«Me ne vado con la tranquillità assoluta di aver dato il massimo, di aver dato tutto in ogni modo possibile». Questa frase, pronunciata verso la fine del suo discorso d’addio al tennis, continua a risuonare nella mia testa. Potrebbe suonare come una frase di circostanza, in un discorso tutto sommato molto convenzionale. Un discorso persino noioso, in pieno stile Nadal, coi ringraziamenti prima a sua madre e poi a sua moglie.
Nadal tiene a una certa etichetta, e il suo discorso voleva essere formale, quella frase, però, ha una profondità diversa. Può suonare convenzionale perché si tratta di uno dei cliché più conclamati dello sport: ogni atleta ha il desiderio di chiudere la propria carriera con la sensazione di aver dato tutto, ma la realtà è che pochi ci riescono. A pochi è concesso il lusso di potersene andare senza alcun rimpianto. Per questo suona particolarmente vero quando Nadal parla di “assoluta tranquillità”. Ci trasmette un senso di pace che sentiamo in un certo senso anche nostro, che negli ultimi anni lo abbiamo visto rantolare nel patimento.
Nessuno sportivo, forse, è riuscito a portare così all’estremo l’idea di dare tutto; che è l’idea di esplorare ogni limite di se stessi e delle proprie possibilità. Lo ha fatto inseguendo questa frontiera con un accanimento radicale, che ha assunto sfumature persino perverse. Ci sono grandi talenti che si crogiolano all’idea di non aver completamente espresso il proprio talento; amano quella manipolazione seduttiva con cui possono far credere gli altri dell’esistenza di una propria versione immaginaria. È un meccanismo anche protettivo: quanto è duro offrire se stessi per intero e scoprire che non è abbastanza?
Per Nadal un’idea del genere era immorale. È un’idea che ha a che fare con l’insicurezza, la debolezza, soprattutto con la paura. Nadal ha invece scelto che la sua più grande paura sarebbe stata un’altra: abbandonare la propria vita agonistica con la sensazione di non aver dato tutto, proprio tutto, fino all’ultima goccia, che orrore sarebbe stato. Invece ora Nadal se ne può andare, appunto, in assoluta tranquillità.
Il suo è stato un tennis morale. È sempre stato consapevole del nodo che stringe sport e vita. Ha sempre saputo del potere metaforico, esemplare, della sua presenza su un campo da tennis. Ha sempre percepito netta la responsabilità. Si deve giocare a tennis per insegnare a vivere con la maggiore dignità possibile. Ha sempre saputo bene cosa rappresentava, e non poteva accettare di essere niente di meno di quello che avrebbe dovuto.
Nadal non è stato un eroe euripideo: ha scelto di non aver dubbi, chiaroscuri; ha scelto di non avere complessità emotiva. Come gli eroi di Sofocle, invece, ha portato all’estremo le conseguenze delle proprie scelte. Le ha accettate, abbracciate, ha cercato di scoprire fino in fondo dove lo avrebbero portato, con la massima ferocia possibile.
Nella sua versione magnifica, attorno al 2008, le sue partite erano muscoli, sudore, schizzi di sangue. Faceva paura, Nadal. Con i pantaloni a pinocchietto, la canottiera, i capelli sempre bagnati e trattenuti a fatica dalla fascetta. Era selvaggio. Nelle stanze che precedevano i campi, saltava e scattava come un toro prima di entrare in un’arena. Nadal lo sapeva, che l’avversario era costretto a guardarlo, ne annusava la paura. La paura verso tutta quell’energia, quella forza materiale. La paura, però, soprattutto verso la sua forza spirituale. L’idea che avrebbe fatto di tutto, davvero di tutto per vincere, che non avrebbe lasciato nulla all’intentato, che non avrebbe mai avuto la mano mal ferma, il pensiero opaco. Avrebbe giocato ogni scambio, ogni game, ogni set al massimo delle proprie capacità fisiche e mentali.
Cosa c’è di più spaventoso, cosa c’è di più temibile.
Come la verità ultima su un campo da tennis, Nadal avrebbe approfittato di ogni incertezza, di ogni crepa del tuo gioco. O l’avrebbe aperta lui stesso, a forza di dritti arrotati che dalla terra schizzavano verso il sole. E poi in quella crepa si sarebbe infilato, e ti avrebbe massacrato con la costanza brutale di un macellaio che squarta per passione.
Nadal è stato il competitore supremo, l’agonista finale.
L’unico uomo a cui fareste giocare il tiebreak da cui dipende la vostra vita.
Quando nella seconda parte della sua carriera le sue capacità fisiche si sono ridotte, i muscoli sgonfiati, allora quelle spirituali si sono acuminate. Nadal ha raggiunto nuove vette di durezza e lucidità. E quando, ormai vicino alla fine, il dolore è aumentato, e il corpo pulsava di dolore, in quella sofferenza ha trovato una ragione ulteriore, un’altra barriera da abbattere e superare. Attraverso il dolore far brillare il tennis dei santi e dei martiri cristiani. Andare oltre il dolore, nel punto oltre il quale il dolore è un inganno della mente, un’illusione. Dimenticate se stessi e le conseguenze. Giocare e soffrire, vincere e soffrire; non c’è gloria nella vittoria senza sofferenza.
Era stato addestrato per questo dallo zio Toni. Lo aveva costretto a giocare sempre sul lato assolato del campo; quando si deconcentrava gli arrivava una pallina addosso, se sbagliava il movimento del dritto gli arrivava un urlo contro. Era un bambino. Un giorno dimenticò la bottiglietta a un torneo, e allora dovette giocare assetato, perché lo zio Toni si rifiutò di compargliene una. Perché? Gli chiese; «Così la prossima volta impari a essere responsabile per te stesso». Nell'allenamento Nadal doveva vivere lo stress della partita, e anche di più. Giocare all'estremo, ai confini della sopportazione, perché così è la vita. Ti getta tra i lupi e devi trovare da solo il modo di sopravvivere. «Toni sottolineava sempre l’importanza della parola ‘resistere’. Resistere, tollerare qualunque cosa ti capiti, imparare a superare la debolezza e il dolore, spingerti fino al limite senza crollare. Se non impari questa lezione, non riuscirai mai a essere un grande atleta, ecco che cosa mi insegnava».
Col tempo il dolore è diventato il tono e l’umore delle sue partite, e il tennis si è trasformato in qualcosa di diverso. Non lo sport della borghesia, dello stile dell’eleganza; e nemmeno quella versione Heavy Metal che ha espresso Nadal al suo picco. A dire il vero non sembrava nemmeno più uno sport, un attività ricreativa, un'espressione di salute e benessere e potenza fisica. Era diventato qualcosa di serio e intricato, qualcosa di cupo e ammantato di una gravità medievale. Nadal non ride, Nadal non scherza, Nadal ti cazzia se fai qualcosa che non gli piace. Nadal iper-formale nelle conferenze stampa, conservatore e reazionario nelle sue posizioni politiche; Nadal una delle poche persone serie rimaste, l’ultimo ad arrendersi alla mercificazione degli atleti pur essendo stato uno dei più mercificati.
Nadal è stato un martire anche in un altro senso.
Quando Nike gli cuciva addosso il suo stile piratesco, quando Calvin Klein ne fotografava gli addominali, Nadal era il manzo da esporre nella vetrina, nei giorni più luminosi del capitalismo sportivo più splendente. E poi Nadal sul suo corpo, che è andato a pezzi precocemente, ha mostrato le conseguenze di quella ricerca della vittoria senza compromessi, di quell'ossessione. Coi suoi dritti paradossali, le sue difese impossibili, ci ha mostrato uno spettacolo inedito e implausibile. Ne ha pagato il prezzo più alto possibile; accettando di vivere nel corpo di un’anziano medicalizzato già a 30 anni.
Nella sua ultima ricerca di competitività, negli ultimi due anni della sua carriera, Nadal ha mostrato lo spettacolo della fine senza edulcorarlo. Lo ha messo in mostra in tutta la sua crudezza. Non dimenticheremo facilmente i dritti strozzati, le corse stanche, le grida furiose spente in una specie di rantolo. È stato doloroso per noi vederlo così, per lui invece sembrava normale. Aveva dato abbastanza per fregarsene del giudizio delle persone. Voleva scontrarsi da solo con l’inadeguatezza, scoprire sulla propria pelle che davvero non ne avesse più. Non vedeva altro modo.
Col suo ritiro ci porta via il suo patimento, che era per forza anche il nostro, che siamo cresciuti guardando le sue partite, e che dalle sue partite abbiamo imparato tanto. Quanto vicino ci ha fatto sentire, fino a toccarlo con mano, che lo sport è davvero la vita?
L’ultima partita di Nadal è stata una sconfitta contro Novak Djokovic, ai Giochi Olimpici, sul Philippe Chatrier, il campo su cui ha più edificato la propria leggenda. È stato uno spettacolo triste e violento, per me che guardavo. Lui invece è sembrato sereno, certo deluso ma in fondo pacificato. Aveva perso la possibilità di pareggiare gli scontri diretti con Nole, che in quel momento lo sopravanzava 31 a 29. Non sembrava interessargli. Era più importante che potesse dire a se stesso di averci provato, che aveva veramente raschiato il fondo dentro di sé. Ci ha mostrato com'era, senza più niente dentro. Nemmeno Federer o Djokovic possono dire lo stesso; la loro grandezza sta anche nel dubbio, nelle contraddizioni, nei rimpianti.
Nadal invece è arrivato davvero al punto oltre il quale non c'è più nulla, tennista del limite, dell'ultima frontiera. A pochi, o forse a nessuno, è stato concesso questo privilegio.