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Racconteremo a lungo la leggenda di Fedor Emelianenko
08 feb 2023
Si è ritirato sabato, dopo 23 anni, uno dei più grandi fighter della storia delle MMA.
(articolo)
13 min
(copertina)
Matt Davies/IMAGO
(copertina) Matt Davies/IMAGO
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A Bellator 290 il mondo delle MMA ha assistito all’uscita di scena - non perfetta, come spesso accade ai più attempati - di uno dei combattenti più iconici di tutti i tempi, Fedor Emelianenko, uno dei pionieri capaci di ispirare generazioni intere di fighter, che verrà ricordato come uno dei più forti pesi massimi di sempre, forse il più forte in assoluto, senza aver mai combattuto in UFC, oltretutto. Il suo match d’addio è stato una sonora sconfitta condita da insolita tristezza, arrivata per mano dall’ex UFC - ora campione dei pesi massimi Bellator - Ryan Bader, che già nel gennaio 2019 aveva battuto Emelianenko in poco più di trenta secondi. Stavolta ha avuto bisogno di due minuti in più e un gancio in uscita che ha colpito alla nuca Fedor, seguito da un ground and pound inesorabile.

Nato in Ucraina ma di etnia russa (ha detto di non considerare Russia ed Ucraina come due paesi differenti, pur riconoscendone le differenze politiche) Fedor Emelianenko lascia il mondo dei combattimenti a 46 anni, dopo essere arrivato a un livello di fronte a cui ogni discorso circa “il più grande” lascia il tempo che trova. Si è parlato spesso di come il concetto stesso di “GOAT” possa essere limitante e anche ingiusto nella moltitudine di fenomeni che, nella seppur breve storia di questo sport, si sono distinti. Insieme a fighter del calibro di Anderson Silva, Georges St. Pierre, Jon Jones, Emelianenko è ormai nell’Olimpo delle MMA e di sicuro è stato il miglior peso massimo in epoca Pride (l’organizzazione rivale della UFC, da cui poi è stata assorbita nel 2007).

Esistono fan sfegatati e grandi detrattori che si dividono sul valore assoluto di Emelianenko, che ha militato anche in Strikeforce (con più dolori che gioie), in Bellator e nella sua M-1. Ma rimarrà comunque il più grande rimpianto di Dana White, per stessa ammissione del presidente UFC, il quale mai riuscì a farlo cedere alle proprie lusinghe, al contrario del suo concorrente Scott Coker.

Emelianenko ha combattuto contro due generazioni di fighter, e nel momento più alto della propria carriera sembrava semplicemente una macchina invincibile. Famoso per la ferocia, la precisione chirurgica nell’azzeccare il mento quando caricava verticalmente, la capacità di incassare qualsiasi tipo di colpo nel suo momento migliore.

Fedor Emelianenko è stato soprattutto un simbolo: il combattente glaciale e incorruttibile, capace di dominare in lungo e in largo avversari forti e talentuosi ma anche di tornare dagli inferi e ribaltare un match che si era messo nella peggior maniera possibile. Un fighter privo di emozioni, che però quasi si commuove quando, nel rematch contro Mark Coleman (Pride 32, ottobre 2006), dopo aver sconfitto lo statunitense, gli presenta le sue figlie sul ring.

Campione in Pride FC

Avevo 12 anni e gli occhi del bambino quando scoprii, in quelli che ancora venivano chiamati “free fight” (combattimenti apparentemente liberi, e cioè senza regole, che era il fascino iniziale delle MMA) combattenti come “Minotauro” Nogueira o Fedor Emelianenko. Enormi fighter che come moderni eroi di ventura tentavano di conquistare il mondo dall’alto della loro abilità “totale” nel combattimento. Attendevo con ansia le videocassette delle promotion giapponesi, così come quelle di UFC, e mi chiedevo perché i due mondi non si incrociassero (lo avrei capito solo tempo dopo: soldi).

Mentre seguivo le imprese dei vari Tito Ortiz, Chuck Liddell e Randy Couture, la mia attenzione infantile veniva rapita in misura maggiore dal mondo asiatico, dal modo in cui promuovevano i combattimenti e dalle loro regole d’ingaggio ben più estreme. Fu così che conobbi Nogueira, Wanderlei Silva e anche quello che all’epoca era riconosciuto, forse in maniera un po’ semplicistica, quasi unanimemente come “l’uomo più forte del mondo”.

Fedor Emelianenko iniziò il suo percorso sin da subito tra i pesci grossi, in promotion non di secondo piano, per l’epoca. Dopo aver subìto la prima sconfitta in carriera nella promotion Rings nel 2000, in un match contro Tsuyoshi Kohsaka in cui le gomitate erano illegali e che fu interrotto per stop medico a seguito proprio di una gomitata accidentale del giapponese ai suoi danni, Fedor è stato capace di costruire un'incredibile striscia di 28 vittorie consecutive. Incredibile per quel tempo e per la qualità degli avversari affrontati.

Due anni dopo quella sconfitta, nel 2002, ha vinto il torneo assoluto sempre in Rings, per poi approdare in Pride, dove il benvenuto gli fu offerto non da un fighter qualunque ma dal gigantesco Semmy Schilt, quattro volte campione del K-1 Grand Prix ed una volta campione dei massimi Glory. Per via dei suoi 212 centimetri (e 171 chili) ma per il suo striking preciso e pesante e per la grande abilità nella gestione delle distanze, anche gli striker puri che avevano serie difficoltà con Schilt. A Pride 21, invece, Fedor lo superò agevolmente, per battere poi Heath Herring ed arrivare ad affrontare il miglior peso massimo dell’epoca: Rodrigo “Minotauro” Nogueira.

Era il marzo 2003, quasi esattamente vent’anni fa, e Nogueira aveva battuto fior di campioni, tra i quali anche Andrei Kopylov, ex coach di Emelianenko, e aveva vinto il titolo inaugurale Pride battendo proprio Heath Herring. Nogueira era, in termini generali, al livello del russo, ma nel loro primo match il dominio di Fedor fu evidente. Con aggressioni verticali che superavano la guardia del brasiliano, Fedor riuscì a portare a terra Nogueira più volte, costringendolo sulla difensiva, martellandolo coi colpi e pressandolo.

Nogueira era un fighter noto per le sue abilità difensive ma anche per come riusciva a trasformare le situazioni di svantaggio in attacchi, alla ricerca di sottomissioni improvvise e fulminee. Ma grazie a un controllo preciso, freddo, compatto, Emelianenko riuscì a portare a casa la decisione dei giudici e il titolo di campione dei pesi massimi Pride, evitando tutti i tentativi di sottomissione in quella che era considerata la miglior guardia a terra del mondo nelle MMA.

Il pubblico giapponese stravedeva per Nogueira ed era abituato ai campioni brasiliani dai tempi di Rickson Gracie: fu quella notte che nacque il mito "dell’Ultimo Imperatore", che grazie alle sue qualità nel combattimento e al suo “character” glaciale e silenzioso era riuscito a guadagnarsi in maniera definitiva il loro rispetto.

La resurrezione contro Fujita e Randleman

La capacità da incassatore di Fedor, come si diceva sopra, era una delle sue caratteristiche più marcate, specie al picco della carriera. Battuto Nogueira in un un match nel quale il brasiliano era ampiamente favorito, gli organizzatori del Pride tentarono di risollevare l’orgoglio nazionale mettendogli davanti un altro giapponese, Kazuyuki Fujita.

Fujita era un pro-wrestler robusto e dalle mani pesanti, nonstante ciò nessuno avrebbe immaginato complicazioni per il russo nello svolgersi del match. Nelle MMA un momento può valere un intero match, se non addirittura un’intera carriera, e non è mai stato chiaro se Fedor avesse sottovalutato o meno Fujita, fatto sta che il giapponese riuscì a centrare con un gancio preciso in avanzamento la tempia del campione che, barcollante, entrò in clinch e riuscì a proteggersi attaccandosi al corpo dell’avversario per non concedergli lo spazio necessario a caricare i colpi, trascinandolo poi a terra nella sua guardia chiusa.

Passato poco tempo, Fedor tornò in controllo, colpì Fujita con un violento calcio al corpo, poi prese la sua schiena e lo finì con una recar-naked choke. Dopo il match avrebbe confessato che “Fujita è stato l’unico a colpirmi bene, vi assicuro che colpisce davvero forte”. Se per un attimo era sembrato che Fedor fosse battibile, era tornata, nel momento immediatamente successivo, la certezza che fino a che non fosse andato davvero KO sarebbe stato capace di tornare anche dall’oltretomba.

Nella seconda parte della sua carriera, quella post-Pride, a Fedor è stato imputato da una minoranza di fan, ma anche da alcuni addetti ai lavori, di aver “evitato” la concorrenza più spietata. Eppure in Strikeforce, che ai tempi era al livello UFC, almeno nei massimi e nei massimi-leggeri, Fedor incontrò la sua unica striscia negativa di tre sconfitte consecutive, prima di riprendersi poco dopo.

Ma anche in Pride si tende a sottovalutare il livello mostruoso degli avversari con cui ha combattuto quando era campione. A tal proposito, va ricordato il compianto “The Monster” Kevin Randleman, due volte campione di wrestling NCAA division I ed ex campione dei massimi in UFC. Nel 2004 Pride organizzò il Grand Prix, un torneo tra pesi massimi, Randleman era reduce da una scioccante vittoria su Mirko “Cro Cop” Filipovic. Randleman aveva tutte le qualità per battere Fedor: forza mostruosa, atletismo incredibile (e aveva anche un’estetica moderna: i capelli biondo platino saranno di ispirazione a Derek Brunson). Non era altissimo, ma aveva uno specimen fisico che lo faceva sembrare un enorme blocco di marmo scolpito, le sue vene sembravano sifoni.

I due si incontrarono al secondo incontro del torneo. Fu proprio Randleman a prendere in mano il match sin dall’inizio, mettendo a segno un takedown e prendendo la schiena del campione. Da lì, uno dei momenti più assurdi dell’intera storia dello sport: Randleman mise a segno un “german suplex” facendo schiantare Fedor sulla cervicale; un uomo normale, forse, sarebbe morto, Emelianenko invece non sembrò nemmeno stordito dal colpo, si prese qualche secondo per vincere lo scramble, tornò in top position ed ottenne la sottomissione via kimura in poco più di un minuto e mezzo.

La sfida con Crocop

Dopo altri due combattimenti contro Nogueira (il primo dei quali pareva essere partito più sui binari dell’equilibrio, ma che terminò in No Contest a causa di un taglio accidentale subito all’inizio da Fedor), Emelianenko vendicò sportivamente l’unica sconfitta patita in carriera battendo Tsuyoshi Kohsaka. A quel punto era senza dubbio il peso massimo più forte in circolazione.

Non erano in pochi, però, a credere che l’ex campione K-1 Mirko “Cro Cop” (soprannome dovuto al fatto chen era stato un poliziotto, “cop”, e che era “cro”ato) potesse superarlo. Cro Cop era uno striker feroce e molto potente e il suo motto era: “gamba destra ospedale, gamba sinistra cimitero”, i suoi KO se li guadagnava a suon di calci in testa ai suoi avversari. Poco tempo prima aveva perso l’occasione di diventare campione “ad interim” in Pride, contro Nogueira, ma si era allenato con Fabricio Werdum e aveva vendicato la sconfitta subita per mano di Kevin Randleman.

Nella sua campagna mediatica per arrivare al titolo dei massimi Pride, aveva più volte sfidato Fedor, che lo ha ignorato finché non ha potuto fare a meno di accettare la sfida. Cro Cop aveva battuto, infliggendogli un KO memorabile, Aleksander Emelianenko, fratello di Fedor, e questo aveva reso la faccenda personale oltre che sportiva.

Nel round d’apertura Cro Cop ruppe il naso di Fedor e lo mise in difficoltà attraverso le qualità del suo striking, fiaccandolo con colpi al corpo. Emelianenko riuscì ad ottenere però il takedown e da lì a dominare l’incontro. Colpendo a sua volta Crocop al corpo, Fedor gli risucchiò ogni energia e dopo la fase a terra, anche nel combattimento a distanza, il croato non fu più capace di offrire molto. Emelianenko stavolta vinse per decisione dei giudici dopo i tre round (il primo da dieci minuti e gli altri due da cinque).

Gli ultimi anni

Dopo l’acquisizione di Pride da parte di Zuffa (e quindi dell’UFC) Fedor Emelianenko fece delle apparizioni in diverse altre promotion, da Bodog Fight ad Affliction, rifiutando le avances di Dana White per entrare in UFC.

White si disse “più ossessionato dei fan” all’idea di avere Emelianenko nella promotion più importante al mondo e per averlo arrivò ad offrirgli un match immediato con Brock Lesnar, con in palio la cintura dei massimi e un contratto da 2 milioni di dollari a match in contratto. Fedor chiese una collaborazione con la promotion russa M-1, una condizione che al tempo White e UFC - in piena ascesa - non potevano accettare.

Fu con un record di 30 vittorie ed una sola sconfitta, quindi, che Fedor entrò in Strikeforce, promotion guidata allora da Scott Coker. Dopo una vittoria per TKO ai danni di Brett Rogers, la sua imbattibilità finì nel giugno 2010 (nove anni e mezzo l’ultima sconfitta, cioè) per mano di Fabricio Werdum, che lo chiuse in una triangle choke. Il periodo nero continuò anche contro Antonio Silva e Dan Henderson, entrambi vincitori per TKO. A quel punto Emelianenko aveva 35 anni e sembrava che la sua leggenda fosse giunta al termine. Dopo essere tornato alla vittoria (tre volte) Emelianenko annunciò un primo ritiro nel 2012, dopo aver sconfitto in M-1 la leggenda dei legkick Pedro Rizzo.

Tornò in scena nel 2015, con un match comodo a Rizin contro lo sconosciuto Jaideep Singh. Poco dopo però partecipò al match che fece scalpore contro l’ex UFC Fabio Maldonado, a Fight Nights Global 50, a causa di una vittoria che forse gli è stata data troppo generosamente. L’ultima periodo della sua carriera non è stato memorabile, ma gli ha comunque riservato gioie in Bellator, dove ha battuto gente come Frank Mir, Chael Sonnen e Rampage Jackson, prima di venire ridimensionato dal più fresco Ryan Bader sabato scorso.

La grandezza di Fedor si può comprendere semplicemente guardando il calibro delle leggende della gabbia e del ring presenti nel suo match di ritiro. Tra gli altri, Royce Gracie, Rampage Jackson, Mark Coleman, Chuck Liddell, Dan Henderson, Randy Couture, Renzo Gracie, Chael Sonnen e Josh Barnett.

Nella sua lunga carriera conclusa a 46 anni (23 dei quali passati da professionista delle MMA) con un record di 40 vittorie, 7 sconfitte ed un No Contest, Fedor Emelianenko ha vinto il titolo dei massimi Pride senza mai perderlo, e senza mai perdere un match nella promotion fino alla sua chiusura. Ha vinto tre titoli Rings ed è stato il combattente del decennio nel 2000 per Sports Illustrated e per innumerevoli portali e riviste di settore come Sherdog e MMA Fighting.

Ha combattuto contro due generazioni di fighter ed è stato l’ispirazione di molti combattenti che tuttora guardano alle sue gesta. Ha modificato per sempre la percezione di cosa significhi essere “il più grande” e il suo lascito va oltre il suo record, la costruzione del suo mito è passata anche attraverso la sua personalità. Il vice-presidente di M-1 Global disse di Fedor: “Non vuole parlare inglese, quando lo fa è perché deve farlo”. E quando il giornalista gli ha fatto notare quanto il suo potenziale di vendita calasse senza parlare inglese rispose che Fedor non voleva essere una star, non gli interessava.

Dorothy Willis scriveva su Bleacher Report di come gli americani rendono quasi dèi i loro idoli mentre a Fedor non importava, arrivando a definirlo semplicemente “un uomo umile”. Fedor ha sempre detto di non avere particolari emozioni prima di un match: “Quando faccio la mia entrata per combattere non penso a nulla. Cerco di annullare le mie emozioni, non ho rabbia o compassione. Cerco solo di concentrarmi. Durante il combattimento, i miei sensi si oscurano e non sento alcun dolore”.

Un uomo semplice e freddo, lontanissimo da qualsiasi idea di trash talking - a dimostrazione, anche, di quanto il mondo delle MMA sia cambiato col susseguirsi della sua mediatizzazione. E va notato come nonostante la sua ritrosia i contratti faraonici gli furono offerti. “Anni fa non avevamo nemmeno da mangiare”, disse una volta Emelianenko. “Adesso vedo ogni mio avversario come un uomo che vuole rispedirmi a quel periodo povero. Per questo dev’essere eliminato”.

Emelianenko ha chiuso la sua carriera con il massimo riconoscimento da parte del mondo marziale che lo considera ancora oggi un simbolo, un’icona da seguire per la costruzione del successo. Fedor Emelianenko è uno di quegli atleti a cui lo sport deve più di quanto lui debba allo sport stesso. Uno di pochissimi, cioè.

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