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Tutta la magia di "Quelli che il calcio"
07 ago 2023
Storia di un programma che ha portato in televisione il fascino del calcio alla radio.
(articolo)
7 min
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C’era un attimo, uno soltanto, in cui il carrozzone di “Quelli che il calcio” improvvisamente si fermava. La ruota panoramica, fatta di volti così diversi tra loro, smetteva di girare. Era il momento in cui, dalla regia, veniva alzato il rumore di fondo di uno dei tanti stadi di giornata. Ricreare quella sospensione infinita dei cambi di campo di Tutto il calcio minuto per minuto anche all’interno di un contesto di puro intrattenimento sembrava una sfida impossibile, eppure veniva vinta domenica dopo domenica, minuto dopo minuto. Solo rumore, l’urlo di un’esultanza di una curva compatta oppure quello sfumato di un settore ospiti da 700 anime: il cuore in gola, immaginando l’epilogo. Prima dell’arrivo della voce del radiocronista, nelle primissime edizioni del programma, o prima dell’indizio in grafica, quando lo show era ormai così consolidato da potersi permettere il lusso di mandare praticamente in tutti gli stadi d’Italia inviati diversi da quelli che siamo abituati a immaginare oggi, bisognava provare a capire chi avesse segnato.

Il 26 settembre cadranno i trent’anni dalla prima puntata di una trasmissione che ha cambiato il modo di raccontare il calcio in Italia. Se ne torna a parlare in anticipo su quella ricorrenza per una notizia triste, la scomparsa di Edrissa Sanneh, che per tutti, in quegli anni, era diventato semplicemente Idris: giornalista, opinionista, arcijuventino, più di ogni altro la rappresentazione plastica di tutto ciò che aveva funzionato in “Quelli che il calcio”. In un Paese in cui parlare di calcio è un affare di stato, in cui il complimento a questa o quella squadra diventa etichetta di partigianeria, la prima incarnazione del programma ideato da Marino Bartoletti, con la provvidenziale sponda del visionario direttore di Raitre dell’epoca, Angelo Guglielmi, aveva saputo azzerare tutti i preconcetti: dare spazio a tifosi dichiarati per non temere di inciampare nelle accuse, abbinare alla seriosità del calcio un linguaggio surreale, non rinunciare al gusto della provocazione pur in un contesto splendidamente sano. A Idris toccava il ruolo, che poi ruolo non era, dello juventino: non lo era perché gli bastava portare in video una passione effettiva. Poteva dire, pensare e fare quel che voleva, sempre nei limiti dell’educazione. Era colto e smaccatamente fazioso, entusiasta e brillante, divertente, irriverente. «Quando usciva dalle righe mi chiedeva di “perdonarlo” ed era fin troppo facile, vista la sua candida bontà», ha scritto Marino Bartoletti ricordando quello che non ha avuto timore di definire un pezzo della sua vita. Ingranaggio perfetto di una macchina che aveva avuto il pregio di togliere sacralità al campionato.

All’apice della notorietà, per Idris si aprono anche le porte del grande schermo.

Cresciuto agli ordini di Gianni Brera al Guerin Sportivo dopo aver iniziato la sua attività giornalistica al Resto del Carlino, all'inizio degli anni Novanta Marino Bartoletti è già un volto caro agli sportivi italiani: due anni di conduzione del “Processo del Lunedì”, in cui era stato possibile vedere Carmelo Bene lanciarsi in commenti sulla Serie B, quindi l’incarico di prestigio al timone della “Domenica Sportiva”. Aveva quindi assecondato il vecchio amore cartaceo, andando a dirigere, nella sua stagione più esaltante, il Guerin Sportivo, per poi accettare, come quasi tutti in quegli anni, la corte serrata di Silvio Berlusconi, occupandosi della fondazione e della direzione della neonata redazione sportiva dei canali del Biscione, oltre che della conduzione di “Pressing” e “Domenica Stadio”.

Per anni, nel suo peregrinare, Bartoletti aveva mantenuto un chiodo fisso: trasportare in televisione il fascino di Tutto il calcio minuto per minuto, quell’attimo di sospensione già citato in precedenza. Ma se la radio porta con sé una magia apparentemente irriproducibile e la possibilità di tenerla accesa in sottofondo mentre si fa altro, mantenendo però l’orecchio sulla cronaca, in tv tutto diventa molto più difficile. Riempire quei momenti di attesa con un programma di puro intrattenimento è la molla che scatena la fantasia di Bartoletti, che vuole dare spazio alla voce dei radiocronisti storici di Radio Rai e creare degli intermezzi di talk-show brillante, con comici di prima grandezza e personaggi fino a quel momento totalmente sconosciuti che si trasformano in volti noti. La “quota giornalistica” spetta a Bartoletti e a Carlo Sassi, uno dei pionieri della moviola, portata in tv per la prima volta con fini di analisi arbitrale nell’ottobre del 1967 per cercare di fare chiarezza sul gol fantasma di Gianni Rivera in un derby di Milano. Per il ruolo di conduttore, Bartoletti e Bruno Voglino, all’epoca capostruttura Rai, scelgono il non ancora trentenne Fabio Fazio, reduce da alcune esperienze come imitatore e conduttore di programmi per ragazzi. Una lucida follia. Angelo Guglielmi avrebbe voluto addirittura Dario Fo.

Un promo di Quelli che il calcio, edizione 1993, con Fazio che imita Jannacci.

Uno studio più o meno affollato, uno schermo con le facce dei radiocronisti in presa diretta, le voci che si alternano agli sketch e alle storie di personaggi improbabili, frutto di una ricerca maniacale degli autori. E poi, la sigla-monumento di Enzo Jannacci, che prendeva e plasmava la sua “Quelli che…” volta per volta, consegnando al pubblico di Raitre prima e Raidue poi ogni domenica qualcosa di diverso, sempre ironico, sempre tagliente. Un pezzo che gioca su ritmi lentissimi, quasi interamente parlato: la versione originale risale al 1975 e dà il titolo a un album di Jannacci concettualmente lontanissimo dai successi degli anni precedenti. “Vengo anch’io. No, tu no”, scritta con Fiorenzo Fiorentini e Dario Fo, aveva scalato le classifiche anche grazie alla mannaia della censura, che aveva cancellato una strofa particolarmente cruda scritta da Fo sulla dittatura nel Congo e sul disastro di Marcinelle, disinnescando così buona parte del significato della canzone. “Quelli che…”, invece, è un album in cui si percepiscono echi di teatro-canzone di stampo gaberiano, non a caso amico fedele di Jannacci. Costruito attorno alla struggente “Vincenzina e la fabbrica” e a “El me indiriss”, l’album si prendeva poi questa gigantesca pausa di “Quelli che…”, una canzone di durata infinita, che nelle esibizioni dal vivo cambiava forma proprio come l’avrebbe cambiata per il programma televisivo, mantenendo sempre quella capacità erosiva tipica della scrittura di Jannacci.

Una delle tante sigle di Quelli che il calcio.

<>Due filoni narrativi corrono di pari passo. Da un lato la cronaca delle partite senza avere a disposizione le immagini, dall’altro il racconto dell’Italia della domenica, questo sì, con inviati improbabili dislocati in giro per il Paese. La contaminazione è alla base di “Quelli che il calcio”: le incursioni di Teo Teocoli e Anna Marchesini; Suor Paola che tifa Lazio guardando un monitor minuscolo; Everardo Dalla Noce che dopo anni di collegamenti da Piazza Affari per il Tg2 diventa l’inviato speciale sui campi principali della giornata; Paolo Brosio che vede mutare la sua fama dopo essere stato il volto degli interventi davanti al Tribunale di Milano durante gli anni ruggenti di Tangentopoli; il designer giapponese Takahide Sano che prende vita in un personaggio di fama nazionale. E poi l’inno della Fiorentina sparato dagli altoparlanti delle tv di tutta Italia a ogni gol dei viola dal regista-tifoso Paolo Beldì, l’Atletico Van Goof, il Maifredi Team chiamato a riproporre con gli ex giocatori le reti segnate sui campi in tempo reale.

Nulla era al proprio posto e dunque tutto era perfettamente in ordine, un caos organizzatissimo che si appoggiava a un palinsesto calcistico domenicale ancora ricco di partite in orario pomeridiano per far filare tutto al meglio. Punte di oltre 7 milioni di spettatori a guardare un programma che parlava di calcio senza far vedere nemmeno un calcio d’angolo: la radio era finalmente arrivata in televisione, prendendosi tutto quello che di buono e assurdo la tv poteva offrire. Con il progressivo svuotamento della domenica, “Quelli che il calcio” ha perso la sua stessa natura. Prima c’erano pochi spazi da riempire tra un frammento di partita narrata e l’altro, poi, in maniera inesorabile, erano diventati pochi i momenti di calcio tra una gag e l’altra, non per scelte editoriali ma per mancanza di materia prima. Soprattutto, sono arrivate le partite, quelle vere, trasmesse ovunque, a qualsiasi ora, a portata di telecomando, di computer, di streaming. Non abbiamo più sentito il bisogno di immaginare, di immedesimarci in questo o quel tifoso, di prenderci un po’ meno sul serio. Per un malinteso senso del progresso, come cantava qualcuno.

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