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Questo racconto è uscito, originariamente, nel 2009, un sacco di tempo fa, all’interno di un’antologia curata da Setteperuno. Setteperuno era un blog letterario (il 2009 era un anno in cui andavano ancora di moda i blog letterari), e in quell’antologia c’erano amici che poi sarebbero diventati anche autori apprezzati. Mi ci sono intrufolato, in quell’antologia, un po’ all’ultimo minuto: il racconto era infatti la bonus track. Ricordo di averlo letto a voce alta (il 2009 era un anno in cui andava di moda leggere a voce alta) in un posto, al Pigneto, a Roma, e di essermi commosso sul finale.
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Qué le vas a hacer, ñato, cuando estás abajo todos te fajan.
Todos, che hasta el más maula.
(Torito, Julio Cortázar)
Quando sei già morto nove volte nella stessa vita, amico, nulla riesce più a scalfirti, puoi ben crederlo, è come se ci avessi fatto il callo, al trapasso. Ed è mica vero che ogni fine è un nuovo inizio.
Non del tutto: ogni fine è un nuovo inizio di una nuova fine.
Te ne stai con le radici affondate nella neve, come una betulla giovane e scrostata, a ogni raffica di vento ti pieghi, certo, ma non ti spezzi. Provi a sorreggerti sulle fronde degl’altri arbusti, esili ma indomiti, laggiù, nei campi oltre il campo.
Anche se dentro senti montarla comunque, la devastazione, il divoramento, i vermi risalirti pei cerchi concentrici, dov’è scalfita l’età, dove s’annida il sempiterno.
Giovanni Uomotròttola una prima volta è morto quand’ha smesso di trotterellare. Non partire è un po’ come morire.
E poi un camminante-non-più-camminante è una contraddizione in termini. Un sinti inurbato: pure.
Giovanni Uomotròttola porta i riccioli imbrillantinati, ha lo sguardo guappo, un incarnato esotico e olivastro, e poi sa ballare. Come tutti gli zingari, che sono gl’uccelli di Dio tra gli uomini, cantano saltano e non lavorano mai. Ma soprattutto: ballano.
Giovanni Uomotròttola, ballare, balla sul quadrato. Inforca i guantoni e si divincola ondivago tra un jab e un uppercut. Le folle: impazziscono. Bertold Brecht: lo adora. Lui: danza, perché lo sport è fatto per fortificare il fisico e la mente, è vero, ma anche per regalare sprazzi di divertimento al pubblico.
Durante i combattimenti, Giovanni Uomotròttola dialoga con gli spettatori seduti alle prime file. Ora gli do un montante destro, dice. E gli smolla un montante destro. Tra due riprese lo stendo, promette sorridente. Due riprese dopo, insomma, hai capito.
Giovanni Uomotròttola, morire, la seconda volta è morto nel 1928. Tirava di guantone mica male, c’erano le Olimpiadi di Stoccolma alle porte, sognava trionfi decoubertiniani, come tutti. Ma alle Olimpiadi, Giovanni: ce l’han mica portato. Ma lo vedete come boxeggia, dicevano gli esperti? Tutto esagitato, tutt’una pantomima danzerina, un damerino effeminato, ecco cosa sembra. Altra stoffa, la boxe ariana: solida. Cattiva. Quadrata, niente spazio alla fantasia. Possente.
Nel Mein Kampf di Adolf Hitler, quando si parla di potenza, e di capacità di controllo, e di far male, solo due sono gli sport menzionati: il jujitsu, e la boxe.
Giovanni Uomotròttola, morire, la terza volta è morto il 16 giugno del 1933.
Solo una settimana prima aveva toccato l’apice della sua carriera, c’era stata questa sfida, alla Birreria Bock di Amburgo, contro Adolf Witt. Che aveva vent’anni, sei in meno di lui, era slanciato, potente, e incassava con la dignità composta che solo gli ariani. Giovanni Uomotròttola picchiava, picchiava, picchiava. E allo stesso tempo uomotrotterellava. Un cartone, e tippettava. Un’invettiva, e tappettava. Witt, incredulo, se ne stava piantato al centro del ring. Giovanni, ballare, gli ballava tutt’attorno. Sgambettìo d’irrisione. Danza ipnotica, come le donne tzigane attorno al fuoco.
Al sesto round, il gigante bianco era crollato al tappeto. Dagli spalti s’era alzato un brusio. Il gerarca Radamm s’era sbracciato verso i giudici di gara. Sospendiamo l’incontro, aveva sbraitato. Non è modo di boxare, aveva aggiunto. Il pubblico: il pubblico non l’aveva mandata giù. S’era sfiorata la rissa, fuori dal ring. E una moltitudine s’era riversata tra le corde. Aveva issato Giovanni Uomotròttola, verso il cielo. Gli aveva consegnato tra le mani la cintura dei mediomassimi. Sei tu il campione, l’aveva acclamato. Giovanni: Giovanni s’era messo a piangere, dalla gioia.
Otto giorni dopo, su Boxsport - ch’era il giornale più autorevole della federazione tedesca - avevano già emesso una sentenza, non è davvero un vincitore, chi scappa, avevano scritto. E poi aveva pianto, Giovanni Uomotròttola: un comportamento indegno, da mezzouòmo, da perdente. Da damerino. Gli avevano annullato la vittoria, tolta la corona, fissata la vendetta. Avrebbe dovuto affrontare Eder, il più forte dei pugili in circolazione nella Germania nazista. Un peso massimo. E avevano dettato le condizioni. Tu, ora, gl’avevano detto, a Giovanni Uomotròttola, tu ora sali sul ring e non ti allontani dal centro, altrimenti sei squalificato. Tu ora sali sul ring e vedi che ti succede se fai il danzerino. Tu ora sali sul ring, gli avevano suggerito, e vai al macello.
Giovanni Uomotròttola, morire, la quarta volta è morto una sera di luglio. O almeno, questo gli è sembrato: di morire. Si è avvicinato al patibolo tra lo sbigottimento generale. Aveva i capelli dipinti d’oro. E il corpo cosparso di farina. S’è arrampicato sul quadrato, portato al centro, fissato con gli occhi lucidi e il sorriso sulle labbra Eder. Poi c’è stato il suono del gong, e Giovanni Uomotròttola, trotterellare, non ha trotterellato neppure una volta. Piantato come una quercia, come un arbusto di betulla, tutt’il tempo con le radici nella neve che fioccava a ogni gancio, a ogni dritto, a ogni rovescio. Il camminante-non-più-camminante s’era fatto ballerino-non-più-ballerino. E i gerarchi sbraitavano. E Eder, picchiare, picchiava. Finché non è andato al tappeto, Giovanni, avvitandosi su se stesso, come una trottola quando termina la corsa dirompente, e s’accascia su un lato.
Giovanni Uomotròttola, morire, la quinta, la sesta, la settima, l’ottava volta è morto di morti ravvicinate, violente, cruente. Ha lasciato la boxe professionistica per campare di vita raminga, e pugni alle fiere di paese per racimolare soldi. Ha lasciato moglie e figli quando i triangoli bruni che cominciavano ad appiccicarsi sui baveri delle giacche con troppa facilità avevano preso la forma di biglietti di sola andata verso altri campi, altri campi di betulle. Ha combattuto al fronte, nella Wehrmacht, per una bandiera che non sentiva sua, ricambiato.
Fin quando con l’inasprimento delle leggi razziali, nel 1938 l’hanno deportato a Neuengamme, prigioniero 721/43, lavori forzati e ogni sera razione doppia, per lui, che inscheletrito gli facevano indossare i guantoni, e ora difenditi, zingaro, gli ciancicavano contro, sentir morirsi dentro la dignità, l’onore. Lui: combatteva. A volte vinceva. A volte andava al tappeto. Come tutti. Meno degli altri.
Giovanni Uomotròttola, morire, la penultima volta è morto il nove febbraio del 1943, arresto cardiaco, c’è scritto sulla cartella clinica. La verità è che l’avevano riconosciuto, nel campo di concentramento. Vedevano in lui un esempio. Lo osannavano. Era uno Spartaco tzigano e danzerino. Per questo l’hanno deportato ancora una volta, a Wittenberge, al borgo di Witt, ch’è stato come tornare. Non partire, alle volte, tornare punto e daccapo, e un po’ come morire.
C’era un kapo, a Wittenberge. Si chiamava Emil Cornelius. Per passare il tempo, tirava di boxe contro gli altri prigionieri. Quand’è arrivato Giovanni Uomotròttola, non gli pareva vero.
Li hanno messi contro. Il detenuto 9841, triangolo bruno, picchiava sodo. E irrideva. E scherniva. E ballava. A uno zingaro puoi togliergli tutto, ma continuerà a ballare, fino alla fine.
C’è chi racconta che un giorno, a Grobina, tutti gli zingari erano stati portati in un gran prato. Qua avevano dovuto scavare una enorme fossa, ed erano stati ammazzati, tutti. I bambini avevano implorato pietà fino all’ultimo. Avevano agitato le braccia in aria, gridato che avrebbero danzato per i signori. Un piccolo zingaro che non era stato legato, o che s’era riuscito a liberare, aveva danzato singhiozzando davanti al boia, mentre sua madre, sua nonna, l’intera tribù veniva ammazzata.
Quando s’è accasciato al suolo, Cornelius, è stato lì che Giovanni Uomotròttola ha subodorato nell’aria, frammista ai fiocchi di nevischio, la morte che sopraggiungeva per la decima volta. L’ultima.
Cornelius ha impugnato un badile. Aveva gl’occhi gonfi di rabbia. Ha cominciato a picchiare.
Giovanni Uomotròttola, Johann Trollmann, se n’è stato per un po’ con le radici affondate nella neve, come una betulla giovane e scrostata, a ogni raffica di vento si piegava, certo, ma spezzarsi, sembrava non volesse saperne.
Anche se dentro la sentiva montare comunque, la devastazione, il divoramento, i vermi risalirgli pei cerchi concentrici, dov’è scalfita l’età, dove s’annida il sempiterno.