L’assalto del Cruzeiro è disperato e confusionario come tutti gli attacchi degli ultimi minuti quando hai un gol da recuperare. Non manca che una manciata di giri di lancetta al fischio finale dell’atto conclusivo della Copa Sudamericana, e gli equilibri sono saltati: si gioca a quel gioco che più che al calcio somiglia ai racchettoni in spiaggia quando ci si sta un po’ stufando.
La difesa del Racing respinge, la palla giunge a centrocampo dove Nardoni la spizza di testa. Tra sé e la porta brasiliana, ora, il colombiano Roger Martínez ha la sterminatezza della pampa di fronte alla quale si sono ritrovati i primi piemontesi quasi un secolo e mezzo prima, quando hanno cominciato a piantare noccioli (avellanas in spagnolo) in quella propaggine di Buenos Aires che sarebbe poi diventata Avellaneda. Controlla il pallone con accuratezza, senza fretta, e trafigge la porta del Cruzeiro in diagonale. È il gol del 3-1 con il quale il Racing, di fatto, mette le mani su un trofeo internazionale che mancava da trentasei anni.
Nel delirio dei festeggiamenti, Maximiliano Salas si porterà via il treppiedi di una telecamera e un quaderno degli appunti dell’allenatore; la gioia esploderà propagandosi tra i dodicimila tifosi all’interno dello stadio (indistintamente vivi e morti) e i ventottomila rimasti fuori dal Nueva Olla di Asunción, per non parlare delle decine di migliaia di racinguistas che si affolleranno all’ombra dell’Obelisco di Plaza de la República a Buenos Aires.
L’amore per l’Academia, ad Avellaneda, che sobbolle da sempre e per sempre, negli ultimi cinquant’anni di storia del club non ha avuto molte occasioni per deflagrare. Ogni volta, però, è stata speciale: non fa eccezione il trionfo di quest’anno, dove alzare una coppa continentale significava anche, in qualche modo, difendere la primazia del fulbo di fronte all’egemonia dei club brasiliani. Non è un caso, forse, che a tenere alto il vessillo albiceleste sia stata una squadra la cui maglia ricorda molto da vicino quella della Selección (ma non dite a nessuno che la scintilla dell’ispirazione, a inizio Novecento, è venuta dall’omonima squadra parigina). Né che gli uomini simbolo di questa vittoria siano un reietto, Juanfer Quintero, sul quale nessuno avrebbe più scommesso un peso, e una specie di Carneade dal soprannome altisonante.
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Che tutti gli astri si fossero allineati a favore del Racing non è che si fosse capito da subito, anzi. Sugli sviluppi di una ripartenza avvolgente, infatti, nei primissimi minuti il Racing era passato in vantaggio, ma l’arbitro uruguaiano Ostojich aveva annullato il gol di Gastón Martirena per fuorigioco del nove che aveva servito l’assist, lavorando un pallone sporco al centro dell’area. Quel nove è il Carneade, ma ci arriviamo. Pochi minuti più tardi, però, lo stesso Martirena, cercando un cross dalla destra, ha estratto dal cilindro una parabola beffarda che ha trafitto Cassio.
E cinque minuti dopo, finalmente, il raddoppio ha spianato la strada all’Academia. Non è stato un caso, forse, che a segnare il gol del 2-0 sia stato uno degli uomini decisivi della stagione racinguista: il nostro Carneade, Adrián Martínez, "el Maravilla".
Con un apodo del genere verrebbe da pensare a un calciatore fantasioso, bohémien, geniale: la meraviglia di Adrián Martínez, invece, sembra provenire da altrove. Non è un nove che genera meraviglia: sembra, piuttosto, subirla.
"Maravilla" Martínez non è un predestinato: al Racing è arrivato quasi per caso, all’inizio della stagione, già trentunenne, dopo una parabola stramba, minore, sottotono. L’ultima stagione l’aveva giocata a Córdoba, nella squadra più piccola della città, l’Instituto: aveva segnato 18 gol in 41 partite, certo, ma niente lasciava presupporre che sarebbe fiorito in maniera così definitiva al Racing, dove quest’anno le reti collezionate sono già 29 in 47 partite.
La maravilla vera sta nella sua scoperta, nel nitore con cui la sua luce si è fatta abbacinante al contatto con l’atmosfera dopo una traiettoria partita da lontanissimo, dalle carriere minori della pampa, dall’Ascenso, dal trasferimento all’estero che a un certo punto ogni attaccante che sgomita deve mettere in conto: Sol de América, Libertad e Cerro Porteño in Paraguay, Coritiba in Brasile.
Adrián Martínez è uno che conosce bene i suoi limiti. Ma anche le sue virtù. Ha fame di imparare, perché ha masticato un sacco di polvere nella sua carriera, ma anche nella sua vita. Di fronte alle prospettive dell’aspettativa si è sempre presentato con le mani vuote, e la testa alta. Il sacrificio, l’applicazione, non l’hanno mai spaventato: paura e fiducia, Maravilla Martínez, ne ha sempre avuta poca.
A questo punto, però, serve spingerci un po’ più in là, entrare nella testa di "Maravilla", capire perché, del suo soprannome, un po’ si vergogna e un po’ si schernisce. Perché dica, sempre, ogni volta che può, che la vera meraviglia è in fin dei conti la vita che Dio gli sta permettendo di vivere.
Nel 2014 "Maravilla" ha ventidue anni. Ha giocato per un po’ nei dilettanti, nel Villa Dálmine e in una squadra di barrio, il Las Acacias, in cui il presidente – e anche la proprietaria del chioschetto che prepara choripánes fuori dal campo – è sua madre. Non è ancora Maravilla, e in realtà non è neppure Martínez – cognome del padrigno Gabriel, che se ne prende cura da quando ha un anno e mezzo. Per tirare avanti fa un po’ di tutto: il muratore, lo spazzino, quello che capita. Ha un brutto incidente in moto, che gli compromette l’uso di una mano, a causa del quale perde anche la possibilità di lavorare. È in quel momento che inizia a frequentare brutti giri. «Non ho mai avuto una famiglia per bene», racconta lui. Il fratello, dopo non molto, viene ucciso con due colpi di pistola: «Non gli hanno sparato perché era un santo, né mentre camminava verso la chiesa», spiegherà. «Era un poco di buono, litigava ogni volta con qualcuno. In quelle situazioni, può toccare a te come a un altro. Ed è toccata a lui». Accusato di porto d’armi da fuoco, di tentato sequestro e di aver dato fuoco all’abitazione dei mandanti dell’omicidio, Adrián viene arrestato e incarcerato: passerà in prigione sei mesi, prima di essere riconosciuto innocente, e di riacquisire la libertà.
I sei mesi di reclusione lo segnano in maniera definitiva. Attraversa un paio di situazioni complicate, in cui rischia di venire pugnalato: «Là dentro è pieno di gente che sta tutto il tempo impasticcata, che non ha niente da perdere. Che è persa. Gente che ti dice “se ti ammazzo, alla fine, che mi succede? Mi danno solo due anni in più”. Devi stare con gli occhi aperti tutto il tempo».
Legge la Bibbia e – dice lui – capisce qual è la volontà che Dio vuole fargli compiere: giocare a calcio. «Ma non è semplice», continua, «perché quando sei fuori, nessuno ti dà un’opportunità. Continui a essere un ladro, un assassino, un mascalzone».
L’opportunità, ad Adrián, invece, la concede un club di quarta divisione, il Defensores Unidos de Zárate. Non percepisce uno stipendio, ci si può permettere al massimo la copertura delle spese ma niente di più: per tirare a campare Adrián deve farsi aiutare da un amico. Gli sforzi verranno ripagati presto: dopo due stagioni ricche di gol viene acquistato dall’Atlanta, uno dei grandi club decaduti, e di lì partirà il periplo che lo condurrà, in limine all’inizio della stagione in corso, a gennaio, in uno dei club storici del calcio argentino, il Racing. Senza bruciare tappe, prendendo ogni volta quello che la sorte, la contingenza, gli presentava.
La parabola di "Maravilla" mi fa venire in mente la Favola del pelotudo (un termine che tradurrei come “scemo del villaggio”) di Roberto Fontanarrosa, che dice più o meno così: c’era una volta un pelotudo, con il quale un gruppo di persone (che per noi, nella metafora, è la sorte) si divertiva. Ogni giorno chiamavano il pelotudo e gli presentavano due monete: una da 50 centesimi, e una più piccola da un peso. Il pelotudo sceglieva sempre quella più lucente, mai quella più piccola. E tutti ridevano. Un giorno qualcuno ha preso da una parte il pelotudo e gli ha chiesto se non si fosse mai accorto che si stavano facendo beffe di lui. «Certo che me ne sono accorto», aveva risposto lui «Mica sono un pelotudo. Però sai cosa? Se scelgo l’altra, il giochetto finisce e io smetto di guadagnare». La storiella solleva tutta una serie di domande (chi è davvero pelotudo?) e di conclusioni (scemo è, come si dice, chi lo scemo fa), ma porta con sé anche una bella morale: possiamo stare bene, anche quando gli altri ci sottovalutano, credono che non valiamo niente. L’importante è la fiducia che abbiamo in noi stessi.
Per esplodere, al Racing, impiega un mese: a febbraio segna una tripletta al San Lorenzo, una doppietta al Newell’s Old Boys e soprattutto una rete che vale il successo nel Clásico con l’Independiente, un gol con un affondo in profondità che si conclude con un dribbling antiestetico sul portiere avversario, in cui la palla si allunga, in cui quasi perde il tempo per la conclusione.
È un gol che dice molto di "Maravilla", del tipo di attaccante che è, ma anche del tipo di attaccante su cui molte squadre di Primera stanno puntando: giocatori cresciuti nell’Ascenso, pura classe operaia, pescati nelle serie minori perché è in quella direzione che sta andando l’economia calcistica argentina – l’economia tout-court – verso la scomparsa della classe media. I migliori calciatori dei Paesi limitrofi (Uruguay, Cile, Paraguay) sono già, in qualche modo, fuori portata; e i giovani che salgono dalle giovanili, quelli più promettenti, dopo non molto sono già al otro lado del charco, cioè in Europa.
Un tocco d’esterno più prepotente che elegante, un’imbucata che è un decotto di opportunismo puro, due rigori calciati con freddo cinismo, senza tracotanza; un tap-in rapace sulla respinta corta del portiere, un colpo di testa imperioso.
E poi ancora una rasoiata sul palo più vicino dopo uno stop in area in cui sembra, ad ogni secondo, poter perdere il controllo della palla; un agguato in scivolata al termine di un’azione a cui ha dato il la; un anticipo di esterno destro sul difensore che cerca di chiuderlo.
Nelle nove reti – che diventeranno dieci, con quella della finale – segnate durante il percorso della Copa, "Maravilla" si è appalesato per quello che non è – che non è in maniera appariscente. «Non è uno che fa gol bellissimi, o che fa gol e basta», ha detto di lui l’allenatore Gustavo Costas «È un leone che lotta, che ruba palla, che ci mette il corpo. Un giocatore di cui andare orgogliosi».
Se c’è un segreto dietro tutta questa esplosione di meraviglia, difficile trovarlo lontano dalla figura di Costas. «Ti fa vivere ogni giorno, sulla tua pelle, cosa significhi il Racing. Canta i cori, ci crede. È un vincente, ma prima ancora una bella persona. È baciato dalla fortuna, e si merita di essere campione», ha detto Martínez del suo tecnico, prima della finale.
Effettivamente nessuno, come Costas, sembra racchiudere in sé lo spirito racinguista. «È tutta colpa di mio padre, è stato lui a iniettarmi nel sangue questa droga che si chiama Racing».
Nel 1967, quando il Racing è stato il primo club argentino a conquistare la Coppa Intercontinentale, era una delle mascotte del club (nella foto qua sopra è tra le braccia di Juan Carlos Rulli) in cui militava anche Alfio Basile.
Nel 1988, con Basile sulla panchina dell’Academia, Costas era il capitano del Racing.
Ora, finalmente, ha conquistato un titolo internazionale da allenatore.
È così racinguista, Costas, da rifiutarsi di toccare un premio solo perché a consegnarglielo è qualcuno che indossa una maglia rossa, come i rivali dell’Independiente.
Ed è, poi, uno degli ultimi baluardi di un calcio che sta scomparendo e che in nessuna parte come in Argentina è capace di sollevare istinti rivoluzionari di resistenza.
Poco prima della finale, al Racing è arrivata una richiesta per Martínez da parte di un club cinese, che metteva sul tavolo otto milioni di dollari: per il nueve era già pronto uno stipendio cinque volte più grande.
«Si può negoziare qualsiasi cosa, nella vita», ha dichiarato il giocatore dopo aver rifiutato l’offerta «Tutto, tranne la parola data, la gratitudine e l’onore». Voleva trionfare con il Racing, prendersi la sua rivincita, regalare una gioia ai suoi tifosi.
Subito dopo la conquista della finale è diventata virale l’immagine di una giovane hincha racinguista, immortalata in lacrime sugli spalti del Cilindro – cioè dell’Estadio Juan Domingo Perón, la casa dell’Academia. Ha le gambe graffiate, abbraccia il filo spinato della rete di recinzione.
È l’emblema della panacea effimera che può – che sa – essere il fulbo, soprattutto in Argentina, soprattutto in questa parentesi storica.
Della meraviglia che, per essere tale, in fondo, ha mica bisogno d’essere proprio meravigliosa. Basta che funzioni.