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Raccontami la leggenda del Trinche
30 lug 2019
La storia di Tomás Felipe Carlovich, il più forte calciatore argentino che non abbiamo mai visto.
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19 min
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Il soggiorno, angusto ma accogliente, nonostante si trovi a pochi metri dall’umidità tropicale del fiume Paraná, ha le pareti e il soffitto coperto da listelle di legno, sembra uno chalet sulle piste sciistiche di Bariloche: dietro l’uomo che si sta raccontando, medium spiritista in seduta con il passato, il corpo abbandonato su una sedia scomoda. Si scorge un vaso dismesso, dal quale affiorano timidi petali rossi. Appesa al muro una grossa icona del Cristo. Poco distante una foto in bianco e nero, che immortala undici calciatori, la metà dei quali accovacciati. Quell’uomo si chiama Tomás Felipe Carlovich, è uno dei calciatori della foto. Una voce fuori campo gli chiede: «Cosa daresti per tornare ad avere vent’anni?». Carlovich ha un momento di smarrimento, di cedimento. Gli vengono gli occhi lucidi esattamente come chi si è appuntato la domanda, lasciandosela per ultima, si aspettava. «Vorrei tornare a giocare», risponde lui. «Certo, per sentire la gente. Ma è un pensiero che mi manda ai pazzi, che ci vuoi fare?».

Il momento successivo, in cui la voce si spezza e ti sembra di poter avvertire, sotto la camicia slacciata sul petto, il cuore di Carlovich frantumarsi, fa il rumore del mito che si sgretola, dell’eroe in senso omerico che realizza la propria caducità. Il momento in cui la leggenda torna, rarefacendosi, alla sua natura umana. Per capire come sia possibile che il termine leggenda sia finito appiccicato sulle spalle di un perfetto sconosciuto bisogna partire dal presupposto che Tomás Felipe Carlovich è molto più di un ex calciatore: anche se non molti lo conoscono al di fuori dell’Argentina, o forse addirittura dell’area santafesina, affogato nel mare magnum dei mai-definitivamente-emersi, Carlovich è tuttavia il simulacro di un culto sotterraneo, elettivo, l’epicentro di una narrativa minore che si aggruma intorno ai riverberi delle sue giocate, delle sue scelte, dei suoi bivi. Un simbolo, che trascende l’iconicità da t-shirt per farsi in qualche modo punto di partenza e crocevia di una specie di Cammino di Santiago fútbolero, che sancisce un’iniziazione.

Per chi scrive di calcio, presto o tardi, arriva il momento in cui farsi rapire dall’epica argentina. E si finisce a parlare di Rosario, che non è solo la “culla della bandiera”, ma anche di una maniera di intendere il fútbol diversa da quella bonaerense, lontana cioè dei fasti del Boca, del River. E scrivere di calcio e di Rosario, ineluttabilmente, ti spinge a raccontare la storia di Carlovich. È un assioma. “El Trinche” suscita ricerche, smuove istinti documentali: il campo accademico cui afferisce la sua esistenza non è già più il calcio, ma l’antropologia, la sociologia, la letteratura. Ci sono figure che concentrano in sé tutti i topos - come diceva David Foster Wallace in “Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore” - che solleticano la bramosia di chi si appassiona alle vite degli atleti. «Vogliamo sentire di umili origini, stenti, precocità, determinazione, scoraggiamento, tenacia, spirito di squadra, sacrificio, istinto omicida, linimenti e dolori». A volte il risultato - proprio come lamenta DFW nel suo saggio - è mediocre. In altri casi, il racconto si fa letteratura in maniera fin troppo perfetta. Non sempre dipende dall’atleta di per séDi certo, non nel caso di Tomás Felipe “el Trinche” Carlovich.

Simbolo romantico

Carlovich ci mette vent’anni prima di venire al mondo nella città che i suoi genitori hanno scelto come casa quando hanno lasciato la Yugoslavia, durante la crisi del ‘29. È l’ultimo di sette figli, nato nel barrio General San Martín di Rosario, che tutti conoscono come La Tablada: è il quartiere in cui negli anni ‘30 c’era il macello della città, e come spesso accade la più alta concentrazione di immigrati che cercavano nella puzza delle bestie la materia primordiale con cui edificare i propri sogni, e con il cui fetore soffocare i fantasmi.

Tomás racconta che a scuola era un bravo disegnatore: però preferiva il calcio, in quella forma barbara che si gioca nel potrero, il campetto improvvisato per la strada, culla ideale di intere generazioni calcistiche argentine. Nella famiglia Carlovich il calcio aveva una consistenza concreta, quasi come il lavoro in fabbrica: uno dei fratelli di Tomás, “el Chancha”, arrivò a allenarsi con la prima squadra del River Plate. «Era così forte che oggi non ti sarebbero bastati i soldi per comprarlo», racconta Tomás. Ma poi, a contare in famiglia, era soprattutto il lavoro, quello duro, quel tipo di lavoro con cui si campa, come quello che Tomás compie in catena di montaggio, fino a quando ha ventidue anni. Cioè quando è già, per qualche verso, un calciatore professionista, sotto contratto con il Rosario Central.

Di Felipe Tomás Carlovich, Jorge Valdano registra un’annotazione importante. Dice: «Si è trovato nel momento sbagliato nel posto giusto». Perché il calcio che “el Trinche” incontra è già diverso da quello che ha conosciuto per strada, l’unico che non lo faceva sentire, come dice lui stesso, “un salame”. Al principio degli anni ‘70 nel calcio argentino fanno la loro comparsa i preparatori atletici: una figura che rivoluziona completamente la maniera di intendere il fútbol , fino ad allora totalmente incentrata sul potere taumaturgico del talento. A Rosario, sponda Central, il ct è Miguel Ignomiriello, un impallinato della modernizzazione delle tecniche di lavoro e preparazione sul campo. Con “el Trinche”, è un dato incontrovertibile al di là delle cause, non c’è feeling. Tomás scende in campo con i "Canallas" per due partite, poi scompare. Ha ventidue anni, dice di aver pensato anche di smettere. Nessuno, esclusi forse Ignomiriello e Tomás, conoscono la vera causa della rottura precoce: soldi, indolenza, promesse (reciprocamente) disattese, una certa riluttanza da parte di Tomás a seguire la squadra in trasferta, perché voleva dormire a casa sua. Le ragioni sono molte, e tutte - quasi tutte - credibili.

Con la spensieratezza di chi non ha più niente da chiedere alla sua carriera, Tomás decide di accettare la proposta di un cognato, che gli chiede di fare un provino con il Central Córdoba, la terza squadra - e la meno prestigiosa, dopo Centrale e Newell’s Old Boys - di Rosario, che milita in Segunda, la seconda serie. Tomás, nella prima partita, gioca come una divinità greca, stando ai racconti della vulgata, e anche ai suoi. «Mi è riuscito tutto fin troppo facile dall’inizio. Dev’essere stato per questo». La Storia, si dice, la scrivono i vincitori. Nel caso di Tomás, però, per qualche ragione i vincitori sono i sostenitori della sua indolenza cronica, e in quanto tale bohemienne, del suo accontentarsi. Sarebbe potuto diventare l’astro più splendente del firmamento Albiceleste. Invece si è trasformato nella cristallizzazione più adamantina della teoria del what if. Se cerchiamo il brodo primordiale della sua leggenda, è tutto là.

«Era uno che giocava in perfetto “stile rosarino”», dice di lui Julio César Menotti: «Un portatore della genetica di questa città. Era il classico giocatore di potrero: gli immigrati, alla fine, non avevano nient’altro che il potrero». Al Gabino Sosa, lo stadio del Central Córdoba, nella sera della prima partita del “Trinche” in maglia rossonera si accende una scintilla che il mantice della leggendarietà avrebbe insufflato fino a fare di Carlovich un personaggio da bestiario, che molti giurano d’aver visto ma sulla cui esistenza, in fondo, non finisci mai di dubitare. Come in una palingenesi batterica, si racconta che la muffa del mito de “el Trinche” abbia attecchito rapidamente: il refrain sarebbe presto diventato «stanotte gioca el Trinche», e da ogni angolo di Rosario sarebbero accorsi fedeli ad assistere ecumenicamente all’esercizio della sua funzione. Tra loro, tra i fedelissimi del Trinche, c’è anche Marcelo Bielsa, che racconterà a Valdano di averlo seguito per quattro anni, tutti i sabati.

«La sua leggenda è un luogo comune, a Rosario», dice Valdano, «è parte dell’iconografia della città. E si è trasformato in un simbolo romantico di un tipo di calcio che già non esiste più». Un simbolo non necessariamente positivo. “El Trinche” Carlovich sta al calcio argentino come la Santa Muerte al mondo della mala messicana.

Avvolto dal mistero

Una delle scene che mi ha più impressionato, mentre visionavo documentari per trovare risposte ai miei ragionamenti sulla storia del “Trinche”, è quella in cui due studenti universitari vanno alla ricerca di materiale alla sede del Central Córdoba, e un dirigente, un po’ stizzito, si prende la briga di puntualizzare che «il Central ha dato a lui almeno tanto quanto lui ha dato al Central». Dopotutto da una parte c’è un club con 103 anni di storia; dall’altra un giocatore del quale conserviamo neppure due secondi di immagini filmate, queste:

Si tratta di un frammento di una scena di un film irrilevante nella storia della cinematografia che si chiama «El curro»: il numero dieci che si vede dribblare, con uno stile più imbolsito che elegante, eppure in qualche modo di una tecnica superiore rispetto all’avversario, sarebbe “el Trinche”. L’ologramma della sua presenza si è costruito con altri mezzi, lontani dall’immagine e più collusi con la sfera del ricordo evanescente, delle testimonianze. Come si fa a raccontare un calciatore del quale abbiamo solo questo fotogramma? Dobbiamo fidarci delle parole delle persone che l’hanno visto giocare, sperando che il tempo, l’emozione del momento, non distorcano troppo il ricordo. Il culto del mito di un calciatore minore come Carlovich ci dice molto di più di cos’è che cerchiamo noi, nella sfera mitica del calcio, rispetto a ciò che realmente vi si cela.

Ovviamente ha molto a che fare con il mistero. Diego Borinsky, caporedattore de El Gráfico, racconta di come, negli anni ‘70, in redazione, ci fossero cartelle su ogni singolo giocatore della Primera e della Segunda Liga. Gli uomini più in vista ne avevano quattro, cinque per uno. In quella di Carlovich non ci sono più di una trentina di foto. In una ha i baffi, una camicia sbottonata fino allo sterno, pantaloni a zampa. Sembra più una rockstar, che un calciatore. Tzvetan Todorov scriveva che «il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione». L’esitazione è quella del momento in cui devi decidere se, in un’opera, ciò che percepisci è più o meno “reale”, almeno nel senso comune. Se ti convince l’idea che ciò che stai vedendo sia di questo mondo, allora l’opera sarà “strana”. Se invece ammetti la creazione di nuove leggi di natura, in virtù delle quali il fenomeno può essere spiegato, allora scivoli nel campo del “meraviglioso”.

Per molti versi, la storia di Carlovich è un’opera strana. Non si spogliava mai coi compagni, ma coi magazzinieri. A uno di loro consegnava i suoi scarpini: gli davano fastidio i tacchetti, gli chiedeva di passarli sulla pialla finché non fossero cortissimi. Con quegli scarpini giocava su ogni tipo di terreno. Ma per altri, Carlovich è sicuramente un oggetto narrativo da “meraviglioso”. “El Trinche”, per i suoi tempi, era un fenomeno ignoto. Qualcosa che pur accadendo nel presente si sarebbe realizzato nel futuro. Davanti a Carlovich non possiamo che sospendere il giudizio. «Quando un giocatore ha una tecnica superiore te ne rendi conto da certe giocate. Arriva una palla strana, e loro la uccidono, la bloccano, e tu ti chiedi come cazzo faccia, a farlo», dice Carlos Aimar, suo contemporaneo, simbolo del Rosario Central.

Il racconto mitico, per molti versi, è una questione privata. Ognuno ha un ricordo del “Trinche”, e ognuno un referente cui paragonarlo per farne capire i tratti generali a che non l’ha mai visto. El Gráfico lo definiva così: «era un centrocampista centrale elegante, virtuoso e in qualche modo stizzoso. Dal ritmo lento, ma con la velocità mentale inversamente proporzionale al suo andamento». Roberto Fontanarrosa, scrittore rosarino, spiegava come Carlovich avesse anticipato «cose che poi avremmo rivisto in Borghi». Secondo Menotti «faceva giocate intelligenti, ma senza disdegnare l’estetica». C’è chi dice che quello che faceva Maradona, che oggi fa Messi, lo faceva già “el Trinche”.

Circostanziamo di più: il gioco del “Trinche”, sostiene qualcun altro, era il gioco di Redondo. Carlovich era alto, imperioso, non un mostro di rapidità. Però aveva i pensieri rapidi. «Avevo questo dono», dice lui, quando glielo chiedono, e glielo chiedono spesso perché arriva sempre il momento in cui qualcuno viene a chieder conto di ciò che sei stato; «qualche secondo prima che mi arrivasse il pallone vedevo già dove l’avrei dovuto mandare, e il tipo che doveva riceverlo era sempre là».

Si dice che prima dell’inizio di ogni partita sollevasse i pantaloncini fino all’inguine, per «scaldare la gamba». Con quella gamba generava numeri che ci viene complicato immaginare su un campo professionistico: pisaditas, tunnel, stop di petto che spostavano la palla sulla spalla. Esecuzioni da talent show più che giocate in campo. E poi il leggendario caño doble, il doppio tunnel, andata e ritorno, la massima personificazione calcistica dell’irriverenza. Il suo marchio di fabbrica. Carlovich, in campo, era un bignami del calcio da potrero.

Attaccamento

Eduardo Quinto Pagés, portiere di quel Central Córdoba, racconta di aver mantenuto la sua rete inviolata per 606 minuti. Ma il merito, continua, era tutto del “Trinche”, che teneva sempre la palla nella metà campo avversaria. Tra i sottomiti di Carlovich c’è quello secondo cui deterrebbe il record del massimo minutaggio consecutivo in possesso palla: dieci minuti, senza interruzione. «La mia virtù principale era desiderare la palla, in qualsiasi momento. Se non ce l’avevo, ero disperato». Non sono certo che oggi, se avessimo davvero la possibilità di vederlo giocare per una partita intera, non finiremmo per ridefinirlo come giocatore, trovandolo noioso, troppo lento, troppo altezzoso.

L’accusa principale che è sempre stata mossa contro “el Trinche”, che col tempo si è trasformata in qualcosa da accogliere come se si sognasse a occhi aperti, e che invece a me sembra una pecca indelebile, è che gli mancasse la professionalità di cui si bisogna se si gioca a calcio professionalmente. Poi arriverà il momento in cui ci fermeremo un attimo a riflettere sul perché ci piacciano tanto gli indolenti, che tipo di malia esercitino sul nostro immaginario. «Non ci si è dedicato abbastanza», risponde Carlos Aimar quando gli chiedono se secondo lui Carlovich sia più uno di quelli che non hanno voluto o di quelli che non hanno potuto«Non ha mai fatto alcuno sforzo per adattarsi. È per questo che oltre che leggenda è anche simbolo», spiega, puntualmente, Jorge Valdano.

Al “Trinche” piacevano solo alcuni aspetti del gioco, peraltro più speculari di quanto possiamo immaginare. Il primo, fondamentale, era il divertimento. Jonathan Wilson, in “Angels with dirty faces: the footballing history of Argentina”, si pone una domanda interessante su Carlovich: uno abituato al potrero, quando scende in campo davanti a sessanta, centomila persone: come fa a farselo piacere? Il professionismo, per Carlovich, era un tradimento delle proprie radici intellettuali? L’altro aspetto, invece, ed è strano per lui che è la quintessenza dell’individualismo, era la convinzione che fosse sempre la squadra, in quanto tale, a fare la differenza. Forse, nel collettivo, Carlovich vedeva una via di fuga dalle aspettative, dalle responsabilità.

16 aprile, 1974

Ho fantasticato molto, mentre scrivevo questo articolo e ne parlavo con Maximiliano, che lo avrebbe illustrato, su cosa sarebbe potuto succedere se Carlovich, per esempio, fosse arrivato al Boca, al River, se avesse giocato la Coppa del Mondo in casa. Se ad alzare le braccia al cielo, dopo un gol nella finale, invece di Mario Kempes ci fosse stato lui. L’Albiceleste e Tomás Felipe Carlovich invece non si sono mai amati, voluti, neppure osservati a distanza. Sono entrati in collisione, questo sì. Una volta, una soltanto, a Rosario, il 16 aprile del 1974.

La foto che Carlovich ha appesa in soggiorno, chissà se sempre, o solo quando lo intervistano, è la foto della formazione della squadra rosarina di quella sera: cinque calciatori del Rosario Central (tra i quali Mario Kempes), cinque del Newell’s. E poi lui, che non era ancora l’attrazione da vaudeville, il freak da esibire, ma neppure già più il prospetto interessante da scoprire. Era semplicemente l’incarnazione dello spirito di una città che voleva, attraverso di lui, compiere una transustanziazione estemporanea e calcistica. I giornali dicevano che sarebbe stata l’occasione per conoscere la sua straordinarietà.

Quella partita era una partita strana, per la Selección. Di lì a due mesi sarebbe volata in Germania per giocare il Mondiale, ma non era in forma brillante. I vertici federali avevano dato una specie di ultimatum al CT Ladislao Cap, “el Polaco”. Il presidente dell’AFA Fernando Mitjans gli aveva intimato di giocare bene e vincere, altrimenti avrebbero licenziato tutti. Andò a finire malissimo: non quanto Mitjans aveva paventato, ma comunque in figuraccia, perché i rosarini mancarono di rispetto alla Nazionale dal primo minuto, e dopo mezz’ora erano già sul 3-0. La leggenda, che ingigantisce sempre ogni particolare, anche il più insignificante, tramanda che Cap abbia più volte chiesto, con diverse gradazioni di disperazione a seconda di chi lo racconta, di togliere dal campo quel maledetto cinque.

«La verità è che non avrei mai potuto giocare male quella sera», racconta Carlovich, in maniera sempre uguale, in ogni intervista, come recitando un copione mandato a memoria «con quei compagni».

Negazione

La parte più interessante della narrativa sul “Trinche” Carlovich è la maniera in cui l’oggetto della narrazione, anziché astrarsi, elevarsi sugli scudi della mitizzazione, si barcamena goffamente nel processo nient’affatto banale di provare ad autodistruggersi, almeno un po’. «Qua a Rosario si sono inventati un sacco di cose su di me», si schermisce. «Però non sono vere… ai rosarini piace raccontare. Avrò fatto qualche caño, ma mica poi così tanti...». Perché, quando sentiamo un mito negarsi, ricondursi da solo al suo essere terreno, sentiamo il desiderio di non smettere di elogiarlo, e anzi ci sentiamo proni all’adorazione? E se “el Trinche” non fosse mai esistito, e l’uomo che tutti vanno a intervistare non fosse che un attore impegnato in una pièce estemporanea e dadaista che dura da quarant’anni?

«Cosa significa sfondare? Io ho sfondato: non avevo altra ambizione che giocare al calcio, e ci sono riuscito», dice. Non è fin troppo consolatorio? «Se mi dessero ancora novanta minuti e uno stadio pieno, giuro, gioco e muoio contento», confessa. Non è definitivamente assolutorio? Bastano davvero questi trucchetti da sceneggiatore scafato a farci commuovere, romanticamente, per la storia di Carlovich?

“El Trinche” sa che il suo posto al mondo era - o era finito per diventare? - più quello di un cestista degli Harleem Globetrotters, che di un campione della NBA. Lo invitavano a partite dimostrative, a esibizioni come quella che giocò contro il Milan, nel ‘74, con una Selezione dell’area di Mendoza. Era il passepartout per lo spettacolo, un pretesto che diventava fine: una volta dimenticò i documenti per il riconoscimento prima di entrare in campo, e i dirigenti della squadra avversaria garantirono per lui, perché per i loro tifosi era l’unica occasione di vedere in campo una suggestione, prima che un calciatore.

Menotti racconta che quando è diventato CT dell’Albiceleste lo ha preconvocato per una serie di amichevoli, ma Carlovich dice di non ricordarselo. Menotti insiste, però, e aggiunge che aveva trovato una scusa, anche banale, che c’era il fiume in piena e non poteva attraversarlo, pur di non andare.

Nella scelta del territorio su cui esercitare la propria sovranità indiscussa, “el Trinche” è sempre stato incredibilmente specifico: il barrio Tablada, dove tutti lo salutavano, quando lo incontravano per strada. Oppure la cittadina di Mendoza. «La gente ancora mi sorprende. Da tutte le parti. L’altra volta stavo a Mendoza e erano vent’anni che non ci tornavo: la gente usciva dai negozi, nel ristorante in cui mangiavo quando giocavo là avevano ancora sempre tenuto un tavolo per me, c’erano tremila persone allo stadio. E poi vengono ragazzi, che non ti hanno mai visto giocare, e ti dicono che sei il loro idolo. Solo perché glielo hanno raccontato i genitori, o gli zii». Non gli interessava allontanarsi, trascinarsi dietro l’ombra mitica, tenuta con due dita, come una giacca a primavera. Si dice che lo avessero cercato l’Inter, il Paris Saint Germain, i New York Cosmos, dove a porre il veto al suo arrivo fosse stato nientemeno che Pelè, impaurito dall’idea di trovarsi in campo un’altra primadonna. Se vi sembra implausibile, beh, lo è.

Le poche partite che ha giocato in Primera, la massima serie argentina, sono state quelle con la maglia del Colón. Non si era mai infortunato in tutta la carriera: alla terza partita con “el Sabalero” si è lesionato all’adduttore. Il suo allenatore, Urriolabeitia, credeva lo facesse di proposito, a fingersi infortunato, che fosse tutto un problema mentale. Mostrò la gamba ai medici, scossero la testa increduli. «Poi mi sono solo tirato su i pantaloni, e me ne sono andato. Non sarei tornato mai più».

L’epilogo della carriera, ovviamente, è stato ancora una volta al Central Córdoba. Aveva 37 anni e qualche mese più tardi Maradona si sarebbe consacrato come il miglior giocatore del mondo, in Messico. L’ultima partita è stata sul campo dell’All Boys: il giorno prima, quando il pullman della squadra stava per partire per Buenos Aires, l’unico assente all’appello era proprio “el Trinche”. Si è presentato il giorno successivo, a poche ore dalla partita, al raduno dei tifosi, pronti a spostarsi a Floresta. È sbucato da Avenida San Martín con indosso degli jeans sdruciti, delle scarpette senza lacci, una borsa di tela. Un’apparizione, come quella di un Cristo hippie. Quattro ore dopo era in campo.

Concedersi

«Rifarei tutto quello che ho fatto, perché mi sono sempre divertito», dice sempre Carlovich. Forse, però, più per rispetto della figura che l’immaginario altrui gli ha dipinto intorno. La sua vita non è cambiata poi molto: era un fenomeno da osservare in campo, continua a esserlo fuori. «Me ne sto solo, non ho voglia di fare niente. Julio Grondona mi disse che ero il suo calciatore preferito, che si sarebbe fatto carico lui personalmente della mia pensione. Però poi il poveretto è morto, e ora mi tocca fare tutto da solo».

Nel 2002 la città di Rosario lo ha nominato “Sportivo illustre”. Un obolo di 150 dollari al mese per coprire le spese dell’affitto, e una colletta per far sì che potesse curare l’osteoporosi all’anca con l’installazione di una protesi. È un uomo segnato: sotto le rughe nasconde lo stesso sguardo di sempre, un po’ indolente, un po’ rassegnato. Ha la faccia triste di chi riconosce, con consapevolezza, di non essere stato all’altezza. Cammina caracollante per il barrio Tablada, e sbarca il lunario, banalmente, concedendosi. È l’Edward Bloom di “Big Fish” che dietro l’iperbole, in fondo, non fa che ribadire a noi William la propria visione del mondo. Ovviamente gli chiedono spesso chi sia il suo preferito, tra Maradona e Messi. Quando parla di Leo lo chiama sempre «quello del Barcellona».

Non sono sicuro che sia infastidito da tutte le attenzioni che gli dedicano, continuando a intervistarlo, a cercare di scardinargli di dosso una risposta definitiva ai perché della sua mistica. Ne sembra, anzi, in qualche modo compiaciuto. Se c’è qualcosa che ha imparato, in cui è diventato un vero professionista, è che ogni mito si nutre della stessa materia di cui è composto. L’unico e solo processo che permette a una leggenda, anche minore, di perpetuarsi, all’infinito.

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