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La tappa in cui Vincenzo Nibali vinse il Tour de France
09 lug 2024
09 lug 2024
Racconto della vittoria di Nibali in una tappa infernale, che portò L'Equipe a definirlo "dantesco".
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Ufficialmente è segnata come tappa di media montagna. Il dislivello positivo totale, in realtà, non supera i 500 metri. È una tappa piuttosto breve, la quinta del Tour de France 2014: poco più di 150 chilometri. Eppure, nella zona di partenza, la tensione si taglia con un grissino. Dopo il trittico di tappe nel Regno Unito, il Tour torna all’estero per la partenza da Ypres, in Belgio. Se si potesse misurare l’importanza di una corsa ciclistica grazie allo status delle persone accorse sulle strade di essa, questa tappa farebbe invidia a tante: ci sono Filippo re del Belgio e soprattutto Eddy Merckx, Bernard Hinault e Raymond Poulidor.

Nel descrivere cosa provasse da ragazzo quando andava a vedere le corse di bicicletta di Coppi e Bartali, Vasco Pratolini scriveva: «Ero un ragazzo e volevo vedere i santi che facevano i miracoli». Ecco, viste le condizioni climatiche Merckx e gli altri, più che i santi, sono arrivati a Ypres per vedere l’inferno terrestre.

Che non sia una giornata qualunque lo si capisce dai primi colpi di pedale, ma occorre fare un passo indietro, ai giorni precedenti e alle prime tappe di quel Tour de France. Il favorito per la vittoria finale, intanto, era uno: Chris Froome. Aveva vinto l’edizione precedente e, sebbene non avesse ancora acquisito lo status di dominatore, aveva impostato tutta la sua stagione sulla Grand Boucle. Subito a ruota del britannico del Team Sky partiva Alberto Contador, forte di quattro Grandi Giri vinti in carriera fin lì (due Tour, due Vuelta) e le vittorie, in questa stessa stagione, di Tirreno-Adriatico e Giro dei Paesi Baschi. Nell’immaginario comune in terza posizione c’era Vincenzo Nibali.

Se l’anno prima il siciliano volava (vittoria del Giro d’Italia, secondo alla Vuelta, quarto al Mondiale), il suo 2014 stentava a decollare. Non aveva vinto nessuna corsa fino ai Campionati italiani, nei quali peraltro aveva faticato a battere un giovane Davide Formolo. Sul traguardo aveva agitato i pugni con rabbia, quasi a togliersi un piccolo peso. Il Tour è un’altra cosa e anche il livello della sua Astana non è considerato al pari né della corazzata Sky né della Tinkoff-Saxo di Contador. Già alla seconda tappa del Tour, però, da York a Sheffield, Nibali aveva dimostrato di possedere i diamanti nelle gambe.

È una delle sue vittorie più famose. Nei chilometri finali di una tappa molto mossa oltre i 200 chilometri, rimangono una ventina di corridori. Perlopiù classicomani e uomini da classifica. In tanti provano a evadere dal gruppetto, prima e dopo lo strappo di Jenkin Road, ma Peter Sagan chiude su tutti. Su un attacco non può nulla: ai -1.9, grazie ad una sparata degna del fuciliere di Goodwood, Nibali va a vincere la tappa e a prendersi la maglia gialla.

Le due tappe successive erano volate, vinte entrambe da Marcel Kittel, che si era confermato come uno dei velocisti più potenti del secolo.

La giornatona arriva alla quinta tappa, 9 luglio 2014: 155,5 chilometri (poi ridotti a 152) da Ypres ad Arenberg, nell’intercomunalità di Porte du Hainaut. Basta il nome, “Arenberg”, per richiamare la corsa ciclistica per eccellenza: la Parigi-Roubaix, che nella leggendaria foresta vive i suoi momenti più palpitanti. Al Tour de France non si ricalca interamente il percorso dell’“Inferno del Nord”, ma alcuni settori di pavé bastano per far alzare diverse sopracciglia.

Ogni volta che un Grand Tour affronta una tappa con pavé o sterrati, riparte il solito dibattito. Tappe del genere hanno senso in una corsa di tre settimane? Le classiche non andrebbero lasciate alla primavera? Non si può rischiare di condizionare una stagione intera se qualcosa va storto! Pochi giorni fa, in occasione della Troyes-Troyes, Richard Plugge della Visma ha detto che tappe del genere «non appartengono a Grand Tour» e Patrick Lefevere della Soudal le ha definite «senza senso».

È una critica pure sensata, dal loro punto di vista. Da qualche anno, tuttavia, buona parte dei Grandi Giri ha voluto inserire nei percorsi almeno una tappa così, che possa sparigliare le carte, una sorta di lotteria che secondo gli uni riporta il ciclismo all’epoca pionieristica, secondo gli altri verso la ricerca del colpo di scena fine a sé stesso, verso la netflixizzazione. Una delle più note tappe di questo genere, la Carrara-Montalcino al Giro d’Italia 2010, fu infausta per Vincenzo Nibali: il siciliano era in maglia rosa, cadde negli sterrati tra Murlo e Poggio Civitella, prese due minuti dal vincitore di tappa Cadel Evans e dovette dire addio alla leadership. Quattro anni dopo, tra le pietre da Roubaix del Tour de France, dovrà andare diversamente.

Mentre una malaugurata compagna di viaggio fa capolino a Ypres e tanti corridori si riparano sotto mantelline poco aderenti, ASO – la società che gestisce il Tour – decide di abbuonare due dei nove tratti di pavé: non per magnanimità bensì perché quei tratti sono diventate paludi. Un articolo di Repubblica usa toni omerici: «Un vento freddo spazza l’anima dei corridori» e parla di «mente perversa degli organizzatori».

Pozzanghere, fango, freddo, stradine strette, vecchie mulattiere pianeggianti da superare: «Non ci si può distrarre neppure un solo istante. Oggi ci giochiamo il Tour de France» tuona Beppe Martinelli, direttore sportivo dell’Astana di Nibali. E poi, chiudendo la riunione tecnica: «Qui, oggi, scriviamo la storia». Nel libro La quinta tappa, scritto col giornalista Marco Pastonesi, Nibali ricorda di aver intuito ben presto che la corsa sarebbe diventata una giostra a eliminazione: «Tira vento di guerra» pensò Nibali dopo aver visto i primi corridori cercare la fuga.

Se questi prestiti dal lessico bellico suonano iperbolici a un pubblico moderno, va ricordato che l’uso di un linguaggio del genere risale a inizio Novecento e si deve alla natura povera e sgangherata di questo sport, tanto da divenire parte della letteratura e del vocabolario ciclistico, peraltro molto prigioniero delle proprie tradizioni. Il volantino che venne consegnato ai ciclisti partecipanti al primo Giro d’Italia, nel 1909, recitava: «Corridori!! L’ora è prossima. La battaglia incombe». Nel descrivere un arrivo di Bartali, Dino Buzzati nel 1949 scrisse che «fino all’estremo soffio lottò per il secondo posto sul rettilineo del traguardo: proprio come un soldato che combatte fino in fondo una battaglia anche sapendo che è perduta». Fa particolare effetto – e rimette i superlativi al proprio posto – ricordare che le zone attraversate dalla quinta tappa del Tour 2014 furono teatro di battaglie vere. L'Omega Pharma-QuickStep, squadra belga per eccellenza, aveva ricordato il centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale con l’effigie di un papavero rosso sulle maniche.

Non è facile capire il momento in cui (a proposito di lessico bellico) esplode la corsa. Il primo ad andare in fuga è Samuel Dumoulin, che a differenza della Farfalla di Maastricht, Tom Dumoulin, è bassino e leggerissimo. Presto lo raggiungono Rein Taaramae, Tony Martin, Marcus Burghardt, Janier Acevedo, Tony Gallopin, Simon Clarke e Mathew Hayman. Martinelli urla nella radiolina dell’Astana che deve entrarci anche un loro corridore, nella fuga di giornata: l’onere spetta a Lieuwe Westra, fino a quel momento una Parigi-Roubaix corsa, nessuna terminata.

Il primo settore di pavè (anzi il settimo: li si conta alla rovescia) comincia a circa 70 chilometri dall’arrivo. Si tratta del terzultimo tratto della Roubaix, affrontato qui in senso contrario, Gruson. È dirimpettaio del famigerato Carrefour de l’Arbre e non appena nell’aria si sente odore di pietre la Belkin fa un gran ritmo in gruppo. È una squadra formata solo da ciclisti belgi e olandesi, alcuni dei quali mammasantissima della Roubaix: Lars Boom l’ha corsa nove volte (due Top-10), Maarten Wynants l’ha corsa dodici volte (una Top-10), Sep Vanmarcke l’ha corsa dieci volte (cinque Top-10, nessun ritiro).

La telecamera è così bagnata che non si distingue in volto nemmeno il ciclista in testa al gruppo, a pochi metri dalla moto. Un nome grosso, però, al primo tratto di pavé non arriva nemmeno, e la sua sagoma la si riconosce tra mille. Chris Froome era caduto già all’inizio della tappa precedente, quel giorno va a terra per ben due volte. «Stavolta si è rotto. Mi sa che sale sulla macchina» dice un preoccupato Riccardo Magrini in telecronaca.

Con lui cade un suo gregario, Xabier Zandio, navarro che ha chiuso la carriera al Team Sky e oggi è direttore sportivo nella stessa struttura societaria, la Ineos. Intervistato di recente su quel giorno, Zandio ride beffardo: «Ricordo una giornata invernale in piena estate. Con “Froomey” cadiamo assieme, l’ultima volta è quella fatale per lui. Ricordo di essere ripartito dopo un’eternità, la mia bici si è rotta. Tutti giustamente pensano a Chris, siamo gregari suoi. Se mi chiedessi di altre tappe, magari non me ne ricorderei, ma questa, wow, è una tappa speciale». C’è nervosismo in gruppo, ricorda Zandio, dovuto al fatto che tutti volevano attaccare il pavé in testa. «Tutti vanno a manetta, vento assurdo, pioggia a catinelle. Quante cadute nelle curve, nelle rotonde!».

Zandio e Froome, col polso già fasciato e gonfio come una pesca.

La Rai ha Francesco Moser e Stefano Garzelli in studio. Il primo definisce «grave» il ripetersi delle cadute di Froome: come Wiggins l’anno precedente «sembra uno che non è mai andato in bicicletta». Dopo questa frase, chi ha caricato la tappa su YouTube cambia canale. Da inizio corsa, per la verità, fa zapping tra Rai ed Eurosport premendo a memoria i tre tasti che compongono il numero del canale Sky. Vedere tutto ciò su YouTube a dieci anni di distanza riporta ad un’era con pochissime piattaforme online e tanta televisione, decoder enormi e telecomandi dai pulsanti grossi e spugnosi.

Qualche spezzone di corsa è archeologia ciclistica. Rui Costa della Lampre-Merida è in maglia iridata. Ai -57 chilometri dall’arrivo, la telecamera indugia senza motivo apparente su Rein Taaramae, quasi impossibile da ricordare in maglia Cofidis. Salvo Aiello descrive come il ciclista estone abbia appena superato un periodo difficile: per un anno e mezzo non gli hanno diagnosticato un’escrescenza di pelle tra laringe e faringe, per colpa della quale respirava male. Ora l’hanno operato e sta meglio, è in fuga e si appoggia per una buona dozzina di secondi al finestrino della sua ammiraglia.

Poco dopo viene ripreso Chris Froome, o meglio: la macchina dentro la quale è seduto Froome. Il suo profilo si intravede al di là del finestrino, non si è ancora tolto il casco.

Parlando di copertoni, la telecronaca di Eurosport azzarda paragoni con la Formula 1. Effettivamente la media oraria è da capogiro: 47 chilometri all’ora, in queste condizioni. In Rai, invece, Silvio Martinello ricorda che Mathew Hayman è uno dei pochissimi con esperienza di Parigi-Roubaix bagnate: quella del 2001 vinta da Knaven, quella del 2002 vinta da Johan Museeuw. Poi tutte asciutte.

Anche con Mathew Hayman sono riuscito a parlare di recente. Pur essendo un corridore da classiche, Hayman non è convinto dell’inserimento di queste tappe in un Grand Tour: «I corridori di classifica vengono testati a sufficienza in tre settimane di corsa, anche senza pavé». Gli chiedo se ricorda in che posizione è arrivato, spara a caso ma ci azzecca, incredibilmente. E poi commenta: «Wow, forse il mio miglior piazzamento di sempre al Tour de France. C’est la vie». A dieci giorni dal suo trentottesimo compleanno, nel 2016, Hayman riuscirà a vincere la sua prima e unica Parigi-Roubaix. È arrivato in fondo all’“Inferno del Nord” un numero record di volte, 16.

La corsa passa continuamente tra villette, zone agricole e comignoli anneriti dalla cenere. Visti con gli occhi di oggi, i corridori hanno manubri larghissimi, cavi non integrati nel telaio, calze molto corte, niente body. I freni rim vanno per la maggiore, anche se ogni tanto si sentono fischiare dei dischi. Tutta l’Astana dovrebbe aver passato due o tre giri di nastro bianco sul manubrio per attutire le vibrazioni delle pietre. Nibali è nel gruppo principale, davanti.

La fuga intanto perde pezzi. Burghardt è fermato dalla BMC per aiutare il suo capitano Van Garderen. Acevedo, colombiano per il quale vale certamente il soprannome che danno a tutti i colombiani, “escarabajo”, cade e si fa male sul serio. Dalla testa della coda finisce addirittura in fondo, con Xabier Zandio, che si ricorda di lui: «Arriviamo al traguardo con un corridore colombiano, ma siamo ultimissimi, soli, quasi fuori tempo massimo. Avremo fatto da soli gli ultimi 100 chilometri. Entrambi siamo caduti. Ho tantissimo dolore a una gamba, quasi pedalo con un piede solo».

Continua a capirsi molto poco della corsa. In testa al gruppo compare Geraint Thomas, che lavora per il nuovo capitano della Sky, il tasmaniano Richie Porte. Le squadre peraltro schierano nove corridori ciascuna, uno in più di quelli di oggi: ci sono corridori a ogni angolo. Nel settore di Ennevelin à Pont-Thibault una curva a gomito presenta la parte interna totalmente allagata. Rein Taaramae fa le curve quadrate pur di evitarle, non sa dove mettere i piedi, tanto che li tiene a pari altezza, a metà, in una posizione di stasi curiosa per uno sport in cui si dovrebbe solo frullare sui pedali.

In una simile pozzanghera finisce Sep Vanmarcke, senza scomporsi. Cagnaccio belga e perenne pronostico sbagliato prima di ogni Fiandre e Roubaix, Vanmarcke morde il freno. È a ruota di Daniele Bennati e Matteo Tosatto, due gregari di Contador, vorrebbe partire. Un ciclista accanto a lui – impossibile capire chi – raccoglie così tanto fango che deve staccare un pedale e usare la bici a mo’ di monopattino. Poi però, quando ha serie possibilità di giocarsi la tappa, Vanmarcke fora e addio sogni di gloria: l’esperienza vanmarckiana in pochi minuti.

Il campione nazionale olandese, Sebastian Langeveld, tiene davanti a fatica il suo capitano, fresco vincitore del Criterium del Delfinato, Andrew Talansky. Sotto ad un casco rosso fiammante e occhiali da Neo di Matrix, la leggenda della Lotto-Soudal Lars Bak allarga leggermente il gomito sinistro per chiedere il cambio. Nibali è nel gruppo principale, davanti.

In quello stesso gruppo non c’è più Alberto Contador. Pur senza Mons-en-Pévèle, l’altro settore tremendo della Roubaix rimosso, El Pistolero non riesce a rimanere coi migliori. Perde contatto già ai -44, è circondato dai compagni ma sembra narcotizzato. Viene inquadrato mentre si gira verso altri ciclisti per chiedere un cambio, come se sapesse che i suoi non ce la possano fare da soli.

C’è gente in strada. In queste zone tra Belgio e Francia ci sarebbe gente a vedere il ciclismo anche durante l’apocalisse, basta aprire un ombrello. Sul settore ciottolato di Bersée, Jurgen Van den Broeck finisce largo in una curva e si cappotta nel fosso, Talansky lo imita. Lars Boom anticipa tutti e, sfruttando il buco generato dalla caduta, va all’attacco. Tra i big attardati anche Frank Schleck (nel 2010, quando il Tour arrivò ad Arenberg Porte du Hainaut via pavé, fu costretto al ritiro), Alejandro Valverde della Movistar, Tejay Van Garderen, Richie Porte e Alberto Contador. Tra gregari e capitani è un gruppo nutrito, ma in cui nessuno ha gambe. La corsa si fa davanti, tra la fuga e il gruppo maglia gialla.

Da qualche chilometro Nibali ha un manicotto che gli scivola giù dal braccio. Non ha tempo nemmeno per sistemarlo, oppure è talmente concentrato che nemmeno se ne accorge. Ha evidentemente un solo pensiero, quello di uscire indenne da questa tappa demoniaca. Se i suoi avversari sono costretti a mansioni quasi ridicole (Richie Porte si spruzza con la borraccia acqua in faccia per lavarsi, per dire), Nibali ha raggiunto uno stato zen nel quale sembra non fare nemmeno fatica. Nell’apparente immaterialità del corpo è veramente dantesco, come titola L’Equipe il giorno dopo. Sotto al casco bianco ha un cappellino giallo, si porta in testa al gruppo inseguitore e, voltandosi, rotea insistentemente l’indice verso il basso. Sta incitando Langeveld e gli altri a girare, come si dice in gergo, ovvero contribuire a tirare il gruppo facendo brevi turni in testa al drappello, col vento in faccia.

Lieuwe Westra è ancora in fuga, ma guarda più dietro che avanti. In Astana intuiscono che è il momento cruciale della corsa e lo richiamano: qui cominciano parecchi chilometri in cui ciò che fa Westra è clamoroso. Non solo riporta Nibali e il gruppo maglia gialla su Boom, ma continua a tirare anche dopo. Sta portando a spasso corridori come Tony Martin, Fabian Cancellara, Peter Sagan, Matteo Trentin e un’altra mezza dozzina di passisti di livello assoluto.

Ogni momento può essere decisivo. Ai -23 esatti, mentre il pavé fangoso offre il peggio di sé, mentre un paio di massaggiatori aspettano a bordo strada e come spaventapasseri alzano due ruote di scorta per i propri corridori, in testa al gruppo c’è Sagan. Tiene un’asticella degli occhiali in bocca, da destra lo sorpassa Lars Boom, con una nuova, grande accelerata. Un chilometro e Boom si sbraccia per fare segno alla moto di passare, o forse era un invito a Sagan di non lasciarlo solo. A ruota di Sagan ci sono Mark Renshaw e Jakob Fuglsang, altro gregario di Nibali che in quegli anni non sempre accettava di buon grado di lavorare per altri. E infatti Fuglsang si dimentica di Nibali, inseguendo Boom senza la maglia gialla a ruota.

Ancheggiando, spremendosi sui pedali, Westra riporta nuovamente dentro Nibali. L’olandese è indemoniato: guarda dietro, si soffia il naso, poi guarda l’asfalto con occhi spiritati, cambia pagina sul ciclo-computer e in presa bassa mena di nuovo. Se non avesse un capitano, vincerebbe la tappa. Nibali ha gettato via i manicotti, danza sul pavé come l’idolo di suo padre, Francesco Moser. Da La quinta tappa: «Questo è il momento in cui devo ricordarmi quello che ho imparato studiando Moser alla tv: non stringere troppo il manubrio, non affondare troppo le pedalate, non perdere mai di vista la strada».

Veder pedalare Nibali gli ultimi 20 chilometri di questa tappa è come assistere a uno dei miracoli di cui parlava Pratolini. È sporco come gli altri, ma la maglia gialla lo rende più brillante, i suoi lineamenti da scalatore lo alleggeriscono. È funambolico nell’attutire gli impatti del pavé, ha le gambe giuste per tenere un gran ritmo su asfalto. È pure un gran fondista e si esalta in situazioni climatiche avverse. Più della tappa che ha vinto (Sheffield) e quelle che vincerà (Planche des Belles Filles, Chamrousse e Hautacam), il Tour 2014 di Nibali verrà ricordato con queste immagini qui: gli riesce tutto, e ai suoi rivali niente.

Il primo ad attaccare il penultimo settore di pavé, incredibilmente, è il solito Westra: dopo un paio di curve a gomito, i due battistrada Westra e Fuglsang addirittura allungano. Nibali impiega un momento a tornare sotto; l’Astana ha tre uomini al comando. Fuglsang, danese con un passato nella mountain bike, è l’ultimo protagonista con cui sono riuscito a parlare di questa tappa: «È una di quelle volte in cui le tattiche di squadra funzionano al 100% e ogni cosa va al proprio posto. Una bella giornata, perché quando sei davanti va tutto bene. Avevamo fatto un sopralluogo della tappa mesi prima. Forse Vincenzo ha beneficiato del rispetto che si deve a una maglia gialla, ma è stato tutto perfetto».

Nibali si attacca alla ruota dei due compagni, il trio viene raggiunto da Lars Boom, che infine riesce a staccare tutti sull’ultimissimo settore. Pur avendo anch’egli rischiato di cadere, intraversato e derapato più volte, Nibali ha ormai abbandonato la condizione umana e dà cambi regolari a Fuglsang per guadagnare sempre di più. È una cronometro a coppie nel finale, come si faceva una volta al Trofeo Baracchi. Dietro sono disperati. Talansky evade dal gruppo Contador nel tentativo di limitare i danni, Porte ha la coscia sinistra abrasa. Ha forato anche Jean-Christophe Peraud, al quale in telecronaca non fanno tanto caso e anzi scherzano sul cognome («eh però, Peraud»), ma il francese finirà questo Tour al secondo posto. Un indefinito corridore della Movistar cade nel fosso, trascinando con sé uno spettatore.

Sul rettilineo finale, Boom spalanca la bocca, fa la linguaccia, già assapora il gusto della vittoria. Pochissimi corridori sono così fortunati da non sporcare gli occhiali: tanti hanno già dovuto incastrarli nel casco, nel colletto della maglietta. Altri forse li hanno gettati, frustrati come sono. L’assenza di lenti permette di vederli in faccia: la maglia a pois Cyril Lemoine dev’essere appena sbucato da un camino tant’è fuligginoso. L’arrivo di Lars Boom, che esulta come un pazzo dai -300 metri alla linea del traguardo, è un film. Ha ricominciato a piovere, le luci delle macchine della giuria creano un effetto distopico, i suoi occhi sono gli stessi di Jack Nicholson in Shining.

Secondo e terzo, in ordine casuale vista l’assenza di abbuoni e siccome hanno fatto quasi ogni centimetro di tappa assieme, Nibali e Fuglsang. Hanno dato più di due minuti ai vari Contador, Porte, Valverde, eccetera. Da quarto a ottavo arrivano – in ordine – Sagan, Cancellara, Jens Keukeleire, Michal Kwiatkowski e, tanto distrutto dal non poter nemmeno fare la volata, Lieuwe Westra. Ne La quinta tappa Martinelli lo chiama “l’olandese volante”, il suo contributo pro-Nibali in questa tappa non è quantificabile.

Dei 194 partenti da Ypres, solo uno non è arrivato ad Arenberg Porte du Hainaut: il campione in carica Chris Froome. La tappa di media montagna con 500 metri di dislivello totale ha creato distacchi maggiori di un tappone alpino. Non saprei dire che fine hanno fatto tutti i protagonisti di quel giorno, purtroppo però su Westra siamo sicuri: è morto nel gennaio 2023 per overdose. Secondo tante persone a lui vicine, i suoi eccessi e la sua dipendenza da sostanze erano cominciati prima del ciclismo e sono continuati dopo: pedalare gli ha allungato la vita.

In un bell’articolo in sua memoria uscito sulla principale testata della sua regione, la Frisia, si legge che due terribili incidenti occorsi a colleghi lo hanno molto scioccato: Stig Broeckx nel 2016 ed Amy Pieters nel 2021. In entrambe le circostanze, Westra era a pochissima distanza dalle vittime. Raymond Kerckhoffs, noto giornalista olandese, scrive invece di quando Lieuwe decise di iniziare la Vuelta 2009 nonostante pochi giorni prima fosse morto il padre per arresto cardiaco. Lo fece in omaggio a lui. Come ha corso quella quinta tappa del Tour de France, Westra ha vissuto: auto-distruggendosi, a volte, ma col cuore in mano. Conclude Kerckhoffs: «Dobbiamo salutare Lieuwe, troppo giovane. Anche se possiamo dire che sicuramente ha vissuto per due».

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