Ons Jabeur cammina a passo deciso verso l’ingresso del campo Centrale di Wimbledon. Sopra di lei, una scritta in rilievo su due righe: «If you can meet with Triumph and Disaster and treat those two impostors just the same», se riuscirai a confrontarti con Trionfo e Rovina e trattare allo stesso modo questi due impostori. Un verso di una poesia di Rudyard Kipling, lo scrittore britannico famoso per Il libro della giungla e per la sua idea che il colonialismo fosse il «fardello dell’uomo bianco». Jabeur cammina a passo deciso verso il suo destino: diventare la prima tunisina, la prima araba, la prima africana a vincere il torneo di tennis più prestigioso e più bianco del mondo.
Dietro di lei, c’è Markéta Vondroušová.
Vondroušová viene dalla Repubblica Ceca, un paese dell’Europa centrale con poco meno di undici milioni di abitanti e otto tenniste tra le prime 50 del mondo. A differenza della Tunisia, la Cechia non ha bisogno di sognare per sapere come ci si sente a vincere i Championships: nella sua storia è successo quattro volte. Diventano tredici se si considerano i nove piatti sollevati da Martina Navratilova, la campionessa cecoslovacca con cittadinanza statunitense. Ma Vondroušová, nonostante la storia sportiva che la precede e la osserva dagli spalti, non dovrebbe esserci in finale.
Perlomeno, nessuno se lo sarebbe aspettato. Neanche suo marito: fino al giorno prima era ancora a Praga, a prendersi cura del loro gatto Sphynx. Dopo un inizio promettente e un primo – e fino a questo weekend unico – torneo vinto a diciassette anni nel 2017, gli infortuni hanno condizionato la sua carriera. Tra un problema fisico e l’altro, era riuscita anche a conquistare una finale al Roland Garros nel 2019 e un argento olimpico a Tokyo due anni dopo. L’anno scorso in questo periodo era a Londra come turista con un polso ingessato. In ogni caso l’erba non le è mai piaciuta. Eppure ora lei si trova qui, alle spalle di Ons Jabeur e sotto la frase di Rudyard Kipling, all’ingresso del campo Centrale di Wimbledon.
Del resto, la ceca non è nuova alla sensazione di essere la terza incomoda in un appuntamento con la storia: alle Olimpiadi di Tokyo ci aveva messo poco più di un’ora a infrangere troppo presto – solo al terzo turno – il sogno di tutto il Giappone di vedere la campionessa di casa Naomi Osaka trionfare. Osaka aveva concesso il primo set in 24 minuti, forse schiacciata dall’ansia delle aspettative. La giapponese era stata tra le prime a esporsi sulle difficoltà emotive e psicologiche che questo sport comporta. Vondroušová era sembrata immune a questo peso, sfruttando ogni errore che le veniva concesso. Chissà quanto questa vittoria, così dolorosa per così tanti, l’ha preparata agli eventi di sabato.
La ventiquattrenne di Sokolov è arrivata a questo confronto con Trionfo e Rovina da numero 42 del ranking WTA. La prima non testa di serie a raggiungere la finale di Wimbledon. Non è stato un percorso facile, la storia di Vondroušová si sarebbe dovuta fermare già contro Jessica Pegula, numero 4 del seeding. La statunitense conduceva il terzo set per 4 giochi a 1 con la possibilità di ottenere un altro break. Il gioco di Pegula sembrava fatto apposta per mettere in luce i difetti dell’avversaria: il suo rovescio rimbalzava troppo poco per il dritto mancino della ceca, che funzionava meno del solito. L’ora di Vondroušová, però, non era ancora arrivata. Dopo una breve pausa per la chiusura del tetto, ha capito cosa doveva cambiare: «Ho deciso di spingere più forte con il dritto e mi sono ritrovata» ha raccontato dopo la partita. La ceca, in quel terzo set, ha poi vinto cinque game di fila: 6-4, 2-6, 6-4.
Si è guadagnata così l’occasione di entrare per la prima volta al Centrale e perdere contro l’ex numero 3 del mondo, l’ucraina Elina Svitolina. Che bella storia sarebbe stata: Svitolina, campionessa di un Paese devastato dalla guerra, in finale a Wimbledon dopo essere entrata con una wild card, a soli nove mesi dal suo primo parto. Una storia così bella che nemmeno lei ci credeva prima del torneo, e si era comprata i biglietti per un concerto di Harry Styles. Ma ormai, con in mano lo scalpo della numero uno del mondo Iga Świątek, il successo sembrava già scritto. Vondroušová però non ha accettato nemmeno per un secondo il suo ruolo di ricompensa e vittima sacrificale. Si è allungata su ogni palla, ha vinto più della metà dei punti in risposta e ha soffocato l’impresa eroica dell’ucraina: 6-3, 6-3.
Nel primo pomeriggio del 15 luglio, il giorno della finale, il sole splende su Londra. Questa volta se il tetto del campo Centrale è chiuso è colpa del vento: le raffiche sono forti e da diverse direzioni, così gli organizzatori hanno deciso di non compromettere la qualità della partita. Liberi da ogni contingenza climatica, gli stili di gioco delle finaliste possono esprimere il loro massimo potenziale. Quanti colpi può inventare Ons Jabeur, non un sospiro potrebbe spingere fuori le sue smorzate.
La tunisina gioca un tennis di precisione e di invenzione, diverso da quello che ha monopolizzato il circuito femminile negli ultimi anni, di pura potenza da fondo. Prima di essere soprannominata “ministra della felicità” per il suo atteggiamento sempre positivo, Jabeur veniva chiamata Roger Federer. Per anni gli appassionati la hanno guardata giocare benissimo e perdere, ma si sapeva che c’era qualcosa di grandioso sotto.
Nel 2019, dopo aver raggiunto il terzo turno degli Us Open, l’allora ventiseienne Jabeur è stata premiata dalla London Arabia Organisation come donna araba dell’anno. Più che la constatazione del risultato sportivo già ottenuto, sembra un titolo premonitore: nel giro di due anni i pianeti si sono allineati, da giocatrice da top 100 si è trasformata in top 10. Quella di sabato era la sua terza finale in uno slam, tutte nel giro di un anno solare: la prima a Wimbledon 2022, poi Us Open sempre nel 2022 e di nuovo Wimbledon. È diventata così la prima giocatrice in cinque anni – l’ultima era stata Serena Williams – in grado di guadagnarsi due finali di seguito a Londra. Ora ha fatto il suo ingresso anche nella classifica del “numero di finali di uno slam giocate di fila senza vincerne una”. Quante classifiche si fanno nel tennis.
Jabeur ha avuto un percorso luminoso fino in finale. L’erba esalta le sue caratteristiche di gioco, rende le sue palle corte ancora più definitive, le sue soluzioni ancora più esaltanti. L’anno scorso, le malelingue avevano bisbigliato che in finale c’era arrivata solo perché il tabellone era stato fortunato. Quest’anno, tutti i sospetti sono stati spazzati via. Jabeur ha sconfitto quattro vincitrici slam: Bianca Andreescu, Petra Kvitova, due volte campionessa a Wimbledon, Elena Rybakina, che l’anno scorso l’aveva battuta in finale, e infine Aryna Sabalenka. Con la vittoria della semifinale in rimonta su Sabalenka, la sua antitesi tennistica, si è compiuto il più grande capolavoro del torneo di Jabeur, quello che la preparava alla vittoria finale. O almeno così sembrava.
Dall’altra parte Vondroušová in carriera ha vinto solo quattro partite sull’erba prima di questa edizione dei Championships. Le due tenniste alla vigilia dell’incontro sono state paragonate per alcune delle soluzioni che trovano. Entrambe condividono un gioco meno dipendente dalla potenza, più preciso, e creativo. «Siamo uguali in certe cose. Giochiamo palle corte, giochiamo slice», ha detto la ceca. I giornalisti anglofoni le definiscono «crafty», una parola che indica un po’ l’astuzia, un po’ l’abilità manuale e un po’ la capacità di tirarsi fuori da una situazione complicata utilizzando entrambe. Intraducibile in italiano, per il senso di mestiere e invenzione che conferisce al loro gioco.
Sembra diverso però lo spirito da cui nascono, le palle corte delle due. Jabeur cerca la cosa complicata. Nel 2022, in un’intervista al New York Times prima delle WTA Finals, ha dichiarato: «Mi piace sorprendere tutti, non fargli capire che colpo sto per tirare. Mi espone al rischio, ma va bene. Adoro l’adrenalina che mi dà». Per Vondroušová invece la scelta della smorzata è arrivata un po’ per caso: «C’era un allenatore nella città dove sono nata, e lui giocava così, con drop shot eccetera, quindi forse l’ho imparato da lui». La ceca nel 2019 sintetizzava così il suo tennis: «Cerco semplicemente di essere aggressiva, magari con qualche variazione. Voglio solo servire e muovermi bene».
Nonostante l’originalità del loro gioco, quella di sabato 15 luglio si rivela una delle finali più brutte dei Championships di cui si ha memoria. Forse se avesse vinto Jabeur non sarebbe importato tanto a nessuno: la bella partita doveva essere solo il coronamento di un bel torneo e soprattutto di una bella storia. Ma ha vinto Vondroušová.
Prima della partita più importante, le due si erano incontrate sei volte e il bilancio era in equilibrio perfetto, tre vittorie a testa. Le ultime due, entrambe giocate nel 2023, se le era aggiudicate la ceca, agli Australian Open e al Masters 1000 di Indian Wells. Nonostante questo, Jabeur è la favorita assoluta per tutti, perché ha più attitudine all’erba, perché è la sua seconda finale di fila, perché ha più gioco, più talento, più tutto.
Vondroušová, dal canto suo, è entrata in campo pronta a ricoprire, questa volta sì, il suo ruolo di vittima sacrificale e ricompensa. La tunisina ha in mano il gioco all’inizio del primo set. Fa e disfa: sale velocemente 2 game a 0, poi 2 pari, poi ancora avanti di un break e Jabeur si ritrova in vantaggio per 4 game a 2 con il servizio a disposizione. Eccola l’occasione per ipotecare il primo set, la favorita lo sa e vuole farlo in fretta. La tensione delle aspettative raggiunge dei picchi sconosciuti fino a quel momento: primo rovescio in rete, poi un dritto steccato e infine una risposta vincente di Vondroušová a una seconda timida.
A ogni punto perso Jabeur aumenta la foga nel passare al prossimo, così in meno di un minuto deve fronteggiare tre palle del controbreak: la prima la vuole risolvere a modo suo, con un’invenzione. Invece la smorzata che produce è troppo lunga, l’avversaria troppo vicina, la ceca non può sbagliare e infatti non sbaglia. Quel drop shot tremendo è il manifesto della bruttezza della partita. Il primo set dura altri diciotto punti, sedici dei quali li vince Vondroušová.
Nelle quattro partite che hanno preceduto questa, la tunisina ha perso il primo set in tre occasioni. Questa volta è diverso però, si percepisce. E non solo perché la ceca ha una delle migliori risposte del circuito. Le emozioni della testa di serie numero sei hanno preso il sopravvento. Le bloccano le braccia e le gambe, non si presenta quasi mai a rete ed è costretta a cercare soluzioni impossibili da fondo campo che finiscono in rete o in corridoio. Il secondo set comincia come è finito il primo: Jabeur subisce il terzo break di fila.
Nel game successivo prova a ribellarsi al destino, si incoraggia, mostra il pugno, sfoga tutta la frustrazione repressa nel silenzio e nella fretta durante il primo set. È ancora la sua partita, la sua vittoria, la sua storia. In un moto di orgoglio prova a stravolgere l’inerzia dell’incontro, ma è solo un gioco di prestigio per cercare di spaventare la ceca. Il momento di rottura capita di nuovo quando Jabeur ottiene il massimo vantaggio, 3 game a 1 con il servizio a disposizione. Il parziale a favore di Vondroušová da questo punto in poi è di 5 game a 1. «La sconfitta più dolorosa della mia carriera», l’ha definita la tunisina in lacrime.
Tutti i meriti della ceca nella partita si possono riassumere nei suoi ultimi due turni di servizio: «Sembra Djokovic», commentano i telecronisti di Sky, Elena Pero e Paolo Lorenzi. Non tanto per il talento, quanto per la freddezza che le ha permesso di concludere un match così pesante, brutto e travagliato nel modo più sicuro possibile. Così, Markéta Vondroušová ha rovinato un’altra storia, la più grande finora, quella della prima tennista tunisina, la prima araba, la prima africana a vincere il torneo più bianco del mondo, al cospetto della Corona dell’ex impero coloniale britannico e sotto la frase di Rudyard Kipling. La ceca invece ha brindato con una birra e ha consolidato il suo ruolo di guastafeste.
Osaka, Svitolina, Jabeur, tenniste tra le più carismatiche, rappresentavano qualcosa più grande di loro e più grande del tennis stesso. O almeno più grande di una partita contro Markéta Vondroušová.
La ventiquattrenne, però, ha una storia tutta sua da raccontare. Ogni suo successo ha ritoccato qualche record. Nel 2017, quando ha vinto il suo primo torneo partendo dalle qualificazioni, occupava la 233esima posizione del ranking WTA ed è diventata la giocatrice più bassa in classifica ad aggiudicarsi un torneo da quando Kim Clijsters trionfò agli US Open nel 2009. Poi due anni dopo, nel 2019, ha raggiunto la finale del Roland Garros senza perdere neanche un set a nemmeno vent’anni, diventando la più giovane finalista del torneo francese da Ana Ivanović nel 2007. L’argento olimpico vinto nel 2021 è stato il miglior risultato in singolare, maschile e femminile, della storia della Cechia. Ora è diventata la prima giocatrice non testa di serie ad accedere alla finale di Wimbledon e la prima a vincere.
Ai più superstiziosi non sarà sfuggito che tra un record e l’altro, c’è sempre stato un buco di un anno, spesso riempito da infortuni, cominciati a soli sedici anni con i problemi al gomito sinistro. Sul destro, di gomito, in mezzo ai tanti tatuaggi che stuzzicano la curiosità alle conferenze stampa, una scritta: «No rain, no flowers», senza pioggia non nascono fiori. Un messaggio disarmante nella sua semplicità, che tutto sommato racconta la filosofia della ceca. Aspettando, le cose belle arrivano e a volte crescono spontanee. Alla vigilia della finale lo aveva detto lei stessa: «Prima della stagione dell’erba, mi sono detta “ok, proviamo a vincere qualche partita, senza stress, e poi ce ne andiamo sul cemento”».