Mitologie minori
Alle 13.30 del 22 Giugno 1986, la più alta sublimazione della mescidanza tra divino e trascendente mai vista su un campo di gioco si è già compiuta. A quell’ora l’Argentina, che in quegli anni - e in particolare quel giorno - è poco più di una sineddoche di Diego Armando Maradona, ha pressoché portato a termine il processo di frantumazione - sportivo e metaforico - dell’Inghilterra. Sono di già andate in scena sia l’apparenza della Mano de Díos che l’apparizione del Gol del Secolo.
Dopo la rete di Gary Lineker che accorcia le distanze all’81esimo, l’Inghilterra si affaccia verso la porta argentina in cerca di un pareggio in cui nessuno crede più di tanto. John Barnes con una serie di finte disorienta Enrique, poi attacca la profondità sulla fascia sinistra e mette al centro un cross arcuato che sembra cogliere di sorpresa Pumpido. Il portiere alza la mano di richiamo ma la palla è troppo alta: disorientato si volta, e si accorge che alle sue spalle, sulla linea di porta, c’è ancora Gary Lineker pronto a impattare in tuffo.
Pochi istanti dopo la palla sta rotolando verso la fascia opposta.
Come quel pallone non sia entrato in rete lo si capisce solo dal replay: Olarticoechea, con una diagonale, è riuscito ad anticipare l’allora stella dell’Everton e salvare il risultato. El Vasco è il numero 16 che poggia una mano al palo e getta lo sguardo nel vuoto; pare stia rileggendo rapidamente, dentro di sé, il significato e le implicazioni del suo intervento. Oppure prefigurando i what if che un ritardo nella chiusura avrebbe potuto scatenare.
Dietro agli Eroi, ai capipopolo, ai Líder Máximos, si celano spesso gregari necessari: il loro ruolo è quello di avere un’intuizione geniale, come nascondersi dentro un cavallo di legno e nottetempo mettere a ferro e fuoco la città nemica, oppure scagliare quasi fortuitamente un dardo che andrà a colpire la propria nemesi proprio nel punto insospettabilmente più vulnerabile. Julio Olarticoechea è uno di quei protagonisti da mitologia minore.
Trent’anni dopo, El Vasco è chiamato di nuovo a vestire i panni del salvatore della patria.
Guiderà la Albiceleste ai Giochi Olimpici di Rio, assumendo il timone del vascello rioplatense nel pieno della Tempesta Perfetta che ne fa scricchiolare la carena: mentre impera un’anarchia annichilente, nel panorama calcistico argentino Olarticoechea è un Enea che dovrà sorregge Anchise sulle spalle.
Il fútbol argentino oggi, definito per sottrazione
Con la rinuncia di Messi a vestire la maglia della Nazionale l’Argentina ha perso il genio più rappresentativo, lo spirito guida, la sua croce e la sua delizia. Non ha un punto di riferimento, non più. Ogni organismo - intendo dire, ogni apparato dotato di vita pulsante nel calcio albiceleste - è di fatto acefalo: anche Gerardo El Tata Martino, l’ultimo direttore tecnico, ha gettato la spugna e rassegnato le dimissioni.
Una foto pubblicata da Leo Messi (@leomessi) in data: 23 Giu 2016 alle ore 16:20 PDT
«Che disastro quelli dell’AFA, per dio». Sarebbe ingiusto caricare tutto il peso della sconfitta in Copa América Centenario, l’intero globo terracqueo, sulle spalle di Titano Messi. Certo, Lio sapeva che in ballo c’era la credibilità sua, del Tata, di una Selección della quale non era mai stato così condottiero. Però va detto che non c’è stato nessun corpo direttivo che, dall’altro argine dello Stige, gli abbia saputo porgere una mano d’appoggio logistico prima, salvifica poi.
Il nadir vero è stato a un passo quando Gerado Warthein, il presidente del Comitato Olimpico nazionale, una manciata di giorni fa ha disvelato il rischio - poi scongiurato, anche se il quando e il come sono una parte importate della narrazione di questa discesa agli inferi che si è fermata a un passo dal baratro - che la Albiceleste potesse non partecipare, che in buona sostanza significava ritirarsi, dai Giochi Olimpici brasiliani.
Che fine ha fatto la superpotenza che due mesi fa davamo per vincitrice annunciata della Copa América Centenario e potenziale Coney Island dell’hype a Rio?
Il Perito Moreno non è che si scioglie in un giorno, dopotutto.
L’ultima stazione della Via Crucis (la più eclatante, ma non inattesa): le dimissioni di Martino.
«A causa dell’incertezza nella designazione dei nuovi quadri dirigenziali della Asociacion del Futbol Argentino e dei gravi disagi nel riuscire a comporre la rosa dei giocatori che rappresenteranno il paese nei prossimi Giochi Olimpici il corpo tecnico della Seleccion ha deciso di rassegnare le sue dimissioni con decorso immediato».
È avvilente che le motivazioni delle dimissioni del Tata, lesive per certi versi dell’immagine dell’AFA - che viene dipinto come un organismo completamente spogliato di ogni autorità e potere decisionale, addirittura impotente - siano state espresse con così tanta chiarezza proprio nel comunicato pubblicato sul sito ufficiale della Federcalcio. La sottile linea tra l’autoaccusa e la trasparenza massima s’assottiglia fino al punto in cui l’una si confonde con l’altra, come cielo e mare nelle giornate, appunto, d’afa.
Carlos Bilardo è stato tra i primi a esprimersi sulle dimissioni del tecnico. E il punto di vista del Narigón è stato molto critico. «Una volta che un tecnico è in carico, con un piano pluriennale, bisogna tenere presente che questo si fa così, e questo così, e questo così. Una volta che si accetta bisogna sapersene stare zitti».
Martino, invece, di callarse la boca non ne ha voluto sapere. I Giochi Olimpici, da una parte, potevano essere la sua occasione di riscatto, l’opportunità di salvare credibilità e posto. Ma di contro c’era il rischio di una nuova frustrazione, di una nuova battaglia delle Termopili: e presentarsi a Rio senza i migliori calciatori U23, i motivi della cui assenza sono vari - ma questo è un argomento sul quale bisognerà tornare più avanti e più approfonditamente - era come presentarsi di fronte al plotone d’esecuzione senza camicia e con un bersaglio dipinto sul petto.
«Il fatto è che è molto difficile chiedere a qualcuno di andare in guerra senza soldati», ha affermato, con una punta di mestizia, Claudio Tapia, il vicepresidente dell’AFA attualmente in carica, l’unica figura istituzionale che è sembrata davvero vicina alle vicissitudini recenti della Selección.
Definirsi per sottrazione, ancora più nel profondo
Ci sono altre cose, oltre il capitano e l’allenatore, che il Calcio Argentino, oggi, non ha; lacune assai eloquenti dell’intima e profonda crisi che sta vivendo il fútbol rioplatense.
1. L’Argentina non ha un presidente federale, e non lo avrà per almeno un altro anno
L’AFA, la federcalcio nazionale, tanto per cominciare, non ha un presidente. Non ce l’ha dalla morte di Julio Grondona, nel 2014, perché il vicario José Luis Segura, di fatto, non ha mai preso davvero, un po’ per rispetto del suo mentore Don Julio un po’ per volontario immobilismo, alcuna decisione dirimente. Le ultime elezioni federali, tenutesi nel dicembre scorso, sono state il palcoscenico di guerre di potere e squadrismi partitari, una prosecuzione con gli stessi mezzi della politica grondoniana, culminati in un finale ridicolo ai limiti della farsa e in un esito beffardo: nonostante i membri dell’Assemblea siano 75, la votazione si è conclusa con un’assurda condizione di parità di 38 voti per uno, in spregio di ogni logica, tra i candidati Segura e Marcelo Tinelli.
Don Julio Grondona, la più cristallina personificazione della gestione solipsistica di una Federcalcio. Qua è ritratto, nel 1979, subito dopo la sua nomina.
Tinelli è il simbolo più adamantino di cosa sarebbe voluto e potuto diventare, e allo stesso tempo di cosa sia poi effettivamente diventato, il calcio argentino: produttore e conduttore televisivo molto en vogue, giovane e intraprendente, personaggio mediatico e figlio di una cultura che non discredita le amicizie e gli agganci ai limiti del torbido, Tinelli sembrava perfetto per incarnare l’ideale macrista di rinnovamento. Vicepresidente del San Lorenzo, ha avuto un ruolo di primo piano nell’insediamento alla presidenza dei Cuervos di Matías Lammens, figura carismatica quanto controversa ben descritta da Dario Saltari qualche tempo fa. In generale è uno di quei personaggi con un portfolio ben fornito di bazze, eppure a ben ragionare non è che sia - o si sia rivelato - poi così dissimile da Segura, che invece incarna l’archetipo del traghettatore salomonico che si tiene lontano dalle decisioni importanti.
Entrambi finiscono per inscriversi nel solco di una modalità operativa fedele alla più gattopardiana delle tradizioni. Propendono più per il maquillage creativo che per la rimozione totale dei vertici e la successiva sostituzione. Sono entrambi, per pigrizia, o forse convenienza, connivenza o convinzione, figli ed eredi del sistema di opinione inaugurato e pasciuto per quattro decadi da Julio Grondona. Il che è comprensibile per Segura, forse, ma non per Tinelli, non per il sedicente homo novus.
Come ha ben descritto Daniel Lagares in un editoriale sul Clarín intitolato significativamente «Benvenuti alla morte del calcio argentino», anche lo stesso Tinelli - nonostante premesse diverse - è caduto nella trappola velleitaria di voler diventare un «nuovo Grondona» anziché cominciare a pensare a «una nuova AFA senza Grondona».
Anche e soprattutto per questo motivo la sua corsa allo scranno presidenziale, parallelamente al peggiorare dello stato di salute del calcio argentino, è parsa non solo inverosimile, ma potenzialmente dannosa.
https://twitter.com/cuervotinelli/status/738436873186611200?ref_src=twsrc%5Etfw
E infatti sul suo profilo Twitter (che un po’ fa venire le vesciche al cervello, tra un selfie con Evander Holyfield sul palco di Bailando, il programma che produce e conduce, e uno con Coloccini con la maglia del Ciclon ) Marcelo ha dichiarato che alla fine avrebbe rinunciato alla presidenza della AFA per «questioni di indole personale».
Il passo indietro di Tinelli non può e non deve apparire improvviso o immotivato. L’indole personale di cui parla nel suo tweet è la voglia di evitare di trovarsi impantanato in uno stagno malmostoso di corruzione e indebitamenti come quello in cui l’AFA ha dimostrato di versare.
Un deficit di più di un miliardo di pesos, un contratto assai oneroso per Fútbol Para Todos, il progetto che si occupa della trasmissione delle partite della Primera e che comporta utilizzo di denaro pubblico, che il Governo non ha molta intenzione di onorare (e l’utilizzo di fondi è peraltro oggetto di investigazioni da parte della Inspección General de Justicia): l’AFA è talmente ridotta male che la FIFA (d’accordo con la CONMEBOL) ne ha chiesto il commissariamento.
Nonostante la nomina ufficiale non sia ancora arrivata, il nome più gettonato per la presidenza di questa Commissione Normalizzatrice è quello di Fernando Mitjans, membro dell’esecutivo FIFA vicino al neopresidente Macri, già presidente del Tribunale di Disciplina della AFA. Ad affiancarlo probabilmente ci saranno Fernando Marín, il coordinatore di Fútbol Para Todos nominato dalla nuova presidenza, l’uomo che il Governo reclama per sé nel direttivo, ma anche un ex calciatore (si parla di Diego Milito, David Trezeguet o Daniel Bertoni).
2. L’Argentina non ha un campionato attrattivo (e ha rischiato proprio di non averlo per niente)
La Primera, da quando ha deciso di allinearsi ai principali campionati europei, si è barcamenata tra una serie di formule provvisorie alla ricerca del formato più adatto alla conformazione non solo calcistica ma anche geografica del Paese.
Il progetto di creazione di una SuperLiga, a 30 squadre e su base annuale (con le stagioni dunque non più divise tra Apertura e Clausura), che è l’ultimo proposto dopo il campionato di transizione super-rapido che si è svolto tra febbraio e giugno e ha finito per incoronare campione un team senza grandi ambizioni o retroterra come il Lanús, non ha mancato di sollevare divisioni tra club: a nessuno sembrava la soluzione più accattivante per dare vita a un campionato avvincente, combattuto fino alla fine, livellato in termini di tasso tecnico espresso e peso specifico delle società coinvolte.
Spalti pieni il giusto per Crucero del Norte vs Aldosivi a Misiones durante la Primera 2015.
Soprattutto il rischio, come ha sottolineato Pablo Paladino, coordinatore di Fútbol Para Todos durante la presidenza di Kirchner, era che Boca, River, San Lorenzo, Racing e Independiente, vale a dire le Grandi del calcio argentino, accentrassero il potere economico nelle loro mani, dando vita a una situazione antidemocratica per i club minori in termini di pianificazione della ripartizione dei guadagni e catalizzazione dell’attenzione.
Riunita in assemblea straordinaria, invece, a metà Luglio l’AFA ha finito per approvare la nascita del nuovo formato di campionato. La novità più eclatante è che gli introiti derivanti dalla televisizzazione delle partite non saranno più riscossi dall’AFA ma dalla Superliga stessa, che di fatto si occuperà di ripartirli internamente (c’è da intendere, con gli squilibri temuti in principio). E il patron del Boca Daniel Angelici ha anche lasciato presagire che in futuro potrebbe inaugurarsi una specie di privatizzazione, questa sì molto europea, dei diritti televisivi del campionato.
3. Negli stadi argentini non ci sono più i tifosi
Dal 2013, vale a dire da quando un sostenitore del Lanús venne assassinato durante un match della sua squadra a La Plata, contro l’Estudiantes, agli hinchas è fatto divieto di seguire le proprie squadre in trasferta.
Abolire questo veto, o provarci in maniera strutturata almeno, era uno dei primi obiettivi che si proponeva il programma di Macri - molto attento allo scenario calcistico e non solo per via dei suoi trascorsi da presidente del Boca, ma perché comprendere e risolvere le problematiche legate al calcio in Argentina significa prendersi carico di molte delle responsabilità sociali: riportare i tifosi allo stadio sollevava l’urgenza di una soluzione politica che avesse a che vedere non tanto (e soltanto) con la pubblica sicurezza, ma – più profondamente – con la percezione del senso di legalità.
>
Non restano che i giocatori
Macri a sette mesi dal suo insediamento, almeno per quello che riguarda il panorama calcio, non sembra avere bene il polso della situazione, né essere in grado di incidere in maniera profonda sulle scelte che il fútbol argentino necessita. Poche settimane fa ha dato incarico a Carlos Mac Allister, suo stretto e storico collaboratore ed ex dipendente quando con la maglia del Boca solcava la fascia sinistra, di relazionarsi con l’AFA affinché l’immagine del paese esca il più pulita possibile dall’immobilismo che ne sta caratterizzando le mosse. «Sembra che l’AFA non abbia interesse per i Giochi Olimpici», ha dichiarato el Colorado nei giorni in cui si parlava con insistenza di un ritiro dai Giochi di Rio. «Sarebbe bene che allora si esprimessero i giocatori, gli unici che sanno quanto rappresentare il Paese sia un onore», ha aggiunto passando il testimone della responsabilità a chi va in campo.
Il problema principale è che dopo la sconfitta in finale di Copa América, l’addio di Messi e le dimissioni di Martino, sembra che nessun calciatore abbia voglia di indossare la camiseta albiceleste a Rio: una responsabilità pesante, in un contesto non propriamente ideale per esprimersi al meglio, per scampare dal quale molti di loro, spalleggiati dai rispettivi club che ne detengono il cartellino, hanno adottato una exit strategy morbida ma inesorabile.
Il regolamento FIFA permette infatti ai club di negare ai propri tesserati il permesso di rispondere alle convocazioni delle Nazionali quando gli impegni di queste ultime non ricadono all’interno delle finestre determinate dalla stessa FIFA, tra le quali non ricadono le Olimpiadi.
Agli albori di Luglio, a meno di un mese dall’inizio dei Giochi a Rio, i calciatori che si erano detti pronti a rispondere alla convocazione erano solo 12. Il 6 Luglio è stata finalmente diramata la lista finale, che ha poi subito cambiamenti in corso d’opera (Vietto, ad esempio, o per meglio dire il Villareal, si è tirato indietro, mentre il Sāo Paulo con un piede fuori dalla Libertadores ha repentinamente concesso il proprio lasciapassare a Jonathan Calleri): quella che ne è scaturita è una rosa che a livello qualitativo è di molto inferiore a quella che il Tata Martino aveva immaginato a metà maggio (Hype e antiHype).
Non ci saranno Dybala, Icardi, Cervi, Kranevitter. Martino immaginava che i club avrebbero potuto opporsi alla convocazione dei loro talenti: sperava che una vittoria in Copa América potesse risvegliare nei giovani la volontà di rappresentare l’Albiceleste a tutti i costi. E in ogni caso aveva previsto un’alternativa locale, cioè impegnata in Argentina, per ogni ruolo.
Il fatto è che alcune defezioni vanno registrate anche tra le seconde scelte: non ci saranno infatti né giocatori del Boca (gli xenéizes sono impegnati nelle semifinali di Libertadores) né del River o dell’Independiente, più per partito preso che per reali motivi che gli impediscono di cedere i propri tesserati per un bene comune superiore.
Juan Verón, presidente dell’Estudiantes e coordinatore delle Selezioni Nazionali, ha lanciato un appello affinché tutti i presidenti di Primera lascino andare i propri calciatori se ciò possa essere d’aiuto al lustro del movimento, pur mostrandosi molto polemico con Martino: «Prima di fare una lista sarebbe stato il caso che il direttore tecnico avesse tenuto conto di questa possibilità».
Un altro snodo critico è il discorso su chi prenderà le redini della Selección immediatamente dopo la fine delle Olimpiadi, dando per assodato che l’incarico a Olarticoechea sia da intendersi ad interim e dettato più dall’emergenza che da un reale progetto (El Vasco è stato nominato commissario tecnico solo in quanto unico allenatore a busta paga della Selezione, dopo essere stato sollevato dal ruolo di CT della Sele femminile non qualificatasi per le Olimpiadi). I nomi che circolano sono quelli di Simeone, Sampaoli, Bielsa: tutte ipotesi suggestive, perché è di un nome altisonante e di un allenatore di alta caratura che l’Albiceleste ora ha bisogno, per puntare la qualificazione a Russia 2018, ma in buona parte difficilmente realizzabili. Anche se discutere adesso del nuovo Commissario Tecnico è come sorseggiare un tè in salotto sforzandosi di non notare l’elefante che dorme sul divano.
«Non si tratta di scegliere il gestore di un chiosco sulla spiaggia», ha dichiarato Veron. «Si tratta del futuro del calcio argentino».
Per ora, il presente sta tutto in un allenatore a tempo determinato e in una squadra almeno sulla carta lontana da quella che si immaginava avrebbe dominato i prossimi Giochi Olimpici.
La fetta più importante della partita che determinerà il futuro, però, non si giocherà in campo a Rio, ma in calle Viamonte, dove si trova la sede dell’AFA.
È dagli avvenimenti che si svolgeranno in quel luogo che capiremo se sarà il caso di intonare un requiem in memoria del defunto calcio argentino, o se si tratterà solo di attendere che la fenice, dopo aver mandato ogni sua piuma in cenere , sia di nuovo pronta per rinascere.