“Quel che resta del giorno” è un gioiello poco conosciuto del cinema d’autore anglo-americano anni ’90: racconta la malinconia di un uomo dalle qualità eccezionali e dal carattere di acciaio, che ha sacrificato tutto, e in particolare il calore umano, per dedicarsi anima e corpo a preservare l’impeccabile efficienza della tenuta e del personale del decadente casato nobiliare inglese per cui lavorava, caduto infine in disgrazia.
Russell Westbrook, con i suoi outfit sgargianti e la sua parlata abrasiva, stridula e strascicata, è molto lontano dal prototipo di inappuntabile valet de chambre inglese interpretato da Anthony Hopkins, ma nei suoi occhi, dopo l’eliminazione, si può ritrovare la stessa malinconia. Un sentimento inevitabile nel momento in cui si chiude una delle più straordinarie stagioni individuali nella storia del gioco, che però lascia ben poco ai suoi Oklahoma City Thunder dal punto di vista dei risultati sportivi e delle prospettive future: un record dignitoso (47-35, otto W in meno dell’anno scorso, due in più del 2014-15); il classico gentlemen’s sweep (4-1 “a testa alta”) al primo turno di playoff; un roster molto giovane ma al tempo stesso molto difficile da migliorare (le estensioni di Steven Adams e Victor Oladipo lo porteranno ben oltre il cap già dalla prossima stagione), senza dimenticare l’incombente rinnovo di Andre Roberson e il fatto che due delle prossime quattro prime scelte, 2018 e 2020, sono già state cedute.
Di questa stagione, però, non può restare soltanto la malinconia, l’amarezza per come si è conclusa e per le magre prospettive future: il carattere di acciaio e lo straripante talento di Westbrook ci hanno infatti regalato record forse inarrivabili, prestazioni soprannaturali, momenti emotivamente indimenticabili.
Le cifre
Partiamo dai freddi numeri: del record di triple doppie abbiamo già abbondantemente parlato, ma è bene ricapitolarne i connotati essenziali per i più distratti: secondo giocatore nella storia con una tripla doppia stagionale di media; record assoluto ogni epoca per triple doppie totali (42, contro le 41 di Oscar Robertson); record per triple doppie con almeno 50 punti segnati (tre); per il maggior numero di punti segnati in una tripla doppia (57 contro gli Orlando Magic), dopo aver già eguagliato a dicembre il precedente record di 53 che apparteneva nientemeno che a Wilt Chamberlain; una tripla doppia “perfetta” a referto, senza errori dal campo e ai tiri liberi (6/6 e 6/6 il 22 marzo contro i Sixers); due distinte strisce da sette partite consecutive in tripla doppia (negli ultimi 30 anni solo Michael Jordan ne aveva realizzata una).
Per quel che riguarda le statistiche avanzate individuali — che non dicono tutto e sono spesso eccessivamente semplificative, ma offrono comunque interessanti spunti di discussione — Westbrook ha chiuso nettamente al primo posto nel Player Efficiency Rating (30.6, 17esima prestazione ogni epoca, all’interno di in una stagione in cui ben sei giocatori sono arrivati almeno a 27, un livello raggiunto soltanto in 95 occasioni nella storia della lega); è stato anche primo per Value Over Replacement Player (12.4, staccando nettamente il secondo posto di James Harden, fermo a 9.0); primo per Box Plus-Minus con +15.5 (anche in questo caso James Harden si è fermato, molto attardato, a +10.1); primissimo per Usage Rate (41.9%, record di tutti i tempi, che ha stracciato la stagione 2005-06 da 38.7% di Kobe Bryant, che sembrava irraggiungibile).
Prestazioni straordinarie che sono proseguite anche in post-season, dove RW ha confermato la sua tripla doppia di media (terzo giocatore di sempre a riuscirci e unico a farlo segnando nel frattempo almeno 30 punti a partita, 37.4 per la precisione); è stato il primo di sempre con almeno 150 punti, 50 rimbalzi e 50 assist nelle prime cinque partite e una tripla doppia con 50 punti segnati; il suo duello diretto contro James Harden, dopo la sfida a distanza in regular season, ha fatto la storia anche ai playoff, visto che mai in precedenza due avversari in una stessa serie avevano tenuto medie da almeno 30 punti, 6 rimbalzi e 6 assist ciascuno (hanno chiuso a 37.4-11.6-10.8 l’uno e 32.8-7.2-7.0 l’altro).
Persino questi numeri epocali accumulati nel corso della stagione passano però in secondo piano rispetto al suo incredibile rendimento in the clutch, nei finali di partita punto a punto (secondo la definizione di NBA.com: quando il divario tra le due squadre è di cinque punti o meno negli ultimi 5’ di partita). Westbrook ha chiuso la stagione al primo posto per punti segnati nel quarto periodo; è stato l’unico a superare i 10 punti di media nel quarto (11.6 di media dall’All-Star Game in poi), tenendo a debita distanza Isaiah “The King In The Fourth” Thomas; ha guidato la lega in punti segnati in the clutch (6.2) e nei game-winner messi a segno negli ultimi 10 secondi di gara (ben quattro). Ha preso parte a 148 dei 154 minuti complessivi giocati dai Thunder nel crunch time, durante i quali ha tirato 82/184 dal campo e fornito ai compagni 28 assist, con +21.4 di plus-minus, mentre tutti gli altri Thunder hanno messo a segno, cumulativamente, un ben poco impressionante 53/119.
Le prestazioni indimenticabili
Numeri impressionanti, e che ancora non rendono giustizia all’impatto emotivo di alcune epocali partite, segnate da assalti individuali di Westbrook degni della migliore epica cavalleresca. Tra le altre, segnaliamo:
A Denver il 25 novembre segna 24 punti tra quarto periodo e supplementare, chiudendo con 36-18-12.
A Houston il 5 gennaio perde la sfida con Harden e i Rockets letteralmente all’ultimo secondo (Nené subisce fallo sul 116 pari e segna i due liberi decisivi a 7 decimi dalla fine), ma chiude con 49-8-5 e otto triple segnate.
A Dallas il 26 gennaio ne mette 17 nel quarto periodo e 45 in totale.
Il 3 febbraio, in casa contro i Grizzlies, chiude a 38-11-12; negli ultimi tre minuti, con il risultato sul 99-102 in favore degli ospiti, segna gli ultimi 15 punti della partita, da solo, con un parziale di 15-0 che fissa il risultato finale sul 114-102 per i suoi.
Contro i Blazers dapprima segna 19 degli ultimi 22 punti il 5 febbraio, e poi sale ulteriormente di livello con il massimo in carriera da 58 punti (e 9 assist) il 7 marzo.
Il 27 marzo a Dallas riporta a galla i suoi dal -11 segnando 12 punti negli ultimi 3’30’’ e il buzzer beater decisivo.
Il 29 marzo a Orlando guida la rimonta da -14, segna il canestro del pareggio con una clamorosa tripla fuori equilibrio a 7 secondi dalla fine e conduce i suoi alla vittoria nei supplementari, chiudendo con 57-13-11.
Per chiudere in bellezza, il 9 aprile a Denver, nell’ultima partita giocata per intero, ne mette 50-16-10 per superare Oscar Robertson con la quarantaduesima tripla doppia, e nel frattempo segna gli ultimi 15 punti della sua squadra, compreso un inconcepibile buzzer beater da nove metri.
Ai playoff, come detto, non ha minimamente rallentato, né ha alterato il suo gioco, né ha allentato la tensione:
In Gara 1 ne segna 22 in due quarti e mezzo, poi i Rockets prendono il sopravvento e con due parziali nella seconda metà del terzo periodo spaccano la partita, che nell’ultima frazione diventa una disfatta.
In Gara 2 chiude con 51-13-10 e per tre quarti tiene i Rockets a distanza, ma nel quarto periodo il suo 4/18 al tiro contribuisce al 24% di squadra che condanna nuovamente gli ospiti.
In Gara 3 il copione sembra ripetersi: Westbrook tiene in vantaggio i suoi per gran parte della gara, a fine terzo periodo è già in tripla doppia (23-10-11) e i Thunder sembrano potersi aggiudicare la partita: nel quarto periodo, però, la fatica si fa nuovamente sentire, le polveri si bagnano, i Rockets rientrano da 92-102 al 111-111 in meno di 5 minuti; i padroni di casa riescono a prevalere solo con qualche tiro libero e grazie alla tripla del k.o. di Harden sputata dal ferro all’ultimo tiro.
In Gara 4 il copione della serie è ormai assestato: i Thunder tengono la testa della corsa per gran parte della gara, prendendosi cospicui vantaggi all’inizio del primo e terzo periodo, ma perdono la sfida tra le rispettive second unit e alla lunga si vedono sopraffatti dai Rockets, che nel finale di gara sono più lucidi e molto più efficienti, mentre l’attacco dei Thunder diventa asfittico; questa volta Westbrook non molla, ne mette 18 nell’ultimo periodo, chiude con 35-14-14… ma la vittoria va ai Rockets, che di fatto chiudono qui la serie.
Gara 5 è l’epilogo della serie e della stagione, e Westbrook si fa trovare presente ancora una volta: i Rockets sembrano scappare via già nel secondo periodo, ma Westbrook ne mette 20 in un erculeo terzo periodo in cui porta i suoi dal -11 al +7 (chiuderà con 47-11-9); Lou Williams e i comprimari dei Rockets recuperano tutto lo svantaggio all’inizio dell’ultimo periodo, schiantando per l’ennesima volta la panchina dei Thunder, poi Harden e Westbrook rientrano in campo e danno vita a un duello rusticano da cui emerge vittorioso il Barba (13 punti negli ultimi 7 minuti).
L’impatto emotivo
Nel momento in cui Kevin Durant ha annunciato la sua decisione di firmare coi Golden State Warriors, era facile attendersi un Westbrook scatenato, mostruoso, come lo descrisse il mai troppo compianto Grantland; anche su queste pagine, nelle preview stagionali, ci immaginavamo che fosse pronto a lasciare il segno.
La realtà ha superato la fantasia: in una stagione ricca di trame e sottotrame, di grandi giocate e grandissimi giocatori, RW ha preso in ostaggio emotivamente la lega, concentrando su di sé la maggior parte delle attenzioni, sia in positivo che in negativo.
È iniziato tutto il giorno stesso dell’annuncio di Durant, con un post su Instagram apparentemente innocente, ma che ha dato vita alla saga del CUPCAKE; l’ascia di guerra ampiamente dissotterrata è stata lucidata e sventolata in aria già il 26 ottobre, al momento della presentazione delle sue nuove Jordan Westbrook 0.2, con un più che eloquente video “Now I Do What I Want”.
I mesi successivi ci hanno regalato l’endorsement di Kendrick Lamar, la notizia della prossima nascita del suo primo figlio, alcune delle sue impagabili, esilaranti reazioni, i commenti molto meno ilari quando qualcuno giocava duro, derideva i suoi compagni o tentava di metterli sul banco degli imputati, cui ha risposto con il già proverbiale “Don’t try to split us up. Next question”.
Ci hanno regalato anche la tanto attesa sfida mano a mano con KD, il diverbio a centrocampo chiuso con un minaccioso “I’m coming”, ma anche il catartico alley-oop durante l’All Star Game, e la conseguente reazione della panchina dell’Ovest, a cui il termine “entusiasta” non rende giustizia.
Questa però non vuole essere una agiografia: la stagione di Westbrook ha presentato anche molti lati oscuri, esasperati e ingigantiti dalla corte di detrattori che lo segue dovunque.
RW non è un giocatore universalmente amato, inutile nasconderlo: il suo carattere non proprio gioviale e solare, e il suo atteggiamento di contrapposizione con i media non lo mettono in buona luce con il grande pubblico, e il suo stile di gioco non convenzionale esacerba i peggiori istinti dell’esercito dei nostalgici del “Basket Di Una Volta”. Nascono così le narrative del Westbrook antipatico, spacca-spogliatoio, dal basso QI cestistico, che non migliora i compagni, che offende e distrugge Il Gioco, I Fondamentali e soprattutto la figura del Play Classico.
Lasciando da parte le forme di hating puro e semplice e l’ottusità preconcetta di reazionari vari, ci sono comunque alcuni fondamenti di verità in queste critiche, elementi che gettano significative ombre sulla sua valutazione.
È stato nientemeno un opinion leader come Zach Lowe — della cui competenza e lucidità di analisi non è dato dubitare — a sollevare il dubbio che la tripla doppia di media sia stata inflazionata, nella sua componente più complicata da ottenere per una point guard (i rimbalzi), da una precisa scelta tecnica di squadra volta a lasciare a lui la maggior parte dei rimbalzi difensivi non contestati. Va anche sottolineato però che questo “trucco” non ha impedito ai Thunder di essere la miglior squadra della lega a rimbalzo (53.4%), anzi: lasciare che sia lui a gestire la transizione equivale molto spesso alla miglior situazione di gioco possibile per un attacco che a metà campo fa inevitabilmente più fatica per la cruciale mancanza di tiro perimetrale.
È altrettanto indiscutibile che il suo stile di gioco aggressivo e istintivo non sia l’ideale per mettere i compagni (peraltro con scarso pedigree tecnico) nelle migliori condizioni per rendere, e anzi il suo Fuoco Sacro risulta talvolta controproducente, come dimostrato nell’ultima partita giocata: nella foga di accaparrarsi un rimbalzo offensivo in traffico, non si è accorto di averlo sottratto dalle mani di un compagno che stava per eseguire un facile tap-in, dando l’impressione di averlo stoppato.
Benché Westbrook abbia appena concluso una delle migliori stagioni di tutti i tempi per quanto riguarda la percentuale di canestri dei compagni segnati su un suo assist (raggiungendo vette che appartenevano soltanto a John Stockton), il suo supporting cast non si trova sempre sulla sua lunghezza d’onda, come dimostrato dal fatto che ha chiuso la stagione in testa al gruppo, oltre che per molte voci statistiche positive, per “bad pass turnovers” (oltre a distinguersi per la seconda stagione ogni epoca per palle perse complessive, secondo solo a James Harden).
È certamente vero che il resto del roster è largamente carente quanto a talento offensivo, e non riesce minimamente né ad alleviare il suo fardello di principale creatore e realizzatore della squadra, né a tenere botta offensivamente (e, sorprendentemente, neanche difensivamente) nei momenti in cui RW riposa in panchina. Questo non toglie che Westbrook sia più che incline a prendersi quelli che sono oggettivamente dei Brutti Tiri — senza ritmo, senza aver mosso la palla, spesso dai 6-7 metri — e, soprattutto, che tendono a togliere fiducia ai compagni, i quali in certi momenti nemmeno più si aspettano un suo passaggio.
D’altra parte però è altrettanto vero che il supporting cast dei Thunder è stato assemblato con l’idea di dominare a livello fisico, atletico, di rimbalzi e difensivo, e svolge egregiamente questo compito: forse è eccessivo pretendere da loro che si facciano trovare anche pronti, lucidi ed efficienti quando ricevono il pallone a freddo, all’esito dell’ennesima improvvisazione della loro superstar, le cui intenzioni sono quasi sempre difficilmente prevedibili anche per chi gioca insieme a lui da anni.
Un po’ come le sue intenzioni in difesa, dove troppo spesso si lascia battere dal palleggio cercando improbabili recuperi da dietro o, peggio ancora, lascia tiri completamente smarcati ad avversari considerati scarsi al tiro (secondo la sua considerazione) per girarsi di spalle e andare a rimbalzo. Un atteggiamento a tratti incomprensibile anche al di là del fatto che in attacco debba sostenere sulle spalle un fardello enorme, e che quindi si senta “giustificato” a impegnarsi di meno nella metà campo difensiva.
Sono proprio queste ultime considerazioni a spiegarci perché ripensare a questa incredibile stagione di Westbrook ci lascia un retrogusto amaro, malinconico: sono le contraddizioni insite nel suo stile di gioco unico, nel suo comportamento abrasivo e divisivo in campo e fuori, che però non manca mai di suscitare emozioni forti in chiunque segua l’NBA anche per sbaglio: nei suoi tifosi, nei suoi detrattori e anche negli osservatori neutrali.
E forse alla fine è questa la risposta alla domanda retorica che ci siamo posti, questo è ciò che ci resta di Russell Westbrook: nessuno come lui riesce a toccare le nostre corde emotive, positive o negative che siano, e a questa sua emozionante stagione, con tutte le sue esaltanti contraddizioni, ripenseremo per molto, molto tempo. A maggior ragione se verrà coronata da un titolo di MVP che inevitabilmente susciterà discussioni a fine giugno.