Durante un Roma-Juventus di qualche anno fa, allo Stadio Olimpico, ho visto un bambino che di spalle era identico a Radja Nainggolan. Nel senso che oltre a indossare la sua maglia originale portava una cresta identica a quella che aveva il giocatore belga. Un bambino con una cresta come quella di Nainggolan, curata nell’estensione e persino nel colore, in quel suo passaggio dal biondo platino dei ciuffi superiori al nero della base.
Parlava poco, non interagiva col padre a fianco, non gli dava soddisfazione, rimaneva persino fermo durante le fasi concitate della partita. Solo quando il suo beniamino prendeva palla il bambino sembrava partecipe, come se stesse giocando a Fifa con la realtà, in una modalità che gli consentiva di provare emozioni solo e soltanto per il suo giocatore preferito. Quella devozione da fan giovanissimo, peraltro l'anno dopo il ritiro dell’ultima stagione di una bandiera come Totti, mi è sembrata significativa.
Qualche mese dopo, Nainggolan è diventato un giocatore dell’Inter. Ed è stato accolto dai suoi nuovi tifosi da un entusiasmo senza ombre, che non sembra tenere conto dei suoi limiti, dei suoi difetti. Come, d’altronde, era capitato coi tifosi della Roma in precedenza, e ancora prima con quelli del Cagliari: Nainggolan è un calciatore molto amato nonostante non faccia nulla per nascondere alcuni aspetti del suo carattere che, in teoria, dovrebbero infastidire un’opinione pubblica che sul calcio è spesso conservatrice, quasi reazionaria.
Nainggolan non mette il calcio davanti a ogni cosa, ma coltiva abitudini che possono essere considerati come “vizi”, o quantomeno “sfizi”, non in linea con la retorica dell’atleta stoico, che ha il culto del proprio corpo, o che fa di tutto per non intaccare nemmeno lontanamente le proprie prestazioni.
Non si tratta di chiacchiere senza fonte, di mormorii da bar, ma di abitudini che ci vengono raccontate da alcuni dei suoi stessi allenatori. Nel 2016 l’allora commissario tecnico del Belgio, Marc Wilmots, diceva a un’emittente del suo Paese: «Confermo, Nainggolan fuma. [...] Cerco sempre di dargli una camera con balcone, in modo che il rilevatore di fumo non intervenga. Credo sia l’unico tra i Diavoli Rossi a fumare. Se gli avessi proibito di fumare cinque, sei sigarette al giorno, penso che avrebbe distrutto la stanza. Sarà un suo problema se giocherà fino a 30 anni invece che a 35 anni».
Nel dicembre del 2018, poi, è stato Luciano Spalletti a dichiarare: «Lui è un ragazzo sensibile, di persona ha tutte le qualità di chi si comporta bene. A volte viene attratto da altre cose, giocando nell'Inter se hai tre o quattro cose che metti davanti al calcio non arrivi a certe classifiche. A lui ne vanno smussate alcune, sennò fa fatica».
A contribuire a un suo ritratto a tinte miste si aggiungono episodi di cronaca (come quello dell’aprile del 2014, quando a Cagliari una volante dei carabinieri è stata chiamata per un preoccupante litigio di coppia su suolo pubblico, con i giornali che il giorno dopo hanno titolato: “Schiaffi e pugni in strada, Nainggolan finisce nei guai…”) ma anche prove video fornite dal primo, vero documentarista della vita del Ninja, ovvero il Ninja stesso.
Tutto ciò che sappiamo della sua vita privata e festaiola, infatti, è quello che ha lasciato che sapessimo: lasciandosi fotografare in discoteca con Fabrizio Corona poco dopo il suo arrivo a Milano, o al rientro a casa alle prime luci del mattino, vestito uguale alla sera prima, o mandando in diretta su Instagram - nell’ultima stagione con la Roma - un suo capodanno alticcio tra bestemmie, paddle e bollicine.
È lui a riprendersi con lo smartphone in discoteca, o a difendere nelle interviste il suo diritto a godersi la vita fuori dal campo. Come a sfidare quella morale per cui, se sei un giocatore di alto livello, la tua vita non ti appartiene del tutto, perché appartiene prima allo sport. Eppure, o anzi forse proprio per questo, su Nainggolan si è riversato un affetto diverso da quello riservato a qualsiasi altro calciatore. Che va oltre i limiti del suo stesso talento, dei risultati ottenuti in campo. Non che Nainggolan sia amato da molte persone, anzi, una parte di tifosi dell'Inter probabilmente non lo sopporta, ma chi lo ama lo ama incondizionatamente.
Perché Radja Nainggolan è così amato?
Dal punto di vista calcistico, Radja Nainggolan è una sorta di intersezione felice di insiemi diversi. È eccezionale atleticamente e tecnicamente, è duttile dal punto di vista tattico, e poi è bello da guardare, come quei giocatori che riescono a legare la parte più superficiale con quella più profonda del loro gioco. Alla teatralità del suo aspetto - cresta, tatuaggi, sguardo da avventuriero asiatico con vago accento nordeuropeo nell’inflessione vocale - associa la spettacolarità dei suoi interventi di recupero del pallone.
Della sua vita prima della carriera calcistica sappiamo quello che ci ha detto lui. Che è figlio di due culture distanti, che ha una sorella gemella anche lei calciatrice e che il padre ha abbandonato il nucleo familiare lasciandoli in una situazione molto precaria quando erano ancora bambini. Nel 2010, anno del suo trasferimento al Cagliari, viene a mancare la madre, che aveva fatto sacrifici enormi per potergli permettere di iniziare il suo percorso da calciatore... insomma, non bisogna essere uno psicologo dell’infanzia per avere un quadro dei traumi emotivi su cui la sua personalità si dev’essere strutturata.
La peculiarità che lo distingue da altri fenomeni di sregolatezza è che Nainggolan non può compensare gli eccessi fuori dal campo con il genio. A differenza di Best, Maradona o Gascoigne, non può permettersi un gioco anti-agonistico: il suo talento è applicativo, non creativo. Nainggolan non ha niente di autodistruttivo in campo, di pigro, di decadente. Anzi, è generoso. Non è un giocatore geniale, è un combattente, occupa quelle fasce del campo per cui oltre a un significativo spirito di abnegazione, è necessaria una tenuta atletica impeccabile, unico elemento in grado di determinare in negativo o in positivo la durata della carriera. In campo, Nainggolan smentisce il modello che sembra dare nella via “fuori”, rifiutando forse alla base l’idea stessa del calciatore che si fa modello sociale, che dà dei messaggi.
In una recente intervista a France Football ha riconosciuto: «Ho molte qualità ma non eccello in nessuna. Le mie caratteristiche mi permettono di lottare per i miei compagni». Un aspetto in teoria in contraddizione con uno stile di vita che dovrebbe rallentarlo, consumarlo, fargli finire prima la carriera - come lui stesso a un certo punto ha quasi ammesso: «Ho sempre detto che non farò il calciatore fino a 40 anni». In un’epoca in cui i migliori giocatori fanno a gara a chi resiste più a lungo su un livello semplicemente impensabile per chiunque altro, Nainggolan si accontenta.
A livello comunicativo basta questo a differenziarlo dall’ego legittimamente smisurato di Maradona, o da quello consapevole di Best, uno che guardando indietro alla sua carriera ebbe modo di dire «Si dimenticaranno di tutta questa spazzatura quando non ci sarò più, e si ricorderanno solo del calcio». A Radja Nainggolan non importa essere ricordato, né di allungarsi la carriera, come se il suo calcio fosse un’espressione della sua vita, ma non la totalità della stessa.
In questo modo Nainggolan è un rilevatore vivente di quella doppia, spesso pruriginosa, morale che esiste nel mondo del calcio: i giudizi dei media sul comportamento di Nainggolan dipendono dal suo rendimento: se gioca bene è un eroe dall’alone piratesco, quasi un personaggio di Salgari; se invece le sue performance scadono, diventa automaticamente una mela marcia, e un ladro di stipendi. Ma Nainggolan è sempre e solo uno, è sempre lo stesso.
Quando, ormai più di due anni fa, si è fatto riprendere mentre fumava da un tifoso romano a cui confessava la sua scarsa simpatia per la Juventus, mi aveva colpito il fatto che per tutta la durata del video non si fosse mai voltato verso chi teneva il telefonino in mano. Come se non gli interessasse, in fondo. Perché davvero, a Radja Nainggolan pare non importare cosa pensi di lui. Nell’epoca in cui gli sportivi devono essere dei professionisti della comunicazione, si può dire che questo sia un pregio umano o un’ingenuità imperdonabile?
Forse è sia l’uno che l’altra, e la risposta dipende esclusivamente dal punto di vista ideologico dello spettatore. Nainggolan può rappresentare il lato più incauto del professionismo, e in una cultura consumistica e iper-produttiva diventa addirittura un personaggio inaffidabile, poco serio.
Dall’altro lato, però, per chi invece sposa una prospettiva ben più ludica e romantica, il Ninja rappresenta una sfida al sistema produttivo, una sorta di sabotaggio edonista di certe ipocrisie legate ai concetti di disciplina e risultato. Di sicuro c’è che, se questo dubbio sorge, non si tratta di un problema che Nainggolan si prefigge di risolvere, anzi pare rimetterlo direttamente nelle mani del tifoso.
Diario di un anno difficile
Fino al 2018, tutto sommato, la narrazione controversa su Nainggolan rimane prevalentemente relativa al mondo extra-campo, senza intaccare visibilmente le sue prestazioni né tantomeno la considerazione dei suoi tifosi. La detonazione, l’episodio che introduce una vera e propria svolta nella sua carriera segnandone le sorti, arriva con l’ormai famigerato video di capodanno 2018, quello delle bollicine e delle esclamazioni colorite.
Pochi giorni dopo, è il 6 gennaio 2018, allo Stadio Olimpico si gioca Roma-Atalanta e la squadra di casa perde 1-2. Nainggolan, non convocato, sta per lasciare la tribuna quando un tifoso lo ferma, gli punta il dito contro più volte e lo apostrofa con parole molto simili a “è colpa tua”. Incappucciato e scuro in volto, il giocatore gli allontana la mano con il braccio, senza violenza, e se ne va senza rispondergli. È il primo segnale di qualcosa che cambia.
In generale si tratta di una stagione molto anonima per la Roma in campionato, dalle prestazioni poco entusiasmanti, ma in Europa la squadra è protagonista di una cavalcata storica che la porta dalla rimonta con il Barcellona alla doppia semifinale con il Liverpool. La partita di andata è una debacle che porta la firma dolorosa di Salah ma, soprattutto quando la Roma va pesantemente sotto nel tabellino, il Ninja si distingue come uno dei giocatori più reattivi. Nell’incontro di ritorno però è lui a sbagliare il retropassaggio che dà origine al vantaggio degli ospiti, ma segnerà comunque due reti, una su rigore, nel 4 a 2 finale. Al termine della stagione viene scelto, unico tra i calciatori della rosa insieme al capitano De Rossi, per far parte del video della campagna abbonamenti della nuova stagione romanista dal titolo ‘Io ci sono’. La frase che pronuncia è la seguente: «Io ci sono quando è il momento di lottare». Poche settimane dopo viene ceduto all’Inter.
Un profilo social gestito da tifosi giallorossi, pochi giorni dopo il trasferimento, pubblica uno stralcio di conversazione autografa, una risposta diretta ricevuta dal calciatore:«“Non credere che io stia benissimo a dover lasciare questo posto. Ma a volte ti mettono di fronte a delle scelte». Non parla esplicitamente delle scelte alle quali è stato messo davanti, ma si intuisce che si tratta di disaccordi con la dirigenza: perché vendere un beniamino dei tifosi dopo una stagione indimenticabile a livello internazionale?
Le ipotesi su una decisione di tipo disciplinare rimangono, appunto, solo ipotesi, eppure proprio con un provvedimento di questo tipo si chiude il 2018 di Nainggolan, ormai tesserato dell’Inter: poco prima di Natale viene “sospeso dall’attività agonistica” proprio per quelli che la nota del club chiama “motivi disciplinari”. Forse è il punto più basso della carriera di Nainggolan, non tanto per i risultati conseguiti ma per la narrazione che lo riguarda: giocatore trentenne che è accusato di condurre una vita di eccessi e di non avere ambizioni, approdato a una squadra dal passato glorioso e in cerca di riscatto da un presente difficile, acquistato per essere l’uomo in più, viene messo in disparte dopo pochi mesi.
L’inizio del 2019 in parte conferma il declino di Nainggolan, emblematico il rigore sbagliato in Coppa Italia contro la Lazio il 31 gennaio, che unito all’errore di Lautaro Martinez costa l’eliminazione dalla competizione all’Inter. Nainggolan arriva così alla sua linea d’ombra conradiana, quella che lo mette davanti alla parte finale della carriera, in difetto rispetto alla retorica sportiva che circonda il suo ambiente ma forse in pari con la fedeltà a sé stesso.
Eppure, dopo la vittoria nerazzurra col Parma del 9 febbraio 2019, in cui si rende decisivo con un assist per Lautaro Martinez, Nainggolan parla di una svolta nei suoi rapporti con l’Inter e in generale nella sua carriera: «Con la società abbiamo fatto un patto, stiamo lavorando insieme: a 30 anni ho capito che dovevo cambiare qualcosa». Più che di una folgorazione sulla via di Damasco, mettendo insieme i tasselli del puzzle è probabile che Nainggolan abbia finalmente capito che rinunciare a un finale di carriera all’altezza delle sue potenzialità è, in qualche modo, un rinunciare a sé stessi.
Pochi giorni dopo, arriva anche la rete contro la Sampdoria, che regala tre punti importanti ai nerazzurri. Nel mese successivo, tuttavia, gli infortuni lo tengono fuori dal campo, impedendogli di rifarsi subito e appieno, lasciando in sospeso la sua narrazione.
Ci si innamora dei Maradona e dei Best prima per come toccano il pallone, e poi per il loro rifiuto delle convenzioni. Per quanto riguarda il Ninja è invece difficile scindere il recupero dei palloni a centrocampo dagli exploit fuori dal campo, fanno parte della stessa narrativa. All’epoca gli eccessi rappresentavano la sfida a una morale bigotta e una rivendicazione dello spirito ludico a dispetto di quello agonistico, oggi gli eccessi risultano incomprensibili in quanto antitesi dell’ipertrofismo muscolare e comunicativo a cui siamo abituati.
Nainggolan sembra volerci dire, a sue spese, che è possibile avere una vita che ruota attorno al calcio, ma non arrendersi al calcio come all’unico orizzonte della propria vita.
Sembra voler smascherare, sacrificando parte della sua reputazione agonistica, il martellante circo sportivo e mediatico, rifiutando, anzi ignorando del tutto, il giudizio altrui rispetto alle deviazioni dal percorso che si trova a scegliere. Nainggolan chiede di essere scelto per quello che è. Il suo stile è la ricerca costante di un equilibrio tra la voglia di dimostrare al mondo il proprio talento, lottando per essere utile alla propria collettività (o squadra), e il disperato bisogno di togliersi dalle spalle il peso del giudizio altrui.
Chiedimi il sudore, ché l’anima è solo mia.