione da Franco Costa, che sfoggia degli occhiali così anni ’80 da farci esplodere la testa. Finisce in pareggio ed è un buon punto per il Bologna, anche se Iliev, escluso dalla formazione titolare, non gradisce: «Se non gioco, io riposo. Non contento», riportano i giornali del lunedì, mantenendo l’italiano maccheronico della versione originale del bulgaro.

Maifredi, come non mai padrone del vapore, lo zittisce: «Io metto in campo i giocatori in forma, non quelli acquistati dalla società. Se Iliev non capisce questo non me ne frega niente. Ma non credo sia arrabbiato, più probabilmente non ha capito le domande». Ma il bulgaro serve, perché Villa si è fatto espellere nel finale: dentro Iliev contro l’Inter campione d’Italia, sette giorni più tardi, al Dall’Ara. Gioca bene, in coppia con De Marchi, anche alle prese con una coppia d’attacco temibilissima come quella composta da Klinsmann e Serena. Il Bologna mette in cascina un altro punto importante.

Splendida la combinazione Poli-Giordano per il primo vantaggio felsineo.

I felsinei, senza Geovani, si arrangiano come possono. Villa firma il pareggio in casa dell’Udinese, la prima vittoria arriva contro il Bari e va a segno Pino Lorenzo, in campo con Poli e Giordano nel tridente d’attacco. Seguono un pareggio a Cesena e l’1-0 siglato da Villa nel derby dei zonisti con il Genoa di Franco Scoglio.

Renato Villa, per tutti il Mitico, è uno dei personaggi più incredibili di quel Bologna. Ex giocatore-magazziniere dell’Orceana, pupillo di Maifredi che l’ha portato in rossoblù nello scetticismo generale, è la trasposizione sul terreno di gioco dell’amore e della grinta dei tifosi che assiepano gli spalti del Dall’Ara. «Ma se Geovani l’abbiamo pagato 6 miliardi, quando costa il Mitico?», si chiede Gianni Morandi all’uscita dallo stadio, esaltato come un bambino per la zampata rifilata al Genoa. A Bologna gli hanno anche dedicato una squadra di basket, che si chiama Mitico Villa. «Quando arrivai all’Orceana», racconta Maifredi, «fu uno di quelli che tramò per mandarmi via. Lo volevo in difesa, lui partiva col 3 e dopo due minuti era a fare il centravanti e dava ordini a tutti col ditino alzato».

La squadra rimane imbattuta fino alla nona giornata, quando cade rovinosamente all’Olimpico contro la Lazio (3-0). In classifica è ai piedi della zona che conta: in testa c’è il Napoli a 15, quindi Inter-Juve-Samp a 12, Roma a 11 e un quintetto composto da Atalanta, Lazio, Lecce, Milan e proprio Bologna a 10. Il terzo straniero deve ancora arrivare, in estate Maifredi aveva battuto i pugni sul tavolo: «O un campione, o niente. Non abbiamo intenzione di fare un’altra operazione come quella di Aaltonen». Dopo due mesi pieni di campionato, corregge il tiro: qualcuno serve, non importa che sia un campione. Herbert Waas non è certamente una scommessa alla Aaltonen, ma non è neanche il campione tanto atteso da Maifredi.

Ex astro nascente del calcio tedesco, arriva in Italia con il biglietto da visita di una settantina di gol messi a segno con la maglia del Bayer Leverkusen. Non è una prima punta classica, Maifredi deve studiare per farlo rendere al meglio con Giordano, che pur con 34 anni suonati sul groppone è palesemente il giocatore più tecnico del Bologna. I rossoblù che cadono al Flaminio sotto i colpi di Sosa e Di Canio sono in grande difficoltà: assenti tre vecchi lupi di mare come Cabrini, Bonetti e Giordano, espulso Iliev sull’1-0. L’Omone non fa drammi: «Non mi rammarico per aver perduto l’imbattibilità, prima o poi doveva accadere». Nelle ore di fine mercato di riparazione, Corioni non riesce a piazzare Marronaro, a un passo dal Padova prima dell’approdo in Veneto di Nanu Galderisi, ed è costretto a cedere in prestito Lorenzo al Catanzaro, salutando anche Eraldo Pecci, dirottato al Vicenza.

Si spera di poter gettare Waas nella mischia già contro l’Atalanta ma lo staff medico scopre che il tedesco ha una distrazione al quadricipite destro. Il suo agente parla di infortunio già presente al momento della firma, il Bologna nega. Sta di fatto che contro gli orobici tocca a Geovani e Poli sostenere Giordano, mentre Galvani deve adattarsi da terzino. Lo 0-0, in queste condizioni, è oro colato.

Contro la Fiorentina non c’è ancora Waas, è una partita speciale dopo gli incidenti dell’anno precedente. Si temono ulteriori vendette e rappresaglie, è Roberto Baggio a riportare la calma alla vigilia: «Un solo coro violento e chiederò la sostituzione». I viola giocano meglio ma i due punti se li mette in valigia il Bologna, con un tiro non irresistibile di Geovani che inganna Landucci. Marronaro piega il Verona, poi due sconfitte da mettere in preventivo, contro Sampdoria e Milan.

A quasi due mesi dall’arrivo a Bologna, Waas assaggia finalmente il campo contro il Lecce, subentrando a Geovani, debilitato dagli antibiotici e obbligato al cambio dopo neanche 40 minuti. Giordano e Bonini firmano il ritorno alla vittoria, nel frattempo il Bologna ha perso Poli per infortunio, riscoprendo l’importanza di Marronaro.

Altro ko con il Napoli prima della sosta natalizia, le squadre tornano in campo il 30 dicembre. A Bologna è un giorno grigio, una domenica invernale come tante altre. Non per Lionello Manfredonia. L’1-1 tra la squadra di Maifredi e la Roma passa in secondo piano, perché il cuore del jolly giallorosso smette di battere improvvisamente alle 14.35.

Al suo fianco c’è Bruno Giordano, amico e compagno di mille battaglie con la maglia della Lazio. Sono cresciuti insieme, e lì per lì Bruno non capisce cosa sta succedendo. Lo ha appena saltato in dribbling prima di una chiusura in angolo di Desideri. Il passo di Lionello si fa più incerto, poi crolla all’improvviso. Manfredonia cade a terra di testa, senza opporsi. Ernesto Alicicco, medico della Roma, corre in campo con un tempismo decisivo. Riesce ad aprirgli la bocca con la forza, a liberare la lingua per evitare il soffocamento che sarebbe fatale. Ma il cuore di Lionello non batte, l’ambulanza non entra in campo.

Il massaggiatore Giorgio Rossi pratica la respirazione bocca a bocca, il medico si occupa del massaggio cardiaco. Gli istanti si dilatano drammaticamente mentre Alicicco combatte con la morte che sta cercando di prendersi uno dei giocatori più duttili degli anni ’80 italiani. Dopo cinque lunghissimi minuti passati sul terreno di gioco del Dall’Ara, Manfredonia viene portato fuori in barella, con una coperta di lana. Di lui non si sa nulla per una ventina di minuti, poi lo speaker dello stadio dice che si è ripreso, che sta bene. Lo stesso fa Sandro Ciotti per Tutto il calcio minuto per minuto. Ma non è vero.

All’ospedale Maggiore, il reparto di cardiologia sta cercando di riprendere per i capelli la vita di Manfredonia. Le troupe televisive si spostano dallo stadio all’ospedale, il battito del calciatore si stabilizza soltanto dopo diverso tempo. È in coma, anche se i primi esami escludono lesioni cerebrali. La moglie Carolina arriva a Bologna intorno alle 19.00, è un miracolo che sia arrivata fin lì in macchina senza avere dei crolli emotivi. Alle 22.00 viene spostato in rianimazione e inizia il susseguirsi di bollettini medici. Manfredonia resta in coma per tre giorni. «Ho un blackout che va da tre giorni prima della partita a tre giorni dopo. Il primo ricordo è l’immagine di Fulvio Collovati al mio risveglio», avrebbe raccontato poi.

«Almeno sappiamo che Manfredonia è vivo, nel suo sonno pesante e buio. E questo attenua il dolore: una carriera interrotta e una vita che continua», scrive Gianni Mura su Repubblica.

È l’ultima gara del girone d’andata, e il Bologna è a 18 punti, come la Lazio. Due in meno di Atalanta e Juventus, uno in più del Bari. La Uefa è possibile. L’anno nuovo porta in dote il primo gol di Waas (1-1 con la Juve) e una netta sconfitta con l’Inter. Negli annali è passato alla storia come il Bologna del calcio champagne, ma la realtà è che quella era una squadra più solida che spettacolare: 29 gol fatti e 36 subiti a fine anno. Seguono quattro partite con la porta inviolata – tre 0-0 e una vittoria di misura sul Cesena con gol di De Marchi – prima di una sconfitta in casa della Cremonese. Dopo ogni ko, i rossoblù riescono a ripartire con un miniciclo positivo: altre quattro partite senza perdere, e i successi su Ascoli e Fiorentina sono preziosissimi.

Il Verona, in piena lotta per non retrocedere, sgambetta Stringara e compagni alla ventinovesima giornata. Al Dall’Ara arriva la Sampdoria che ancora sogna il tricolore e tre giorni prima ha eliminato il Grasshopper per volare in semifinale di Coppa delle Coppe, prenotando il duello con il Monaco di un giovane George Weah e di Ramon Diaz: è uno scontro potenzialmente decisivo. Ci pensa Giordano, in mischia, a far esplodere il Dall’Ara. Fuori la Samp dalla lotta scudetto, a Bologna si attendono le due principali contendenti: il Milan, alla trentunesima, e il Napoli, alla trentatreesima. I rossoblù giocano un’eccellente partita contro il Diavolo e vanno a un passo dalla vittoria: finisce 0-0, e c’è parecchio materiale per la moviola.

Il punto che ipoteca la qualificazione Uefa del Bologna arriva contro il Milan. L’apertura del servizio della Domenica Sportiva vede Gigi Maifredi sulla “camionetta” della squadra esterna della Rai mentre cerca di scoprire se Galli e Pazzagli avevano effettivamente combinato il disastro che avrebbe regalato ai suoi il successo. A fine partita, Sacchi omaggia il rivale Maifredi: grande rispetto tra i due.

Giordano e soci perdono in maniera sorprendente a Lecce, il 22 aprile tocca al Napoli, che passeggia al Dall’Ara sulle ali di Careca, Maradona, Francini e Alemao, mentre il Milan perde nervi e scudetto in casa del Verona, fatale come nel 1973. La passerella finale è al Flaminio: Bologna e Roma festeggiano insieme la qualificazione in Uefa. Il pubblico giallorosso saluta l’amatissimo Gigi Radice, allenatore “a tempo” scelto per la stagione 1989-90 da un Dino Viola che aveva già bloccato Ottavio Bianchi per l’annata successiva, mentre in panchina si rivede Manfredonia, ovviamente in borghese, per il saluto alla troupe medica bolognese che gli aveva salvato la vita qualche mese prima.

È l’ultima anche per Gigi Maifredi, che accetta la serrata corte juventina, condotta con pazienza da Giampiero Boniperti già due anni prima. «Una mattina squilla il telefono, risponde Bruna, mia moglie. “Pronto, sono Giampiero Boniperti”. E lei: “Certo, e io sono Grace Kelly”. E riappende. Il giorno dopo suonano alla porta, è il fiorista con un gigantesco mazzo di rose. C’è un biglietto: “Sono davvero Boniperti”. Un gran signore. La prima volta rispetto il contratto con il Bologna, al secondo giro mi fa: “Caro Maifredi, si ricordi che, nella vita, la fortuna e la Juventus bussano una volta sola. Ma lei è molto fortunato…”. Alla fine accetto». L’Omone cede, ma non trova Boniperti. È la Juve della rifondazione, con Luca Cordero di Montezemolo ai vertici societari. Ritrova Angelo Alessio e Marocchi, porta con sé Luppi e De Marchi, è chiamato ad allenare una rosa tutta lustrini: lo Schillaci post Mondiale, Roberto Baggio appena strappato alla Fiorentina, il guizzante Di Canio, il tedesco Hassler, il rampante Casiraghi.

Finirà male, malissimo, con la Juve fuori dalle coppe europee per la prima volta dopo ventotto anni. «Alla Juve stecco perché sono un asino, un presuntuoso, e la presunzione si paga. Anche se il Barcellona che ci ha eliminato dall’Europa era allenato da un certo Cruyff che aveva Laudrup, Stoichkov, Bakero e Koeman. Anche se non mi avevano preso Dunga. Anche se Casiraghi è stato fuori quattro mesi per infortunio. Ma ho sempre avuto una regola di vita: mai voltarsi indietro e guardare sempre avanti». Vero in parte. Lo chiama Paolo Mantovani per raccogliere l’eredità di Boskov alla Sampdoria, ma il cuore è un pessimo alleato quando c’è da prendere una scelta. «Voleva me, aveva l’approvazione degli uomini spogliatoio: Mancini, Mannini, Vierchowod. Rifiutai e, ulteriore clamoroso sbaglio, tornai a Bologna. Lo feci per non scontentare gli amici con cui avevo passato anni indimenticabili. Ma già alla partenza del pullman verso il ritiro, mi chiedevo cosa ci facessi lì». Di nuovo a Bologna per cercare invano un’altra promozione, dopo l’inattesa retrocessione agli ordini di Scoglio prima e Radice poi, nonostante una squadra arrivata ai quarti di finale di Coppa Uefa. Digerito l’esonero, seguiranno Genoa, Venezia, Brescia, Pescara, Esperance, Albacete, Reggiana, senza mai essere all’altezza di quella presunzione che l’aveva portato così vicino al sole. «Eppure sono arrivato alla Juventus partendo dal Real Brescia. Non è da tutti».

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